di Raffaele Scala
Caro Maurizio, torno con una nuova pubblicazione di tipo particolare, forse non per tutti. Non più storie e vicende di un secolo fa, ma di straordinaria attualità, l’ultima epopea del movimento operaio stabiese torrese prima del crollo finale, della sconfitta definitiva, non solo del sindacato e della politica, ma dell’intera città, anzi di due Città condannate ad una lenta agonia, come è possibile vedere a partire dallo spettacolo indecente della villa comunale, dell’abbandono della Cirio, dell’Avis, delle Terme, Vecchie e Nuove, degli stessi cantieri navali, per non parlare del degrado morale e civile di una intera classe dirigente, sempre più incapace e corrotta,
Oggi che è caduto anche l’ultimo baluardo della Democrazia Operaia, sconfitta ed umiliata, non resta che rileggere la storia ultima degli anni novanta del secolo appena trascorso, sperando di poter trovare gli stimoli giusti per riuscire a risorgere dalla proprie ceneri.
Sperando che diventi patrimonio di tutti, colgo l’occasione per inviare a te e all’intera redazione gli auguri di serene festività pasquali.
Raffaele S.
Capitolo primo:
Il III Congresso comprensoriale della Camera del Lavoro. 1991
Anni difficili, ricchi di storia, quelli a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta del secolo trascorso. Si comincia in novembre, correva l’anno 1989, con la caduta del Muro di Berlino, segnando uno spartiacque tra vecchio e nuovo secolo. Lo storico marxista inglese, Eric J. Hobsbawm, in un saggio pubblicato nel 1994 definì il Novecento il Secolo breve (1914 – 1989), mentre il politologo americano Francis Fukuyama, più drasticamente, pronosticò la fine della storia facendola coincidere con il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo, intesa come fine delle ideologie e vittoria finale del liberalismo democratico.
In Italia l’inizio della fine prossima ventura dell’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti, ebbe immediate ripercussioni nel Pci: Achille Occhetto, l’ultimo Segretario Generale del più potente Partito Comunista dell’occidente, decise di portare alle estreme conseguenze una discussione e un dibattito già avviato da tempo sulla necessità di cambiare il nome al glorioso Pci creando le condizioni per approdare all’unificazione con i socialisti e si presentò il 12 novembre 1989 ad una riunione di partigiani riuniti per commemorare la battaglia della Bolognina. Intervenendo, Occhetto colse l’occasione per lanciare la più radicale proposta di cambiamento, di trasformazione del grande partito di Gramsci nella nuova Cosa, per essere pronti alla sfida del terzo millennio. Se il crollo del muro di Berlino aveva lasciato senza parole, increduli, molti militanti e se lo shock per l’improvvida fine dell’Unione Sovietica, qualche anno dopo, sarà grande, ai limiti del trauma, per un considerevole numero di compagni cresciuti nel mito del Soviet, non meno dolorosa fu la decisione di porre fine alla storia del Pci. Superati i primi attimi di smarrimento, seguì la reazione, in alcuni casi rabbiosa, violenta e il Partito si divise tra favorevoli e contrari, rompendo amicizie, incrinando matrimoni, provocando risse tra compagni legati da sempre. La passione avvolse il popolo della sinistra dividendolo nel terribile confronto tra no e sì, ma quando ci si contò in congresso, il XX e ultimo del Pci, furono oltre il 65% a pensarla positivamente sulla nascita della nuova forza politica poi denominata Partito Democratico della Sinistra (Pds), all’ombra di un nuovo simbolo che mandava in soffitta la vecchia falce e martello per sostituirlo con una quercia. Il prezzo pagato fu la scissione voluta dal vecchio Armando Cossutta, militante del Pci dal lontano 1943 e filosovietico per antonomasia, dall’ex sindacalista della Cgil, Sergio Garavini (1926 -2001) e dalla stabiese Ersilia Salvato, eletta appena pochi mesi prima nella Direzione nazionale del Pci.
