a cura di Maurizio Cuomo
Al fine di preservare i vecchi detti stabiesi da una probabile estinzione generazionale, ne raggruppiamo a seguire alcuni tra i più noti.
A San Michele ‘a castagna sotto a ‘o pere
(A San Michele la castagna sotto al “piede”)
I lussureggianti boschi stabiesi di Quisisana (tradizionale oasi di frescura estiva) e le ampie zone del Faito coltivate a castagno, nel primo periodo autunnale offrono agli improvvisati raccoglitori in cerca di una boccata di aria salubre, la possibilità di portare a casa un abbondante cesto di prelibate castagne da fare al forno, lesse o arrostite. Poiché nel suddetto periodo è festeggiato San Michele Arcangelo (29 settembre), Patrono di Scanzano e Compatrono di Castellammare di Stabia, in devozione a detto Santo ha avuto origine il seguente caratteristico detto: “A San Michele ‘a castagna sotto a ‘o pere” (“pere”: inteso come piede d’albero, in dialetto stabiese “‘o pere ‘e castagno!”).
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‘A mula ‘e Spera: 39 chiaje e ‘a cora fraceta
(La mula di Spera: 39 piaghe e la coda marcita)
Senza ombra di dubbio in questa modesta raccolta di antichi detti stabiesi, la citazione del presente modo di dire, merita attenzione e spazio. Nella fattispecie questo detto proverbiale, identifica tutto ciò che è malandato per usura o che è stato sfruttato all’ennesima potenza. Una particolarità, questo vecchio detto stabiese, ancor oggi molto noto nella periferia nord di Castellammare (Annunziatella, Schito, Pioppaino), è una variante sfiziosa del popolare detto napoletano: ‘O ciuccio ‘e Fechella: 36 chiaje e pure ‘a coda fraceta (che qui a Castellammare, trova maggiore collocazione conoscitiva nella zona collinare).
Nell’approfondimento di questa nostra ricerca, siamo riusciti a reperire qualche dato in più che certamente sarà gradito a tutti gli appassionati e agli amanti delle tradizioni locali. Ecco i particolari emersi: lo stabiese Spera (al secolo Carmine) è vissuto a cavallo tra il 1800 e il 1900 in un edificio dell’allora strada Gragnano, attuale via Marconi di Castellammare ed era il proprietario della celebre mula, che poverina viene ancora oggi ricordata come una instancabile fedele lavoratrice che fu sfruttata fino alla vecchiaia e all’esaurirsi delle sue ultime forze (va da sé che il duro prolungato impiego lavorativo della mula di Spera, non fu messo in essere per sfizio o per cattiveria, ma per le necessità e le poche risorse economiche del tempo).
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A Santu Catiello ‘o sole ‘o castiello, a Santu Biase ‘o sole a tutt’ ‘e case
(A San Catello il sole al castello, a San Biagio il sole a tutte le case)
In questo detto proverbiale sono racchiusi alcuni tra i più noti simboli stabiesi: San Catello, attuale Patrono e protettore di Castellammare di Stabia; il Castello medioevale, per l’indissolubile legame alla città e San Biagio, secondo alcuni storici Patrono cittadino fino al VI secolo. La bellezza di questo detto marcatamente stabiese, trae origine dalla fortissima devozione religiosa che il popolo manifesta prendendo a riferimento i due Santi protettori che per grazia divina intercedono portando luce alla Città.
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Allo scopo di approfondire e per meglio comprendere come abbia avuto origine il presente detto popolare, a seguire aggiungiamo anche alcune interpretazioni:
“Un vecchio capo operaio del cantiere, don Luigi Vingiani, mi fece osservare, molti anni or sono (18 o 20 circa), che il 19 gennaio proprio dal cantiere si vedeva, dopo il lungo inverno, il castello illuminato dal sole ed il 3 febbraio, le case della zona antica, finalmente riscaldate dai raggi solari. Questa potrebbe essere un’altra interpretazione di carattere meteorologico locale, come quella che vuole l’avvicinarsi del cattivo tempo quando ci sono le nuvole nelle cosiddette “cosce di Pozzano”, cioè all’orizzonte (sud-ovest) guardando il cantiere dalla villa comunale. I proverbi ed i detti, comunque, si prestano a molte interpretazioni. Saluti e grazie per la tua consueta disponibilità (Dr. Antonio Cimmino)”.
