a cura del prof. Luigi Casale
Una volta esisteva una materia scolastica che si chiamava Economia domestica. Era riservata alle ragazze delle scuole medie.
Per chi avesse avuta una formazione universitaria, per chi leggeva il giornale, per chi in qualche modo seguiva le sorti dei propri risparmi, per chi solo masticasse un poco di politica, o conducesse in proprio una qualsiasi attività produttiva, per costoro l’economia – parola altisonante – corrispondeva ad una cosa complicata da coinvolgere ed interessare addirittura la vita e la sorte degli uomini e degli stati.
Per essi il sentir parlare di “economia domestica” appariva una vistosa banalizzazione.
Per noi invece – gente non sufficientemente acculturata e non in grado allora di comprendere i sottili legami tra le parole – per noi “economia” era, sì, una parola importante, ma non certo collegata, né alla sorte delle nazioni, né tanto meno – per essere “domestica” – alla formazione scolastica delle fanciulle. Nella nostra lingua (e nella nostra vita) l’economia era un impegno serio di tutta la famiglia. Era sinonimo di risparmio. E come tale non poteva essere altro che domestica.
Mio padre usava spesso questa parola. Soprattutto perché sapeva bene che quanto guadagnato il giorno prima non sarebbe bastato, il giorno successivo, a dare da vivere a cinque persone. E ad una famiglia non servono solo gli alimenti. Per quanto importanti e … indispensabili. “Non di solo pane vive l’uomo!”
Per la mamma era una parola sconosciuta, ma lei era quella che più di tutti sapeva metterla in pratica: cercava di realizzarla senza farcene accorgere. E in effetti sembrava che non ci mancasse niente. Con questa percezione siamo cresciuti.
L’espressione “Economia domestica” perciò, a chi per un verso a chi per l’altro, appariva un accostamento di parole che disturbava, in quanto l’aggiunta dell’aggettivo “domestica” sminuiva, offendeva, nell’uno e l’altro caso, la pretenziosità, la solennità, propria dell’altisonante termine “economia”. Era, insomma, un’inutile ridondanza. Poi, in età di scegliere la facoltà universitaria, scoprimmo che fra i percorsi degli studi superiori esisteva anche una “laurea in economia e commercio”.
Adesso che gli studi li ho terminati, con cognizione di causa mi chiedo: Ma come fa l’economia a non essere domestica? E non lo dico, perché chi sa da quale ideologia soggiogato; ma proprio perché sotto l’aspetto puramente linguistico l’espressione non regge. Dal punto di vista della semantica storica. Etimologicamente parlando. Perché l’economia o è “domestica” o non è.
E vediamo perché.
“Domestica” – che non è la cameriera – significa: che riguarda la casa (lat: domus). Perciò si tratterebbe di una “economia” che riguarda la casa.
Ma analizzando poi la parola “economia”, troviamo che essa è formata da due radici greche: oíxou e nómos (οίκου + νόμος) di cui la prima significa “della casa”, e la seconda: “legge, governo, amministrazione”. Economia, dunque, stando alla sua forma etimologica è proprio il governo, l’amministrazione della casa (oíkou).
Quindi dire economia domestica è come se dicessimo “domestica amministrazione della casa”. A questo punto è naturale chiederci come fa l’economia ad essere anche domestica?
Evidentemente la metafora, attraverso l’uso originale che il parlante ha fatto e fa della parola “economia”, ha portata il termine a coprire un’area di significato molto più ampia di quella indicata dalle due radici di cui essa è formata. Perciò per ricondurla al significato originario, quello etimologico, è stato necessario aggiungere l’aggettivo “domestica”. Ricavato questa volta dalla lingua latina.