saggio del dott. Raffaele Scala
Caro Maurizio, ti allego una ricostruzione di alcuni fatti accaduti a Castellammare in un particolare periodo storico della nostra città: la venuta a Castellammare di Pier Paolo Pasolini e la famosa rivolta che mise a ferro e fuoco Castellammare nel novembre del 1971, più altri fatti minori, ma non per questo meno importanti come la fine della fabbrica della Calce e cementi.
Il saggio – un capitolo di una vicenda più ampia della nostra Città che prima o poi riuscirò a pubblicare, sponsor permettendo – è un poco tosto, ma spero che i nostri concittadini l’apprezzeranno, anche perché è storia recente e molti di noi questi fatti li ricordano ancora, se addirittura non li hanno vissuti in prima persona.
Come sempre il vostro affezionato. Raffaele Scala.
Il 1970 si aprì con una serie di manifestazioni contro il terrorismo fascista che aveva insanguinato Milano, contro la repressione unilaterale della polizia, contro i tentativi padronali di riconquistare il terreno perduto, ma non mancavano altre iniziative della Camera del Lavoro in una fase particolarmente movimentista: il 14 febbraio si tenne nel Salone delle Nuove Terme del Solaro un Convegno con il patronato Inca sulla parola d’ordine, Rendere più sensibile i lavoratori ed intervenire per la tutela della loro salute. La relazione introduttiva fu tenuta da Luigi D’Auria, seguirono interventi dei direttori provinciali e regionali dell’Inca, Luigi Basco e Giuseppe Bisaccia, il segretario della Fiom, Antonio Chegai, il capolega della Filziat, Raffaele Massa e i delegati delle maggiori e più importanti fabbriche cittadine, da Umberto Bardiglia ed Elio Santaniello per l’Avis, Ferdinando Torlino per i Cmi, Carlo Iezza per la Calce e Cementi, Salvatore Aiello per l’Italcantieri. Concluse i lavori Eustacchio Massa. Il 14 marzo promosse, sempre nel Salone delle Nuove Terme, ormai diventato punto d’incontro di tutti i dibattiti cittadini, una Conferenza economica di Zona in cui rientravano i 14 comuni dell’intera area stabiese – penisola sorrentina, sul tema, Un anno di lotte per le riforme. Contro il sottosalario, per l’occupazione. A concludere i lavori fu chiamato il segretario provinciale della Cgil, Nando Morra.
I giovani comunisti, spregiudicati e liberi, vogliosi di capire, decisi a non adeguarsi, invitarono Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975), da tempo in aperta polemica con il Pci e con il ‘68. Il 9 febbraio, in un Supercinema gremito fino all’inverosimile di giovani, studenti, operai e intellettuali, l’intera sinistra locale, Pasolini affrontò senza reticenze tutti i temi del momento, compreso quello, scottante, dell’espulsione dal Pci di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Aldo Natoli, rei di aver fondato Il manifesto, una rivista autonoma eccessivamente indipendente dal Partito. Una manifestazione eccezionale con il grande scrittore, autore degli Scritti corsari da solo sul palco, accompagnato dalla parlamentare Maria Antonietta Macciocchi, ad affrontare un dibattito serrato, dove, tra gli altri, intervenne un frate francescano per chiedere
Perché la chiesa, che dovrebbe essere vicina ai poveri, ai diseredati, si comporta troppo spesso diversamente dall’insegnamento che pure essa predica da secoli, facendo sì che le masse popolari abbiano accolto in sostanza il messaggio rivoluzionario di Marx…
L’autore del grande romanzo, Una vita violenta, rispose da par suo, ricordando come la contraddizione non poteva essere risolta fino a quando la chiesa cattolica si dibatteva tra il volere essere Ecclesia e al tempo stesso conservare le strutture dogmatiche ed autoritarie ereditate dalla dottrina di Paolo di Tarso, il vero fondatore e primo teologo del cristianesimo. Un applauso osannante accompagnò la conclusione del suo lungo e articolato intervento.