“In riferimento a questo detto, vorrei far notare quanto mi riferiva un vecchio marinaio il quale asseriva che stava a significare il percorso che fa il sole che sorge dietro i monti lattari e la parziale ombra di gennaio che fa il Castello sulla città, cosa che si modifica con il sole di febbraio per cui ai primi di febbraio (S. Biagio come riferimento) il sole riesce finalmente a far luce sulla città. Relata refero, così mi è stato detto e credo possa contribuire a integrare le interpretazioni fin qui date (Dr. Angelo Del Gaudio)”.
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Casa quanne cape, terra quanne vide
(Casa quanto basta, terra quanta ne vedi)
A prima vista insignificante ed incomprensibile, questo antico detto contadino stabiese, racchiude in modo emblematico, tutta la praticità della popolazione di campagna. L’alzarsi alle quattro del mattino per assolvere l’impegno quotidiano (mungere, rassettare la stalla, seminare, raccogliere e quant’altro era richiesto), per poi rincasare a sera inoltrata, giustifica pienamente l’antico detto, che vedeva la casa (solo come luogo in cui dormire) ristretta ed essenziale, meglio se piccola ed appena sufficiente per contenere tutti i componenti della famiglia, al fine di lasciare più spazio al terreno da coltivare (unica fonte di guadagno e sostentamento).
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Fratte, sfratta e ‘a Putiella arrecetta
(Fratte, se ne libera e le Botteghelle raccolgono)
Per meglio comprendere questo detto, bisognerebbe conoscere più approfonditamente le origini dell’atavica rivalità tra queste due antiche fazioni collinari stabiesi (Fratte e Botteghelle). Rivalità generata molto probabilmente dallo spirito di competitività e dall’eccessiva vicinanza territoriale che fortunatamente trova una naturale divisione nel curvone del ponte delle Fratte (luogo prediletto da tantissimi pittori, per ritrarre il mirabile panorama con il Vesuvio), scenario di innumerevoli battaglie di gioventù e d’immancabili “surriate” (sassaiole), che per generazioni i ragazzi delle due antiche fazioni hanno animato sugli opposti versanti del ponte con lanci di sassi a sorvolare il vallone e a raggiungere le avversarie sponde, nello scellerato tentativo di colpire e di far male. Fatta la doverosa premessa e sottointeso che il detto, originario della zona “Fratte”, è volto a denigrare la zona “Botteghelle”, diamo a seguire una spiegazione per far ulteriore chiarezza sul significato del detto:
Fratte, sfratta (ovvero ciò che Fratte scarta perchè ritenuto superfluo ed inutile) ‘a Putiella arrecetta (viene raccolta dalle Botteghelle). Come ben si capisce questo detto è volto a sottolineare che la zona Botteghelle, tendenzialmente si accontenta di tutto, anche degli scarti delle Fratte.
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Quanno vatte ‘o vavillo, more ‘o tetillo
(Quando batte il vavillo, muore il pulcino)
Per meglio comprendere questo antico detto stabiese (ancora in uso nella zona collinare stabiese), bisogna fare una precisazione: il “vavillo” è un attrezzo tipico contadino costituito da una lunga pertica alla cui sommità è legato con una robusta corda un legno più corto; per maggior intendimento e precisazione il “vavillo” è lo strumento che i contadini stabiesi usano ancor oggi, per la battitura dei fagioli (operazione che permette una rapida fuoriuscita dei fagioli dai rispettivi baccelli precedentemente essiccati).
Questo antico detto trova una pratica spiegazione nel fatto che i fagioli si battono nel mese di luglio, in questo periodo si sconsiglia vivamente di far covare le uova alle chiocce perché il troppo caldo fa morire i pulcini.
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‘O Vesuvio c”o cappiello, priparateve ‘e ‘mbrielle
(Il Vesuvio col cappello, preparatevi gli ombrelli)
Questo detto proverbiale, così come lo si legge (semplice e conciso), racchiude tutta la saggezza del “Vecchio antico”, che dall’alto della sua esperienza di vita vissuta, se il Vesuvio (nostro eterno dirimpettaio), risultava coperto da un “cappello” di nuvole, consigliava di tenere a portata di mano l’ombrello, perchè la pioggia di certo non avrebbe tardato a venire. Aggiungiamo doverosamente e con particolare piacere che la pubblicazione di questo antico detto stabiese è legata al ricordo della buon’anima di Francesco Rosato, cittadino stimato che abitava nella zona delle “Fratte” (per molti meglio noto come Ciccio “Bosco”, soprannome attribuitogli perchè appassionato di caccia e della montagna in genere).