Castellammare si dissanguò nella fratricida guerra, e se nella sezione Togliatti prevalse il Sì, nella Grieco e all’Italcantieri vinsero invece i No, e non mancarono momenti d’alta tensione, ai limiti della rissa perfino tra compagni noti per la propria flemma. E la scissione locale avvenne per opera di un gruppo di vecchi militanti guidati da Luigi D’Auria, Franco Martoriello e Giuseppe Ricolo, vecchio avvocato dell’ufficio vertenze della Camera del Lavoro stabiese, nel PCI da sempre e per sempre. Il primo Circolo della Rifondazione comunista aprì la sua sede in Via Massimiliano Kolbe, una stradina alle spalle della centralissima Piazza Principe Umberto.
Il 1991 non si era aperto soltanto con il Congresso del Pci convocato per sancire la nascita della Cosa voluta da Occhetto, altri fatti più drammatici sopravvennero, sconvolgendo il già delicato equilibrio nel rissoso medio oriente coinvolgendo il resto del mondo: gli Stati Uniti su ordine del suo 41° Presidente, il repubblicano George Herbert Bush senior, alla testa di una coalizione internazionale di 27 Stati, tra cui l’Italia, invase l’Iraq di Saddam Hussein. La prima Guerra del Golfo contro il feroce dittatore, responsabile del genocidio del popolo curdo e della lunga e sanguinosa guerra dei dieci anni contro l’Iran dell’ayatollah Khomeini, costò circa un milione di morti e l’odio imperituro del mondo islamico contro l’impero del male americano e occidentale. A far traboccare la classica goccia d’acqua era stata l’invasione, nell’agosto 1990, del confinante Kuwait, considerato da Saddam, una sua provincia e come tale in diritto di annetterla, in realtà per soddisfare la sua sete espansionistica ed avere uno sbocco a mare per realizzare una sua flotta navale. I considerevoli interessi occidentali, e americani in particolare, legati ai pozzi petroliferi del piccolissimo e ricchissimo emirato non potevano lasciare indifferenti gli Stati Uniti, decisi a liberarsi del pericoloso ex alleato, spintosi oltre il dovuto.
I pacifisti non aspettarono l’inizio del conflitto, 16 gennaio 1991, per far sentire la loro protesta. Fin dal settembre 1990 in Italia e nel mondo si susseguivano le iniziative popolari per sensibilizzare l’opinione pubblica, con manifestazioni, volantinaggi, assemblee pubbliche, documenti sindacali, forze politiche e associazioni di varia natura. Castellammare, fedele alla sua tradizione, fu tra le prime a mobilitarsi con iniziative dei circoli della sinistra comunista, della Camera del Lavoro e ordini del giorno diramati dai Consigli di Fabbrica. Infine su iniziativa degli studenti di sinistra, il 18 gennaio fu organizzata una delle più grandi manifestazioni contro la guerra messa in piedi dalla gioventù stabiese, con quasi diecimila persone in piazza a protestare. Il conflitto terminerà a fine febbraio, lasciando sul terreno centomila morti irakeni, mentre la coalizione avrà 213 caduti, di cui 146 americani. Per la paura di un vuoto di potere o, più correttamente, per le oscure trame della politica, fu evitata la caduta del regime, lasciando al suo posto il dittatore irakeno.