Ricco di problemi il 1970: proseguiva l’agonia della cartiera Cascone con il suo stillicidio di licenziamenti, permanente si presentava, nella sua ciclicità, la crisi dell’Avis, come i Cmi e l’Italcantieri. La crisi in caduta verticale dell’arte bianca proseguiva senza soste, in attesa di esalare il suo ultimo respiro. Il 1° febbraio erano partite cinquanta lettere di licenziamento, l’intero organico del pastificio Di Nola. Gli incontri in prefettura avevano determinato la riapertura dello stabilimento a condizione dell’accettazione di almeno venti licenziamenti. Si scioperò il 26 marzo per due ore, in tutte le fabbriche per la riforma sanitaria, per la casa e per un fisco più equo. E sugli stessi temi si arrivò allo sciopero generale cittadino il 28 aprile, con una poderosa manifestazione popolare con comizio finale in villa comunale, dove a nome delle tre organizzazioni prese la parola Nella Marcellino, Segretaria nazionale della Filziat – Cgil. Nel frattempo chiudeva i battenti l’Audisio, l’ultima conceria, residuo di una tradizione antica, risalente al primo decennio dell’Ottocento.
In questo clima, il 7 giugno, si votava per il rinnovo del consiglio provinciale, per eleggere il primo consiglio regionale della costituenda Regione e per le amministrative in alcuni comuni, tra cui Gragnano, dove capolista della lista unitaria, Pci – Psiup, era Alfonso Di Maio, docente universitario e militante del Psiup. Per la provincia nel primo dei due collegi locali, quello di Castellammare – S. Antonio Abate si presentava il giovane segretario della Fgci stabiese, Matteo Cosenza, già membro del Comitato Federale provinciale, eletto nell’ultimo congresso, mentre nel secondo collegio, Castellammare – Vico Equense, fu candidato Vittorio Frescura, figlio di noti antifascisti e a sua volta prigioniero in un campo nazista. Frescura era già consigliere comunale di Vico Equense dal 1956 e consigliere provinciale uscente. Si cimentava invece nel collegio Gragnano Pompei un altro giovane, laureando in Filosofia e militante della Fgci dal 1960 al 1968, anno in cui aveva deciso di passare al Partito, Antonino Di Vuolo. La vigilia delle elezioni fu funestata da un grave episodio d’intolleranza politica: a Pimonte, dove bisognava rinnovare il consiglio comunale, nel pomeriggio di sabato 30 maggio, era accoltellato alla schiena, Lizziero Criscuolo, un 23enne operaio della Calce e Cementi, propagandista della lista civica Rinascita Pimonte, composta da comunisti, socialisti, indipendenti e dissidenti democristiani. Il feritore era Vincenzo Cuomo, un calzolaio sessantenne, padre di Sebastiano, militante democristiano che già poco prima aveva schiaffeggiato Criscuolo, dopo averlo provocato. Il giovane se la caverà con pochi giorni di cura.
Matteo Cosenza fu eletto con 10.868 voti, alle spalle di Francesco Saverio d’Orsi, primo con 11.301 preferenze. Rimasero appiedati le vecchie volpi della politica, i socialisti Flavio Di Martino e Sebastiano Mariconda, il missino Giuseppe Abate ed altre figure minori, tra i quali il direttore dei Cmi, Ugo Sbrana, protagonista dei 288 licenziamenti nell’ormai lontano e non ancora dimenticato 1957, candidato con il Partito Repubblicano, ottenendo appena 537 voti.
Di origini pisane, l’ing. Sbrana era un tipo eclettico, ben inserito nel contesto sociale stabiese, fin da quando vi era giunto, all’inizio degli anni Cinquanta per dirigere l’importante e glorioso stabilimento dei Cmi. Presidente dell’Associazione Calcio Stabia nell’anno della leggendaria conquista della serie B, nell’anno 1950-51, membro del Comitato per gli Scavi di Stabia diretto da Libero D’Orsi, Vice Presidente dal 1958 al 1960 e Presidente nel 1968-70 del Rotary Club di Castellammare di Stabia-Sorrento, circolo fondato il 9 febbraio 1955. Ma tutto questo non servì a dargli i consensi necessari per essere eletto. Si consolerà nel 1980 quando gli fu conferita l’alta onorificenza di Grande Ufficiale Ordine al merito della Repubblica Italiana. Infine, ma questo non lo saprà mai, aveva sposato la piemontese Iride Martinengo, cugina dell’italo argentino, Jorge Mario Bergoglio, il futuro papa Francesco, eletto il 13 marzo 2013.