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Scafate, schifate: mal’acqua, mala ggente, pure ll’evere è fetente
(Scafati, schifatela: cattiva acqua, cattiva gente ed anche l’erba è maleodorante)
A dovere di cronaca inseriamo questo detto (dal quale, però, ci dissociamo) la cui origine denota una forte avversione per il territorio ed i cittadini scafatesi. La ricchezza idrogeologica stabiese, contrapposta all’acqua appena sufficiente per dissetare il cittadino scafatese, l’estrema vicinanza alla cittadina “salernitana” (considerando l’ancestrale rivalità, tra napoletani e salernitani, estesa anche alla provincia) e l’erba maleodorante cresciuta sulle sponde dell’inquinatissimo Sarno (che attraversa l’intera città di Scafati), potrebbero aver generato questo caratteristico detto.
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Allo scopo di approfondire e per meglio comprendere come abbia avuto origine il presente detto popolare, a seguire aggiungiamo anche una breve storiella raccontataci dalla prof. Gelda Vollono (tramandatale da suo padre), la quale così ci scrive:
“Caro Maurizio, voglio riferirti la storiella, che era solito raccontarmi mio padre, a proposito del detto stabiese: “Scafate, schifate: mal’acqua, mala ggente, pure ll’evere è fetente”. La storiella è questa: un giorno un monaco, andando per questua, capitò nelle campagne di Scafati e, venutagli sete, bevve dell’acqua alla prima fonte che gli capitò a tiro. Ma subito dopo fu colto da forti dolori addominali e pertanto si vide costretto a chiedere ad una contadina del posto l’uso del gabinetto. Avendo ricevuto da costei uno sgarbato rifiuto e dovendo soddisfare urgentemente ai suoi bisogni corporali, si acquattò dietro un cespuglio e per pulirsi usò l’erba che era nei paraggi. Colto da grande e doloroso prurito si accorse che l’erba di cui si era servito era ortica e fu allora che, preso da comprensibile rabbia, sbottò pronunciando la famosa frase che è arrivata fino a noi. Non so quanto di vero ci sia in questo racconto, ma poiché ci sono cresciuta con questa verità tramandatami da mio padre ho sentito il bisogno di fartela conoscere. A presto Gelda”.
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Scanzano, scanzatelle; Private, privatenne e quanne arrive a Mezapreta,
aize ‘ncuolle e tuornate arrete
(Scanzano, scansatelo; Privati, privatene e quando giungi a Mezzapietra
“fa i bagagli” e torna indietro)
Purtroppo la traduzione dal dialetto non rende appieno l’idea della carica emotiva trasmessa da questo vecchio detto. In effetti i tre terzieri collinari: Scanzano, Privati e Mezzapietra, insieme al centro storico stabiese (che affaccia sul mare), sono le zone più antiche della Città. Da ciò ha avuto probabilmente origine questo detto popolare, con il quale, (forse per la sana competizione che di solito caratterizza le città viciniori o anche le frazioni di uno stesso Comune), gli abitanti della zona alta volevano enfatizzare e rimarcare, che in caso di invasione, gli abitati in riva al mare erano estremamente più deboli e vulnerabili, perché privi della sicurezza strategica naturale, ampiamente concessa a loro che vivevano a monte (peculiarità di vanto di non trascurabile conto, forse enunciata a mo’ di sfottò con questo antico detto).
P.S.: Per giusta precisazione facciamo notare che il detto riporta in sé un piccolo errore (probabilmente obbligato per dare una rima finale), al quale, non tutti fanno caso: nello specifico il percorso (che nel detto è vietato idealmente all’incauto avventore che si dovesse trovare sul luogo), non rispetta appieno la reale disposizione morfologica delle tre frazioni che formano il terziere, perché erroneamente inverte Privati con Mezzapietra, posizionando quest’ultima frazione più a monte, quando invece in realtà essa per chi sale da Scanzano viene a trovarsi molto prima.