Per vedere la fine di Saddam Hussein (1937 – 2006) bisognerà attendere dodici anni, pagando il costo assurdo di una nuova guerra e un numero infinito di morti innocenti. La seconda guerra del golfo, inizierà il 20 marzo 2003, quando gli Stati Uniti, per riprendersi dall’orripilante shock causato dall’attacco terroristico fatto nel cuore dell’America, contro le due torri gemelle, l’11 settembre 2001, con 2.749 morti, deciderà di dichiarare guerra al terrorismo internazionale attaccando prima l’Afghanistan, dov’era nascosto l’ideatore del folle attentato, Bin Laden (1957 – 2011), e successivamente l’Iraq di Saddam Hussein, colpevole, secondo Bush e il suo establishment, d’essere sostenitore del terrorismo internazionale e di possedere armi chimiche. Si scoprirà in un secondo momento la falsità delle accuse, in gran parte costruite a tavolino dai servizi segreti americani, inglesi e italiani, ma tutto ciò, per un opinione pubblica mondiale ormai spaventata dal farneticante terrorismo degli integralisti islamici sarà soltanto un dettaglio superfluo. Aveva ormai preso piede il pensiero unico della difesa dei valori dell’Occidente contro il pericolo islamico, un tasto su cui si batterà molto, fino alla fine la stessa Oriana Fallaci (1929 – 2006), una delle più lucide giornaliste di fama mondiale, passata dal fronte progressista alle posizioni sempre più conservatrici e retrive degli ultimi anni della sua vita.
Il terrificante attacco americano e dei suoi alleati porterà all’abbattimento del regime e alla cattura dello stesso dittatore, non senza pagare un altissimo prezzo in vite umane, vittime nel lungo, interminabile dopoguerra della guerriglia irakena e dei sempre più numerosi attacchi suicidi, i martiri islamici, con autobomba e cinture esplosive. Cifre non ufficiali parlano di almeno un milione di morti tra gli irakeni a fronte degli oltre 4.800 caduti militari americani. Un costo pagato dagli italiani con almeno 33 morti tra militari e civili, di cui 19 a Nassiriya, a seguito di un attentato suicida irakeno contro la base militare italiana, il 12 novembre 2003 provocando, complessivamente, 28 morti e 140 feriti. Più alto il prezzo in vite umane pagato in Afghanistan dove i caduti ammontano a 53, di cui gli ultimi tre in seguito ad un incidente nel febbraio 2012.[1]
Neanche la morte di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio 2011 nel corso di uno spettacolare blitz da parte delle forze speciali americane, intervenute con due elicotteri e 79 uomini della Navy Seal, in un azione lampo durata 40 minuti atterrando nella villa in cui si nascondeva ormai da diversi anni, nella città di Abottabad, presso Islamabad in Pakistan, ferma l’estremismo islamico di al-Qaeda. Pochi giorni dopo la morte del carismatico leader del fanatismo islamico, infatti, un attentato suicida provocò 87 morti tra giovani reclute all’interno di un centro di addestramento delle guardie di frontiera a Shabqdar nello stesso Pakistan.
Mentre questi grandi avvenimenti sconvolgevano il mondo e non lasciavano indifferente l’antica Stalingrado del Sud, qui i lavoratori continuavano, tra le altre innumerevoli incombenze, a dibattersi tra le mille angustie del vivere quotidiano, le piccole speranze, i fragili sogni come la nascita della sesta provincia, ancora tutta da inventare, inseguendo un’autonomia senza futuro. Quando la speranza di creare una nuova provincia sembrò volatizzarsi, sotto la spinta dei reciproci veti, l’eclettico Presidente della provincia, Salvatore Piccolo, utilizzando le norme sull’autonomia locale previste dalla legge 142/90, che dava un anno di tempo per ridisegnare nuovi assetti territoriali nell’ambito delle aree metropolitane da costituire, ideò allora un nuovo progetto, inventandosi, o meglio riscoprendo un’antica, abolita istituzione: i circondari di monarchica memoria. L’idea era quella di dividere i 92 comuni della provincia in cinque circondari, tenendo conto di aree omogenee per storia, cultura, economia e tradizione, avendo per capoluogo Castellammare, Pozzuoli, Nola e un non meglio identificato comune dell’area a nord di Napoli (Afragola? Casoria? O che?) e, naturalmente la stessa ex capitale del Mezzogiorno. Il progetto, di per sé non era malvagio se inserito in un contesto nazionale di totale abolizione delle province e la loro sostituzione con i più agili circondari, alleggeriti della sempre più inutile sovrastruttura politica e avendo come riferimento l’ente regionale. Ma questo non era e di proposta in proposta, la follia avanzava, non trovando più confini, fino a sbizzarrirsi nella divisione della stessa Napoli, in sei, otto o addirittura 21 municipi, tanti quante erano le circoscrizioni. Una battaglia tutta politica e tutta interna alla Democrazia Cristiana napoletana, e in parte al Psi, con i suoi leader, grandi e piccoli, a sbranarsi sulle zone di competenza come tanti piccoli viceré in cerca di un regno da conquistare, governare e spremere.
