( nei ricordi del dott. Raffaele Scala )
Premessa d’autore:
A Maurizio Cuomo che ama scoprire e far rivivere storie antiche, e pur sempre moderne, di una Castellammare che non esiste più, qui propongo una sorta di “Chi l’ha visto”, narrando una storia assolutamente vera e più interessante di tante telenovelas, oggi così di moda. Questa storia piacerà anche a Donna Assunta Carrese, che, chissà, aprendo uno dei tanti cassettini della sua memoria, non possa svelare questo pezzo di verità nascosta nei meandri delle stradine del Centro Antico, ormai sepolta dalla polvere del tempo. E allora andiamo al racconto in allegato così come l’ho raccolto e che giro all’attenzione dei lettori di questo sempre più prezioso sito.
Vostro, Raffaele Scala.
Alfonso, sposato con prole, viveva nel cuore del Centro Antico, quando nella seconda metà degli anni Venti sedusse la più giovane e nubile Giovanna. Non fu il capriccio di un momento, ma una vera storia d’amore, una lunga relazione dalla quale nacquero due figli, Emilia e Gennaro. Ma non per questo Alfonso lasciò la sua famiglia, non voleva e non poteva, non lo consentiva la legge, non lo consentivano le sue condizioni economiche, non lo consentiva la morale ipocrita del sistema. Ma come poteva la piccola Giovanna portare avanti quei due figli illegittimi? Suo padre, Luigi, lavorava come domestico in casa della famiglia Scarselli, la moglie, Nunzia, faceva la portinaia, nel “Palazzo dell’ascensore”, in Piazza Quartuccio, così chiamato perché fu il primo edificio di Castellammare a dotarsi di quel moderno mezzo di trasporto per evitare di salire a piedi le dure scale e c’erano quattro femmine, un maschio e più di una tragedia in casa da gestire. Come risolvere il problema? Giovanna non sapeva che fare e allora la soluzione venne a sua sorella maggiore, Margherita: in quegli anni la Città delle Acque era meta preferita di una florida colonia di pugliesi che aveva scelto le Terme di Castellammare per curarsi, tra questi una coppia senza figli. Forse la coppia seppe della storia di Giovanna, della sua tragedia senza soluzione, forse contattò o fu contattata, resta il fatto che fu Margherita a prendere l’iniziativa, a trovare l’accordo, affidando nelle mani della coppia pugliese la primogenita della sorella, la piccola Emilia che, così, cambiò famiglia e città.
Emilia crebbe senza nulla sapere, fino a quando, pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, alla vigilia del suo matrimonio, avendo necessità di presentare alcuni certificati non venne fuori la sua vera origine. Emilia non si perse d’animo, prese carta e penna, scrisse al sindaco di Castellammare, quel Pasquale Cecchi, primo sindaco comunista di una città che si apprestava a conquistare la fama di essere la Stalingrado del Sud. E Cecchi, fatte le dovute indagini, rispose che sì, a Castellammare ancora abitavano sua madre e suo fratello. Ma alla nostra Emilia non interessava la sua madre biologica, interessava quel fratello che non sapeva, o più semplicemente non ricordava di avere. Si contattarono, si conobbero tra lagrime di gioia e tanta felicità, e si frequentarono, nei limiti delle distanze che li separavano, per il resto della loro vita, fino a quando, uno dopo l’altro, non lasciarono questa Valle di lagrime nella seconda metà dello scorso decennio.
