Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Le discrete e simpatiche sollecitazioni dei miei giovani amici stabiesi mi inducono, ogni tanto, a parlare dei miei ricordi giovanili. Ciò mi obbliga ad arrampicarmi agli ormai sottili e aggrovigliati fili della mia memoria (“‘a vicchiaia è ‘na brutta bestia!”, diceva mio padre). Ma per mia fortuna i cromosomi ereditati dai miei genitori, e il costante esercizio cui sottopongo questo meraviglioso giocattolo che è il cervello (come lo chiamava Charlie Chaplin) mi permettono di soddisfare le loro richieste. Ciò è dovuto anche al fatto che ero un bambino, un giovane, curioso di tutto; tutto mi interessava. Ero un osservatore attento. Quindi non ci si deve stupire se i ricordi che ogni tanto affiorano nella mia mente sono abbastanza precisi. Del resto è noto che i vecchi ricordano bene le cose del lontano passato e dimenticano facilmente i fatti recenti.
E veniamo a noi. Io ho avuto la fortuna di vivere gli anni della mia fanciullezza, prima giovinezza nel centro storico di Castellammare. Dove vi abitavano famiglie di tutti gli strati sociali. Dal sotto-proletariato, agli operai, dagli artigiani ai negozianti. Nella mia stessa famiglia convivevano due categorie sociali: mio padre modesto, ma dignitoso impiegato statale e mio nonno materno benestante commerciante. Questo privilegiato osservatorio (la strada e la famiglia) mi permette ora di soddisfare la curiosità del miei amici stabiesi che vogliono sapere come ci si vestiva allora. Gli uomini, quasi tutti e quasi sempre, portavano il cappello. Specialmente coloro che appartenevano alla piccola/media borghesia. Anche se l’abbigliamento era modesto il gilé, con numerosi taschini, completava l’abbigliamento. Ma siccome tutto aveva una funzione, in uno dei suoi molti taschini si riponeva l’orologio (allora non erano in voga quelli da polso) tenuto in sicurezza da una catenella (molte volte d’acciaio, poche volte d’oro o d’argento) infilata in un’asola dello stesso gilé. Negli altri taschini si riponevano le monete metalliche allora in corso. Dato che la unità di misura monetaria era la lira, buona parte delle merci che si comprava era pagata in centesimi. All’età di 10/11 anni andavo a fare il garzone da un barbiere che si trovava di fianco alla Chiesa della Pace. L’importo della mercede che ogni tanto si degnava di darmi era a sua completa discrezione. Una sola condizione garbatamente gli ponevo: che fosse tutta in centesimi. Quando questo modestissimo frutto del mio impegno, lo consegnavo a mia madre mi sembrava di donarle un tesoro. E sentivo forte l’orgoglio di aver partecipato anch’io al miglioramento delle sorti economiche della famiglia (figuriamoci! Con pochi centesimi!).
Parliamo ora di un altro indumento che, a volte, distingueva gli uomini appartenenti ai diversi ceti sociali. Quelli di ceto medio basso portavano le camicie col colletto floscio, oppure alla coreana, cioè senza le alette laterali. Quelli di una classe più elevata indossavano camicie col colletto staccabile, unito alla stessa con dei bottoncini. Questa particolarità aveva una sua funzione specifica che era la seguente. Poiché la cravatta faceva parte dell’abbigliamento, il colletto doveva essere duro, quindi appena sporco si lavava a parte e quindi inamidato. Poi, una volta indossata la camicia il colletto veniva unito ad essa con i suddetti bottoncini. Tale operazione come si può immaginare era alquanto laboriosa, quasi da contorsionista. Rivedo ancora mio nonno davanti allo specchio con le mani dietro al collo armeggiare per abbottonarsi convenientemente. E quando aveva delle difficoltà di fronte a qualche bottone riottoso in casa volava il richiamo: “Catè!” e la povera Catella, che era affaccendata alla fornacella per la preparazione del ragù o della pasta e fagioli, accorreva con aria infastidita. Il compendio visivo di quanto ho esposto lo si può vedere osservando le fotografie dei miei nonni. L’uno, operaio del Cantiere (e si vede!); l’altro, l’agiato commerciante (e pure questo si vede).
Un altro addobbo del quale facevano sfoggio i più raffinati erano le ghette, oggi in disuso. E che cosa erano? Erano degli accessori che si indossavano sopra le scarpe ed allacciate lateralmente con dei bottoncini. Una volta avevano la funzione di proteggere le caviglie. Poi diventarono un segno distintivo di una certa eleganza.
E le donne come vestivano? Incominciamo con l’indicare quello che non indossavano; per esempio i pantaloni, oppure le gonne corte sopra le ginocchia.
Anche per loro esisteva la discriminante dovuta alla differenza di classe sociale. Quelle della media borghesia in su, in certe occasioni, indossavano dei bei cappelli. A volte confezionati da abili artigiane chiamate “modiste”. Questo termine potrebbe indicare genericamente tutte quelle che si interessano della moda; e invece no, le modiste ideavano e confezionavano soltanto cappelli da donna.
In primavera-estate indossavano delle belle camicette discretamente scollate (o accollate secondo i punti di vista) sopra a delle gonne lunghe. Le scarpe avevano i tacchi abbastanza alti tali da dare slancio alla figura e mettevano in risalto la bellezza delle donne stabiesi. In verità la mia memoria non ricorda, a Castellammare, donne brutte. Modeste, sciatte, ma brutte no. Forse questo mio deciso giudizio è influenzato dal ricordo di mia mamma che era proprio una bella donna. Ce l’ho davanti agli occhi, con una bella camicetta a pois blu e un colletto plissé.
Ho incominciato col descrivere come vestivamo negli anni ‘30 ed ho finito con l’omaggiare le nostre donne. Forse trascinato a questa conclusione dalla grande nostalgia che mi prende quando parlo della nostra bella e disgraziata Castellammare”.
Gigi Nocera.