Stabiesi: gioiosi e irriverenti
Per questa sfiziosa rubrica voglio raccontare una volgaruccia e popolaresca scenetta, cui assistetti quando avevo 12/13 anni, cioè nel 1935/36. Per valorizzarla e far risaltare il carattere gioioso, irriverente e caustico del nostro popolino occorrerebbe la penna del grande Peppino Marotta. Ma accontentatevi della mia scarsa abilità affabulatoria.
In quegli anni a Castellammare esisteva una linea tranviaria che attraversava tutta la città facendo capolinea da una parte all’entrata delle vecchie Terme e dall’altra al piazzale della Ferrovia dello Stato.
Nei mesi della bella stagione in Villa, per godersi un po’ di frescura, e sentire le bande musicali che si esibivano sulla splendida nostra Cassa Armonica, si incontravano gli amici e i parenti. In stragrande maggioranza erano maschi; le donne non avevano tempo per bighellonare: a casa dovevano preparare il pranzo e accudire la numerosa figliolanza.
Oltre ad ascoltare la musica in compagnia, questi incontri servivano anche a scambiarsi pareri, a commentare i fatti del rione, a “murmuriare” e pettegolare sulle avventure galanti dell’uno o dell’altra. Quante di quelle boccaccesche vicende sono venuto a conoscere mentre facevo finta di distrarmi con i giochi, ma attentissimo ad ascoltare quei pettegolezzi!
Di domenica questi incontri avvenivano verso mezzogiorno e mio padre, che aveva altri tre fratelli, con essi si incontrava in quel ameno luogo.
Mio zio Luigi, che era il più vecchio e il meno istruito, faceva il calafato al Cantiere, e quindi fatto di “grana grossa”. Come quasi tutti gli stabiesi anche lui aveva un soprannome: cientemosse, che gli derivava dal fatto che non stava mai fermo. Quando parlava si agitava come una marionetta disarticolata: si sbracciava, saltellava, si piegava sul busto, roteava le gambe in tutte le direzioni e accompagnava il suo dire con delle esilaranti espressioni facciali degne del miglior mimo in circolazione. Insomma, un vero spettacolo. Inoltre era scuro e secco come un’aringa affumicata.
Abitava dalle parti della “Funtana ranna” e per giungere in Villa si serviva del tram di cui ho detto. Una domenica, verso mezzogiorno, gli altri fratelli, ed io con loro, lo aspettavano alla fermata posta all’altezza della “Banchina ‘e zì Catiello”. Il veicolo era zeppo di passeggeri, molti accalcati verso la discesa. Aggrappato ad un maniglione vi era un compunto sacerdote, forse venuto per la cura delle acque dall’entroterra campano. Accanto a lui mio zio che poco prima di balzare a terra emise un volgare e formidabile rumore corporale. Poi rivolto al religioso gli disse: “Zì prevete! Ma nun ve pigliate scuorno a ffà certi ccose!?”. Il buonuomo, sorpreso, esterrefatto e imbarazzato, non ebbe la prontezza di spirito di ribattere alcunché. Questa assurda situazione, pur se alquanto volgare, suscitò nei presenti una risata generale. Nel frattempo il tram riprese la sua corsa portando lontano i pensieri amari di un povero prete di campagna.
Gigi Nocera