Da questa disputa, sempre più aleatoria, non riuscirono a starsene fuori neanche le organizzazioni sindacali del comprensorio, partorendo a loro volta un documento in cui si schieravano a favore della sesta provincia. Un sogno inseguito fin dal 1926 e destinato a rimanere tale per sempre. Infatti, il governo tecnico di Mario Monti, l’uomo che sognava la Grande coalizione per avere più forza dentro l’Unione monetaria, già nell’ormai lontano 1998, al tempo in cui era commissario europeo, subentrato a Silvio Berlusconi nel novembre del 2011, affonderà la prima picconata verso il sostanziale superamento di un organismo diventato ormai obsoleto, trasformandolo in ente di secondo grado, con consiglieri e presidenti non più eletti dal popolo ma dai sindaci e dai consiglieri comunali della stessa provincia, producendo, per questo solo fatto, un risparmio valutato intorno ai 320 milioni di euro. Gli stessi organismi saranno estremamente ridotti e portati da un minimo di dieci ad un massimo di sedici consiglieri.
Intanto nella vicina Torre Annunziata esplodeva la protesta dei 230 operai della Deriver, azienda passata dalle partecipazioni statali ad una società lombarda, la Radaelli, nella speranza di un rilancio presto trasformatosi nell’incubo di un pesante ridimensionamento. Si vissero giorni infernali, un febbraio da dimenticare, con la città prigioniera delle proteste tra blocchi stradali e ferroviari. E quando tutto questo non bastò, a pagare il prezzo della rabbia operaia furono i pendolari dell’intera regione, quando le tute blu invasero la Stazione Centrale delle Ferrovie dello Stato della città di Oplonti, snodo fondamentale del traffico ferroviario non soltanto regionale. E certo non potevano bastare una decina d’avvisi di garanzia e d’arresti domiciliari, da parte della magistratura, verso quelli ritenuti i principali responsabili dei disordini avvenuti tra il 30 gennaio e il 1° marzo, operai e delegati di fabbrica incriminati per difendere il posto di lavoro, a fermare la protesta operaia.
In quegli stessi anni, successivi alla nascita del comprensorio vesuviano esterno, si era andato formando sul territorio torrese stabiese un nuovo gruppo dirigente sindacale con Catello di Maio, Segretario Generale della potente Fiom comprensoriale, un dipendente dei cantieri navali, come tradizione voleva; Raffaele Scala, proveniente da una fabbrica di legnami di Napoli, Segretario generale della Fillea, entrambi stabiesi; Giuseppe Acanfora, dipendente comunale di Pompei, alla guida della Funzione Pubblica, poi sostituito da Antonio Santomassimo, originario di San Giorgio a Cremano, dipendente comunale di quel municipio; Franco D’Angelo alla testa della Flai, sostituito prima da Antonio Mosiello e poi da Orazio Caccia; Segretario generale della Filcams, dopo la partenza di Umberto Apicella per la Camera del Lavoro di Salerno, fu eletto Antonio Aprea, napoletano puro sangue. Alla guida del sindacato Scuola c’era Pasquale Petrazzuolo, dalla fluente e bianca barba alla Carlo Marx, originario di Torre Annunziata. La segreteria confederale era composta da Carlo Corretto, Renato Tito, Segretario Generale Aggiunto, vecchio socialista della sinistra lombardiana, operaio della Ciba, in segreteria fin dalla fondazione della zona sindacale Cgil del lontano 1973, poi sostituito dal più giovane e ambizioso Giuseppe Mogavero, un salernitano giunto a Castellammare nel 1988; Ciro Scognamiglio, già impiegato dei cantieri navali, poi Segretario generale della Fiom, predecessore di Catello di Maio e della stessa Camera del lavoro e Alfonso Natale, anch’egli da sempre in Cgil prima come giovanissimo Responsabile dei Braccianti e poi dal 1976 nella segreteria confederale della Zona sindacale, incarico confermato con la nascita del comprensorio.