Con Matteo Cosenza fu eletto Vittorio Frescura con 8.121 preferenze a fronte dei 9.712 conquistati da Armando De Rosa, un democristiano destinato a far parlare molto di sé, fino agli anni novanta, e non soltanto per la sua carriera politica. [1] Fallì invece lo studente Antonino Di Vuolo contro il suo potente avversario, Vincenzo Afeltra, candidato in un collegio dominato dall’allora, già chiacchierato sindaco, Francesco Patriarca. In Consiglio regionale entravano figure già note del movimento operaio, i comunisti Abdon Alinovi, segretario regionale del Partito e Mario Gomez D’Ayala e giovani sconosciuti destinati a far parlare molto di sé, come l’allora studente universitario, Antonio Bassolino, futuro parlamentare, Ministro del Lavoro nel governo D’Alema, leggendario sindaco di Napoli negli anni novanta e, tra poche luci e infinite ombre, Presidente della Regione Campania, lungo tutto il primo decennio di questo terzo millennio. Da Castellammare arrivava Liberato De Filippo dopo l’esperienza di due consiliature consecutive nel consiglio provinciale e Antonio Gava, di cui si è detto.
L’elezione di Francesco Saverio D’Orsi nel Consiglio provinciale provocò un rimescolamento nella maggioranza del consiglio comunale di Castellammare, portando il 26 ottobre all’elezione di un nuovo sindaco, Vincenzo Dattilo, candidato trombato nelle elezioni regionali, a capo di una coalizione tripartitica, Dc-Psi-Pri. Negli stessi giorni in cui doveva essere eletto il nuovo sindaco, in consiglio comunale si presentò, per parteciparvi, il consigliere comunista, Luigi D’Auria, nonostante fosse stato sospeso dal 25 marzo con un’ordinanza del sindaco a seguito di un rinvio a giudizio per reati di pena superiori ai 12 mesi, facendo scattare la sospensione dalla carica elettiva di consigliere comunale. Con D’Auria era stato sospeso un altro consigliere comunista, Raffaele Massa per fatti risalenti al 1967, quando furono denunciati per aver capeggiato una manifestazione operaia. Quando il 22 ottobre, Luigi d’Auria si presentò in Consiglio comunale e chiese la parola, il Presidente dell’assise, Roberto Gava, gliela negò provocando la reazione dell’opposizione di sinistra, Pci, Psiup e Psu, i cui consiglieri uscendo dall’aula determinarono la mancanza del numero legale e lo scioglimento della seduta. Prima di lasciare l’aula, la maggioranza predispose un ordine del giorno da inviare alle autorità giudiziarie per verificare se vi erano reati commessi dal D’Auria, con la sua presenza, nonostante la sospensione dal consiglio comunale. Incurante dell’iniziativa democristiana, il 26, Luigi D’Auria si presentò di nuovo in consiglio comunale, ma stavolta lo stesso Roberto Gava, nella sua qualità di Presidente dell’Assemblea, fece approvare un ordine del giorno di solidarietà con i sospesi, approvato all’unanimità! Il 29 dicembre D’Auria e Massa furono prosciolti per amnistia sui fatti del 1967, ma subentrò il reato di esercitazione abusiva delle funzioni di consigliere comunale nonostante la sospensione deliberata dal prefetto il 25 marzo. Il processo si terrà il 18 marzo 1972, con un nulla di fatto. [2]
Intanto, in quegli anni, la spinta propulsiva delle lotte operaie non andava esaurendosi con il biennio rosso del 1969-70, ma proseguiva implacabile, allargandosi dal settore metalmeccanico all’edile, chimico ed altri ancora, fino a quello dei servizi, con una frequenza senza precedenti dal dopoguerra in poi. Queste lotte unitarie consentirono nel 1970 di celebrare di nuovo insieme la Festa del 1° maggio, dopo la rottura del 1948 tra Cgil Cisl Uil. Il 26 gennaio 1971 si tenne a Napoli una manifestazione meridionale degli edili per lo sviluppo del Mezzogiorno, con parole d’ordine antiche, ma pur sempre nuove, in ogni tempo, ieri come oggi, in questo terzo millennio: per una nuova politica edilizia e della casa, si gridava, per l’occupazione e per fare fronte alla crisi del settore attraverso l’immediato inizio dei lavori pubblici. Era una giornata di sciopero nazionale dell’intero settore delle costruzioni e a nome unitario parlò, in una Via Medina gremita di lavoratori, Claudio Truffi (1922 – 1986), Segretario generale nazionale della Fillea Cgil. La lotta per le riforme era spinta da scioperi generali proclamati dalle confederazioni e questi si ebbero il 2 ottobre 1970 e il 7 aprile 1971, partorendo alla fine una riforma della casa, diventata poi vanto del governo di Centro sinistra, seppure rimasta largamente disattesa per l’incapacità d’applicarla da parte della pubblica amministrazione periferica.