Ma questa è solo una finestra della storia che sto raccontando e allora torniamo a quegli anni bui del regime fascista, a questa famiglia un poco sgangherata in lotta con le quotidiane difficoltà, aprendone un’altra su altri componenti della famiglia. Margherita, sorella maggiore di Giovanna aveva avuto un fidanzato dal quale era stata abbandonata, forse proprio in virtù di quella sorella scapestrata e leggera, fuggito da uno scandalo di cui tutti parlavano, per non essere coinvolto dalla condanna senza appello della società. Margherita passava le sue giornate a piangere, fino a quando il fratello, l’unico fratello che aveva, non decise di risolvere almeno quel problema, che a sua volta pesava come un macigno sull’onorabilità già compromessa della famiglia. Andò a cercarlo dove sapeva di trovarlo, in una “cantina” di via San Vincenzo, antico luogo di ritrovo degli uomini, oggi scomparso, dove ci si fermava a bere un bicchiere di vino, magari accompagnato da un pezzo di pane e formaggio e si chiudeva la serata giocando a carte. Arrivato fuori al locale, lo chiamò, invitandolo ad uscire e il fedifrago uscì, arrogante e un poco sbruffone, forse reso forte e incosciente dall’alcool e lo mandò a quel paese insieme alla sorella. Tanto bastò per estrarre il coltello e affondarlo nelle carni del giovane, straziandolo e lasciandolo a terra morto in una pozza di sangue. Tutto questo accadeva alla fine degli anni Venti, doveva essere il 1929…
Giovanna trovò un marito, un vedovo con figlio, Matteo, che crebbe con Gennaro e con Ciro, figlio di Margherita. I tre ragazzi crebbero per strada, come scugnizzi, come tanti della loro generazione, dormendo spesso, nelle calde sere d’estate, nelle barche adagiate sulla banchina di Zi’ Catiello, rubando carote nei campi, e frutta dai carretti dei fruttivendoli o dagli alberi delle campagne vicine, lustrando scarpe agli anglo americani a zonzo per la Castellammare occupata dalle Forze Alleate, guadagnandosi da vivere depredando carcasse di carri armati abbandonati sul ciglio della strada. Un lavoro pericoloso che non sempre andava bene, qualche volta, infatti, capitò a qualcuno di saltare in aria, come sembra, accadde ad un padre e ad un figlio, morti smembrati dal proiettile rimasto inesploso nella canna del cannone del carro armato.
Quando Gennaro aveva fame e non sapeva come rimediare e dove andare, allora s’incamminava verso la cucina dell’Hotel Stabia, dove sapeva di poter contare su quel padre che non lo aveva riconosciuto, ma non per questo gli faceva mancare il suo aiuto, fosse soltanto un piatto caldo, un pezzo di pane, un poco di carne bollita. Gennaro si sposò presto, appena diciottenne, senza avere né parte né arte, ma mai gli mancò la voglia di fare, di lavorare, di rompersi la schiena per quattro soldi, accettando di farsi sfruttare da padroni senza scrupoli. Lui voleva avere una famiglia sua, una famiglia vera cui non fare mancare nulla, cui riversare quell’affetto e quell’amore che solo nasce dal focolare familiare e s’irradia riscaldando il mondo e rendendoci umani.
Gennaro visse facendo del bene, amato e rispettato e quando morì i figli non poterono non scrivere sulla sua tomba: Marito esemplare, fu il Migliore dei Padri, Un Uomo Buono.
Questa Storia la potremmo chiudere qui, ma ci rimane una domanda ancora senza risposta: chi era Alfonso? Le cronache raccontano che ha lavorato fino agli anni sessanta come cuoco, o comunque nelle cucine, dell’Hotel Stabia, poi si è goduta la pensione, i figli, i nipoti, quelli nati legittimi. Pare sia scomparso nel corso degli anni Settanta, ma non vi sono certezze. Alfonso, non ha un volto, né si conosce il suo cognome per identificarlo, eppure doveva essere una persona nota nel Centro Antico, forse alcuni di quelli che lo hanno conosciuto sono ancora viventi, sicuramente lo sarà qualche figlio, qualche nipote. Forse anche Donna Assunta Carrese lo ha conosciuto e potrebbe dipanare il filo di questa matassa nascosta dalla polvere del Tempo. Forse…
Raffaele Scala
Notizie dell’ultima ora raccontano che in realtà il nostro misterioso Alfonso non fosse del Centro Antico ma del quartiere Annunziatella e che nell’Hotel Stabia avesse lavorato con la mansione di dispensiere. Nel Centro Antico vivono o hanno vissuto i suoi figli. La veterana Assunta Carrese potrebbe aiutarci, in toto oppure in parte, a risolvere il rebus?