Quando cominciò a spargersi la notizia dell’imminente partenza di Carlo Corretto per Napoli, destinato a ricoprire nel capoluogo campano l’incarico di direttore provinciale dell’Inca, Istituto Nazionale Confederale di Assistenza, il servizio di patronato della Cgil, più di un dirigente sindacale stabiese sperava di essere chiamato a ricoprire quel ruolo. La notizia di una scelta diversa da parte della segreteria regionale, caduta su Giovanni Zeno, fu accolta quindi con scetticismo, disappunto e qualche vena di preoccupazione. Sindacalista di grande esperienza, Zeno era nato il 18 luglio 1943 ad Ercolano dove aveva maturato le sue prime esperienze politiche nel circolo giovanile comunista all’inizio degli anni Sessanta, per poi diventare funzionario della Federazione provinciale del Pci.
Giovanni Zeno era un uomo già allora molto quadrato, nonostante la sua ancora giovane età dava un’idea di stabilità, di sicurezza. E anche quel suo modo ragionevole e costruito di parlare, di dire le cose, di rapportarsi agli altri, con grande sicurezza e determinazione, per me rappresentava un punto di riferimento di quello che erano i comunisti. Mi parlava molto della sua famiglia, di suo padre, della pesca dei suoi fratelli, di questo mondo popolare e affascinante…[2]
Entrato nella Cgil si era formato nella categoria dei Braccianti, battendo le campagne del nolano, del giuglianese, del vesuviano e del salernitano.
Ricordo di aver ascoltato il primo comizio di Giovanni in un’assolatissima piazza di Nola, non so se era luglio oppure agosto, di sicuro vi era un caldo torrido e Giovanni parlò dalle 11 alle 12, un’ora di comizio in una manifestazione di braccianti, donne e uomini riuscitissima. Il giorno dopo, con nostra grande sorpresa la leggemmo su tutti i giornali non solo locali ma anche sulle pagine nazionali dell’Unità. Non so se era il 1971 oppure il 1972…[3]
Diventato Segretario Generale della Camera del Lavoro di Salerno nel 1977, dopo un’esperienza nella segreteria regionale della confederazione, fu protagonista dei famosi fatti di Persano, nella Piana del Sele, avvenuti il 7 novembre 1979
quando nel corso di una manifestazione pacifica per la messa a coltura di quelle terre incolte appartenenti al demanio militare, vi furono violente cariche contro contadini e manifestanti da parte delle forze dell’ordine, con il fermo del segretario della Camera del Lavoro, Giovanni Zeno e del segretario della Federazione del Pci di Salerno, Paolo Nicchia (…).[4]
Nel 1981 fu eletto segretario regionale della potente categoria dei Trasporti (Filt) e in molti ancora ricordavano il memorabile sciopero dei trasporti a Napoli del 2 marzo 1987, quando rimase paralizzata l’intera città e si bloccarono i traghetti in partenza per le isole maggiori, Sicilia e Sardegna e perfino l’aeroporto di Capodichino si bloccò per due ore. Giovanni ricordava con piacere quella giornata di sole, di quando salì in barca per vedere dal mare l’effetto del blocco portuale, il sapore della salsedine che gli ricordava la fanciullezza, di quando andava sul peschereccio di famiglia. E di quel giorno ricordava il comizio fatto nel cinema Armonia, dove si erano radunati i lavoratori, con Massimo Montelpari e altri.