Il 1971 si era aperto con la tragedia di Gragnano, con la frana del Monte Pendolo che aveva sepolto un albergo e alcuni villini in costruzione, provocando la morte di sei persone. Una tragedia annunciata causata dalla dissennata speculazione edilizia, dal criminale disboscamento, dalle strade abusive costruite per penetrare la montagna e costruire senza criterio, tutto con la silenziosa complicità di quanti avrebbero dovuto vigilare, con l’avallo di chi aveva concesso licenze per creare un’unica grande colata di cemento che aveva deturpato per sempre Gragnano, distrutto le sue terre, reso pericoloso il monte che lo sovrastava, di per sé già pericoloso da sempre, come dimostrava la tragedia del 21 gennaio 1841 quando un’altra frana provocò 120 morti. [3]
Ma se una frana, per quanto la causa fosse l’incuria umana, poteva essere un evento naturale, la violenza che stava insanguinando l’Italia era unicamente colpa del fascismo che aveva rialzato la testa e tendeva a terrorizzare il Paese per giustificare un eventuale golpe militare con la complicità dei servizi segreti deviati e politici eversivi compiacenti. In questa strategia si individuava l’assassinio del muratore socialista, Giuseppe Malacaria, colpevole di aver partecipato ad una manifestazione antifascista contro cui fu lanciata una bomba a mano dalla vicina sede del Movimento Sociale Italiano, provocando nove feriti e la morte del 33enne operaio. Era il 5 febbraio 1971 e l’attentato fascista fu solo l’ultimo atto di una lunga scia di aggressioni, attacchi e ferimenti perpetrati da uno squadrismo che terrorizzava chiunque somigliasse anche solo vagamente ad un militante di sinistra, da Milano a Roma, da Napoli a Catanzaro. A Castellammare, come in altre cento città, la protesta arrivò immediata: in mattinata furono i lavoratori dell’Italcantieri a riempire le strade cittadine chiedendo che il MSI fosse sciolto per legge, mentre nel pomeriggio la popolazione fu chiamata a manifestare dai partiti di sinistra, con l’adesione della Camera del Lavoro. Il 17 seguì una manifestazione indetta dall’amministrazione comunale al cinema Montil, ma la sera precedente una squadra fascista aveva strappato tutti i manifesti con i quali s’invitava la popolazione a partecipare. Un militante comunista, Vincenzo Verdoliva, s’avvide di quanto stava accadendo e si avvicinò ma fu aggredito e picchiato con bastone e catena. Nonostante la provocazione, il mattino dopo i cortei operai uscirono dalle fabbriche recandosi pacificamente alla manifestazione, che si svolse senza ulteriori incidenti. Al termine i partecipanti uscirono di nuovo in corteo recandosi in Piazza Municipio per deporre una corona davanti ad una lapide che ricordava i caduti della resistenza. Terminata la cerimonia i lavoratori percorsero il Corso Vittorio Emanuele per rientrare nelle rispettive fabbriche, quando all’angolo di via Alvino, all’altezza della sede del Movimento Sociale Italiano una quindicina di fascisti affacciati ai balconi cominciarono a provocare facendo il saluto romano, avendo come risposta fischi e canti partigiani. La contro risposta fu l’improvviso lancio di bottiglie, bastoni e lampadine, che scoppiando tra la folla provocarono qualche ferito. Iniziò allora un lancio di pietre all’indirizzo degli assalitori asserragliati sui balconi e prima che la situazione degenerasse con l’assalto alla sede fascista arrivò la polizia schierandosi a difesa dell’ingresso del portone. Ormai gli animi erano surriscaldati e i manifestanti assediarono la sede, ma nell’impossibilità di entrare buttarono a mare un auto e un motorino appartenenti a militanti missini rinchiusi al primo piano dov’era situata la sede fascista. Un’altra auto, riconosciuta di proprietà di uno dei missini asserragliati, fu danneggiata e in questa trovarono una pistola e alcuni randelli, immediatamente mostrati alla polizia. Su pressione della folla che continuava ad assediare il palazzo, il commissario, avuto il mandato, si decise a perquisire la sede e a procedere al fermo dei venti missini, i quali, dopo il riconoscimento furono tutti rilasciati senza essere denunciati per apologia di reato, come chiedevano i dimostranti.[4] Il fatto provocò un’interrogazione parlamentare del PCI contro l’atteggiamento passivo della polizia e contro la decisione del commissario di non ravvisare nessuna irregolarità nel comportamento dei missini.
Tra manifestazioni operaie e scioperi, tra provocazioni fasciste e rivendicazioni salariali, la vita della Camera del Lavoro si nutriva anche del lavoro quotidiano delle diverse ramificazioni della sua complessa organizzazione. Non ultima per importanza, tra le numerose categorie, era l’Inca, cui competeva il delicato compito di tutelare i diritti dei lavoratori nei confronti di diversi Enti previdenziali ed assistenziali, dall’Inps all’Inail, assumendo spesso iniziative lodevoli riguardanti l’ambiente di lavoro. Una di queste fu assunta a Castellammare dai tre patronati sindacali Cgil Cisl e Uil. Per la Camera del lavoro stabiese fu l’Inca ad aprire una grande inchiesta in alcune fabbriche sulle condizioni di lavoro, attraverso una serie d’assemblee di lavoratori, nel corso delle quali erano denunciate situazioni molto gravi sulle condizioni ambientali in cui si operava. La ricerca riguardava in particolare la Calce e Cementi, l’Avis, i Cmi e l’Italcantieri con risultati impressionanti: ritmi di lavoro troppo intensi, eccessiva polverosità, rumori insopportabili e morti sospette per neoplasie maligne alla gola o ai polmoni, non si contavano i casi di tubercolosi polmonari e le affezioni bronchiali, febbre degli ottonari, per quanti erano a contatto con lo zinco. Mal di testa, bruciori agli occhi, difficoltà nell’addormentarsi rappresentavano la casistica più frequente. Dopo questa inchiesta, effettuata nella prima metà di marzo, i tre patronati, Inca Cgil, Ina Cisl e Ital Uil indissero il 5 e 6 giugno 1970 un convegno sul tema, Per la salute del lavoratore, protagonista del rinnovamento, nuove condizioni di lavoro nelle fabbriche, tenuto nel Salone delle Nuove Terme del Solaro. La partecipazione al convegno fu grande, con presenze del mondo politico e culturale. Aperto da Guido Salzano, direttore del patronato Ital Uil, intervennero poi i tre segretari locali di Cgil Cisl Uil, Eustacchio Massa, Gerardo Conte e Alfonso Amendola e quelli provinciali di Cgil e Cisl, Luigi Alfano e Giovanni Guardabascio. Seguirono interventi di esperti dell’Inca, dell’Inps e dell’Inam, politici come Liberato De Filippo, consigliere comunale e regionale comunista, un giovane Catello Chiacchio, dipendente delle Terme e consigliere comunale eletto per la prima volta nelle elezioni del 1967 nelle file del Pci. Non mancarono interventi dei delegati di fabbrica, tra i quali esordì un ragazzo 17enne, l’operaio dei Cmi, Salvatore Vozza, Ciro Alfano, tecnico delle Officine FF.SS., Elio Santaniello dell’Avis, Carlo Iezza della Calce e Cementi e altri ancora di cui si è persa traccia e memoria. Le conclusioni furono tenute da Luigi Bosco, direttore provinciale dell’Inca Cgil. Dal convegno partì la proposta di un referendum sulle condizioni e l’ambiente di lavoro nelle fabbriche di Castellammare, (…) per consentire agli stessi lavoratori e alla società di prendere coscienza del problema, dei suoi riflessi, della sua importanza (…), come si scrisse in un articolo non firmato sul Notiziario Inca di luglio 1971. Suonarono quasi come una beffa quei 34 interventi del convegno per il 39enne Gerardo Apuzzo, padre di cinque figli, un operaio della ditta Porzio, precipitato da un capannone dell’Avis il 7 giugno e morto il 17 all’ospedale Cardarelli, dove era stato ricoverato in gravi condizioni. Una tragedia infinita quella degli incidenti mortali sul lavoro, dove forse per vergogna si chiamano morti bianche, ma in realtà bisogna definire, nella stragrande maggioranza, omicidi e nessun convegno, referendum, leggi dello stato e normative europee sono mai riusciti a far cessare. E sarà lungo ancora, interminabilmente lungo, questo impietoso, drammatico elenco di tre morti al giorno. Chi mai potrà porvi riparo? [5]