Giovanni Zeno era descritto, da quanti lo avevano in precedenza frequentato, come un uomo dal carattere difficile e di cui si poteva tranquillamente dire un gran bene come dirigente sindacale, ma anche un gran male sul suo temperamento d’uomo, soprattutto in tanti non esitavano a porre l’accento sul suo carattere astioso e vendicativo.
Si era alla vigilia del XII Congresso nazionale della CGIL, un’assise particolare perché per la prima volta, dopo quella del 1945, ci si sarebbe divisi su mozioni contrapposte: da un lato le tesi di maggioranza di quanti si richiamavano al Segretario Generale, Bruno Trentin (1926 – 2007), dall’altra quelle alternative di chi confluiva nell’area di Essere Sindacato, una corrente di sinistra critica nei confronti della politica incentrata sulla concertazione e costituita da Fausto Bertinotti, nella segreteria nazionale della Cgil fin dal 1985 e prossimo segretario di Rifondazione Comunista dopo le dimissioni di Sergio Garavini.
Nel più grande sindacato italiano si respirava un clima di contrapposizione, influenzato com’era dagli avvenimenti politici di quei mesi, con lo strappo di Achille Occhetto all’indomani della caduta del muro di Berlino e la nascita del Pds con il suo primo Congresso tenutosi tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio di quel bollente 1991. Nella Cgil le ripercussioni erano state inevitabili, amplificate dall’imminenza del congresso. A Castellammare, nella fase precongressuale si erano schierati con Essere Sindacato, pur senza aderire a Rifondazione Comunista, il segretario confederale, Alfonso Natale, la Fillea, con Raffaele Scala e una parte della Fiom con Luigi Russo, impiegato delle Raccorderie Meridionali e membro della segreteria comprensoriale dei metalmeccanici.
A Castellammare si conosceva la posizione politica di Giovanni Zeno, schierato con quanti si erano opposti alla nascita del Pds e come, nella imminente battaglia congressuale della Cgil, fosse vicino alle idee e al programma di cui si faceva portatrice Essere Sindacato. Chi scrive conobbe Giovanni Zeno proprio nel gennaio 1991, nel sotterraneo salone della Federazione napoletana del Pci in via dei Fiorentini, durante una rumorosa assemblea di quadri e militanti comunisti per una delle ultime discussioni sulla svolta che stava determinando la fine del Partito e la nascita della nuova formazione politica. Il caso volle ci sedessimo accanto senza sapere niente l’uno dell’altro. Lo ricordo benissimo, a distanza di tanti anni: Giovanni indossava il suo eterno cappotto blu e fumava una dopo l’altra Merit lunghe, le sue preferite. Ci scambiammo dei commenti sui vari interventi, ma senza approfondire chi eravamo. Seppi più tardi, da Alfonso Natale, di essermi seduto accanto al nostro futuro segretario. Per giorni fui preso in giro su questo episodio, insinuando per scherzo che mi fossi seduto appositamente al suo fianco per farmi conoscere anzitempo.