Intanto nuove, gravi ombre pesavano sul Paese, prendendo corpo in contrapposizione alle formidabili lotte operaie e alla travolgente avanzata del Pci. Il vento impetuoso del ’68, l’egemonia culturale del Pci, le continue vittorie elettorali della sinistra nel suo insieme, erano sempre più insopportabili per alcuni settori forti della politica e dell’economia e primi inquietanti segnali si erano avuti con la strage, impunita, di Piazza Fontana, inopinatamente addossata agli anarchici, ma ben presto disintegrata dalla controinformazione democratica. Smantellata la versione della polizia, venivano sempre più alla luce le trame di un gruppo neofascista del veneto, i suoi legami con il Servizio Informazioni della Difesa, il famigerato Sid e soprattutto emergeva la consapevolezza di essere un paese a rischio. La democrazia e la libertà rischiavano di cadere sotto i cingoli di carri armati di generali traditori. Si tentava attraverso attentati e crimini di creare quel panico necessario per ripetere quanto avevano già fatto i colonnelli in Grecia, con il colpo di stato militare dell’aprile 1967. E la verità venne fuori: nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, il principe, Julio Valerio Borghese (1906 – 1974), ufficiale di marina e comandante della Decima Mas durante la seconda guerra mondiale, fondatore nel 1967 del Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra, tentò il colpo di stato, da subito rivelatosi più ridicolo di quello tentato da De Lorenzo nel 1964. Nel successivo processo scaturito contro quattro generali – il principe Borghese era nel frattempo scappato nell’amata Spagna fascista del dittatore Franco – tra cui Vito Miceli (1916 – 1990), capo dei servizi segreti, furono tutti assolti. [6] Era il 1974 e i poteri forti dello stato, ieri come oggi, erano ancora nelle condizioni di governare i processi, indirizzandoli verso l’esito voluto.
Quando la notizia si diffuse, Castellammare, come il resto del paese, fu scossa da una serie di manifestazioni di protesta e vide la nascita di Comitati Antifascisti ai quali aderirono tutte le forze politiche, le organizzazioni sindacali, quelle partigiane e la stessa amministrazione comunale. L’impegno immediato delle forze democratiche fu di preparare una grande manifestazione antifascista per il 25 aprile, festa della Liberazione dal nazi – fascismo. Ma non c’erano soltanto i tentativi di golpe, per quanto puerili, a rendere infuocato il clima a Castellammare, come nel resto del Mezzogiorno: da Battipaglia a Reggio Calabria la tensione per le condizioni, in molti casi, ancora miserabili in cui si viveva, l’alta disoccupazione, le contraddizioni di uno scarno sviluppo industriale a pelle di leopardo, spesso sfociava in rivolte duramente represse dalle forze dell’ordine. A Castellammare, già nell’aprile 1970, vi erano state numerose proteste di disoccupati contro l’amministrazione comunale per la riduzione dei cantieri di lavoro da sei a tre mesi. Si chiedeva di avviare da subito i lavori di manutenzione delle strade e delle spiagge, per i quali erano stati stanziati centinaia di milioni. La protesta si estese contro l’ufficio di collocamento, reo di una gestione clientelare dei vari avviamenti e si lanciava addirittura l’accusa di un vero e proprio commercio, con la compravendita di questi posti, pur precari. Le proteste, puntuali, ripresero nei primi giorni d’aprile del 1971 ed erano sfociate nell’occupazione del comune, nella mattinata di giovedì otto, reclamando l’immediata apertura dei cantieri scuola. Nel pomeriggio i disoccupati ricevevano la solidarietà della Cgil e della Cisl, giunti in delegazione al comune, chiedendo un urgente incontro al sindaco Vincenzo Dattilo, subentrato all’ottava amministrazione D’Orsi, caduta il 26 ottobre 1970. Una nuova fiammata si ebbe il 14 e il 15 luglio, con un’altra occupazione dei locali del comune da parte dei disoccupati, reclamanti con sempre maggiore forza il lavoro. La situazione era esplosiva, nella Città delle Acque si registravano 4.400 disoccupati iscritti al Collocamento e i 15mila emigranti dell’ultimo decennio avevano alleggerito soltanto di poco la situazione. I dati del censimento erano di per sé illuminanti: gli occupati nell’industria erano passati dai 5.080 del 1961 ai 4.390 del 1971, mentre continuava inesorabile il calo nella stessa agricoltura, passando da 2.606 addetti a 2.230 nell’ultimo decennio. Su questi temi Cgil Cisl Uil avevano elaborato una piattaforma rivendicativa chiedendo il rispetto di una serie d’impegni al Comune, alla Provincia e alla Regione. Tra le richieste avanzate dalle organizzazioni sindacali facevano spicco lo sblocco di una serie di opere pubbliche: la costruzione del liceo scientifico e dell’Istituto Tecnico Industriale, il nuovo macello comunale e la costruzione degli appartamenti Iacp e della Gescal. Si chiedeva inoltre il potenziamento delle industrie cittadine e dei Magazzini Generali.
In questo clima, intorno alle 9.30 di mercoledì 3 novembre, un centinaio di cantieristi iniziarono la loro protesta contro il sindaco Vincenzo Dattilo e l’assessore ai lavori pubblici, Roberto Gava, nei pressi dell’allora Casa Comunale, l’ex Banca d’Italia al Corso Vittorio Emanuele. La protesta nasceva dalla decisione del Prefetto di ridurre il compenso, pagato con fondi del Ministero del Tesoro, ai disoccupati impegnati da tre a sei mesi in lavori di pubblica utilità e definiti cantieri scuola. L’accusa rivolta al sindaco era d’avere accettato la circolare prefettizia, mettendola anzi subito in atto con la decurtazione della paga ai cantieristi. [7]
Altre volte i cantieristi o altri disoccupati avevano inscenato manifestazioni di protesta sotto la sede comunale, così com’era usuale, in questi casi, l’intervento della polizia a presidio del Municipio, ma tutto si era sempre risolto pacificamente. Quella volta le forze dell’ordine intervennero massicciamente, chiedendo man forte alla questura e facendo giungere a rinforzo camionette e idranti. Tutto accadde improvvisamente, con micidiali cariche della polizia armata inizialmente soltanto di sfollagente, ma poi si diede ad una vera e propria caccia ai manifestanti con le camionette, bombe lacrimogene e carri capaci di sparare micidiali getti d’acqua gelida. Ci fu un fuggi fuggi generale con manifestanti, passanti e curiosi, costretti a gettarsi nel mare antistante la villa comunale per sfuggire agli attacchi alla cieca fatti dagli agenti di pubblica sicurezza. Passato il primo momento di sbandamento, i cantieristi ed altri disoccupati si riorganizzarono, aiutati da studenti, giovani, operai e militanti della sinistra extra parlamentare, nel frattempo accorsi sui luoghi dello scontro, preparando un’accanita resistenza per contrastare la violenza poliziesca. Le camionette della polizia sfrecciavano veloci tra vie e vicoletti, intorno all’epicentro della lotta, incuranti di passanti innocenti e continuando a lanciare bombe lacrimogene (…) Sono incendiati autobus in Piazza Ferrovia ed automobili lungo il Corso e il lungomare – ricorda Antonio Barone nel suo, Pagine di storia, le violenze continuarono fino a mezzogiorno, quando si sparse la voce dell’uccisione di un ragazzo di sedici anni a seguito degli scontri fra dimostranti e polizia, provocando nuove tensioni tra i manifestanti decisi a non cedere. Si verrà a sapere in seguito che il ragazzo, Gaetano Rapicano, era rimasto gravemente ferito ad un occhio dal lancio di un candelotto lacrimogeno. [8]
Gli scontri ripresero nel pomeriggio con violenti tafferugli tra dimostranti e poliziotti in pieno assetto di guerra. Una camionetta fu assalita e gli agenti malmenati, ad un fotografo professionista fu distrutta la macchina fotografica. Nella mattinata, prima dell’inizio dei gravi incidenti, Saul Cosenza, Segretario cittadino del Pci e Luigi D’Auria, avevano tentato di parlare con il vice questore, cercando di convincerlo a far allontanare la polizia. Il lancio improvviso di bombe carta, da parte, forse, di extraparlamentari, aveva provocato l’immediata, e probabilmente voluta, reazione dei militari. Una volta iniziata, la rivolta andava in qualche modo governata per evitare il peggio e già nel pomeriggio Psi, Pci e Psiup, uscivano con un volantino manifesto intitolato, Tutta la città lotta per il lavoro e recitava testualmente:
Contro Castellammare che si batte per lo sviluppo economico e l’occupazione si è scatenata una violenta reazione poliziesca. Solo la responsabilità della classe operaia e dei cittadini ha potuto evitare il peggio, riuscendo ad isolare gruppi i cui metodi di lotta non sono condivisi dai lavoratori (…) Non bombe lacrimogene ma lavoro, Castellammare non può più attendere.
Cgil Cisl Uil presero cautamente le distanze da quell’esplosione di violenza, ricordando contemporaneamente lo sciopero generale già proclamato per il 9 novembre sui temi del lavoro e in un loro volantino invitarono
(…) I lavoratori e i disoccupati a respingere con fermezza i tentativi di strumentalizzazione e provocazioni da parte di quei gruppi che nulla hanno in comune con le loro lotte (…).