Qualche settimana prima del suo arrivo a Castellammare, Zeno cambiò la sua posizione politica, schierandosi, apparentemente senza alcuna motivazione valida, con le Tesi congressuali della maggioranza. Un ripensamento dell’ultima ora, probabilmente legato alla sua nuova e ormai prossima designazione alla guida del comprensorio vesuviano. La stessa cosa fece, dal versante opposto, Carlo Corretto nel momento in cui lasciava Castellammare, annunciando di passare con la maggioranza del Segretario Generale uscente, Bruno Trentin. Precedute da queste voci, il 26 aprile si tennero le consultazioni sul suo nome tra i gruppi dirigenti del comprensorio e il trenta di quello stesso mese fu convocato il direttivo sancendo il cambio della guardia tra Carlo Corretto e Giovanni Zeno, con il voto favorevole della pur forte minoranza congressuale.[5]
Nei giorni successivi si riuscì a costruire un clima unitario, già pensando alle strategie da realizzare subito dopo il congresso. Nella mente razionale e fredda del nuovo Segretario Generale già doveva esserci l’embrione di una piattaforma rivendicativa di largo respiro, come si evince da un ordine del Giorno della Camera del Lavoro emesso il 3 giugno:
Da qui l’urgenza di riaprire, partendo dalla soluzione dei difficili problemi aperti nelle aziende, nei settori, nelle città, un processo d’elaborazione programmatica che veda impegnate insieme le strutture territoriali e le categorie. Una ricerca che renda protagoniste aggregazioni sociali, civili, religiose, nella costruzione di proposte che aprano itinerari sindacali e istituzionali al grande tema della connessione delle funzioni produttive dell’area con le direttrici nazionali ed europee dello sviluppo che avanzano nella fascia mediana della Regione Campania (…).
Il terzo congresso del Comprensorio Vesuviano Esterno – Penisola sorrentina, si tenne il 27-28 giugno al Moon Valley di Vico Equense e fu tutto proteso, dalla relazione introduttiva, ai diversi interventi dei dirigenti di categoria, fino a quello dei delegati delle maggiori industrie, verso la carta rivendicativa ancora in fase di scrittura ma già ampiamente delineata nei suoi concetti cardine fin dalle prime riunioni preparatorie di quell’assise.
La proposta rivendicativa non può che iscriversi nel più generale disegno di connessione dell’area campana ai sistemi di sviluppo del centro nord, di riqualificazione delle attrezzature di servizio (…)
si scriveva nella relazione introduttiva, ricca di quei riferimenti sui trasporti e mobilità regionale frutto della sua lunga esperienza nella Filt Cgil, la potente Federazione Italiana Lavoratori Trasporti, facendo sintesi di una discussione già molto accesa, fino a infiammare gli animi dei gruppi dirigenti nelle loro diverse articolazioni.
Continua…
Leggi la seconda parte: Storia del Contratto d’area torrese stabiese (Parte II)
Note:
[1] Le cifre ufficiali dell’Operation Iraqi Freedom, aggiornate al 20 marzo 2016, dicono che i caduti della coalizione dall’inizio della guerra, nel lontano 2003, ammontano a 4.816, di cui uno nel 2016, e oltre 50.000 feriti. Il costo più alto è pagato, naturalmente, dai militari americani con 4.496 caduti, 179 inglesi, 33 i morti italiani. Complessivamente furono 141 i morti tra le restanti forze alleate. Questi dati non tengono conto di almeno 15mila suicidi avvenuti tra i militari americano rientrati a casa, in prevalenza giovani e dei mercenari assoldati come guardie del corpo o, comunque, come servizi di sicurezza al soldo delle società occidentali operanti in Iraq.
Cfr. il sito, Coalition Casuality Count. La stessa fonte indica, al 20 ottobre 2016, i caduti dell’Operation Enduring Freedom in Afghanistan, complessivamente 3.515, di cui 2.381 militari americani, 455 inglesi e altri 679 caduti tra i restanti alleati di cui, 158 canadesi, 86 francesi, 54 tedeschi, 43 danesi, 41 australiani, 38 polacchi, 34 spagnoli e 53 italiani, di cui l’ultimo nel 2013, il 31enne bersagliere, Giuseppe La Rosa.
[2] Testimonianza di Eugenio Donise all’autore e ad Antonio Aprea nel 1998.
[3] Testimonianza di Massimo Montalpari all’autore e ad Antonio Aprea nel 1998.
[4] Atti parlamentari, seduta del 9 novembre 1979, pag. 3906/3920.
[5] Nuova rassegna Sindacale, n. 22 del 17 giugno 1991: Se le Tesi congressuali vincono, la minoranza non perde e n. 28 del 29 luglio: Edili a sorpresa. Entrambi gli articoli sono di Paolo Grassi.