Nel condannare la reazione poliziesca nei confronti di chi chiedeva soltanto lavoro, il volantino concludeva invitando tutti allo sciopero generale e solidarizzando con le lotte dei disoccupati. Nettamente schierati erano invece i giovani comunisti del Circolo, Che Guevara, accusando la Dc e Roberto Gava di aver tenuto volutamente un atteggiamento provocatorio nei confronti dei disoccupati e la stessa polizia, con la sua presenza massiccia fin dalle prime ore del mattino, faceva presagire quanto era poi accaduto. I giovani comunisti riconoscevano la presenza di provocatori tra i dimostranti, ma questi erano serviti unicamente per giustificare la repressione poliziesca. I giornali di tutta Italia inviarono loro corrispondenti, dal Corriere della Sera all’Espresso, con firme prestigiose come quella di Giuseppe Galasso. Per diversi giorni si sprecarono le analisi sociologiche e antropologiche, sulla Castellammare operaia, sulla Stalingrado del Sud e sui comportamenti tenuti dai vari protagonisti nella vicenda, dai partiti politici ai sindacati. Passata la tempesta, nella quiete delle settimane successive, scattarono 65 denunce per adunata sediziosa, 10 fermi e 7 mandati di cattura.
Non mancava, nell’inquieta e turbolenta Castellammare, la voce degli extraparlamentari, in particolare del gruppo marxista leninista, denominato Unione dei Comunisti Italiani, sezione Giuseppe Stalin, i quali avevano la loro sede in Via Primo de Turris, 20. Nel loro volantino attaccarono praticamente tutti, dalla Dc al Pci, rivendicando la giusta ribellione
E in questa eroica lotta si sono distinti i migliori figli del popolo, i veri comunisti, i marxisti leninisti che alla testa dei lavoratori e dei disoccupati hanno lottato coraggiosamente contro i responsabili della miseria e della rapina che opprimono il nostro popolo e contro l’Unione dei Comunisti Italiani e i lavoratori che in questa lotta hanno dimostrato tutta la loro forza e unità, tremanti di paura, si sono scatenati poliziotti, questori e magistrati arrestando 12 compagni, tra cui un membro dei comunisti italiani e denunciandone 60 (…).
Si ripropose, nei giorni seguenti e dopo lo sciopero del 9 novembre, la necessità di dare risposte concrete alla fame di lavoro dei giovani e dei disoccupati, ma la situazione produttiva non era delle migliori. Ci fu chi propose di far riaprire i battenti a industrie ormai chiuse, come la Conceria Audisio e il saponificio Asborno, dove avevano trovato lavoro fino a 140 dipendenti, quasi tutte donne, magari riconvertendone l’attività, d’interventi decisivi a favore di aziende da tempo in crisi, come la Cartiera Cascone e di potenziare quelle maggiori come l’Italcantieri, l’Avis e i Cmi. Si ipotizzava di favorire lo sviluppo delle attività termali, d’incentivare quella portuale, istituendo nel frattempo corsi di qualificazione per disoccupati, accelerando le procedure per la realizzazione delle opere di edilizia scolastica e di altre opere pubbliche, come la rete fognaria, il cimitero, il macello, il mercato e, infine, sollecitare la creazione delle infrastrutture dell’area industriale alla foce del Sarno per favorire nuovi insediamenti e iniziative industriali. [9]
La città era ancora scioccata per gli avvenimenti quando la polizia cominciò con gli arresti, dodici in una prima fase ed ulteriori sette quanto nessuno se lo aspettava, il 15 gennaio, con l’accusa, in concorso tra loro, di resistenza aggravata a pubblico ufficiale e di adunata sediziosa. Rimanevano i problemi della disoccupazione giovanile e della continua espulsione dalle realtà produttive, i problemi della gente che chiedeva risposte e soluzioni e allora, ancora una volta, contro la grave situazione le organizzazioni sindacali chiamarono i lavoratori e la città a partecipare allo sciopero generale proclamato per l’otto febbraio rivendicando
Lo sblocco dei fondi stanziati per le opere pubbliche nuovi indirizzi e una politica d’investimenti delle partecipazioni statali in rapporto allo sviluppo della piccola e media industria, l’ampliamento del porto stabiese e la realizzazione a Napoli – opera già prevista da tempo – del super bacino di carenaggio per lo sviluppo dell’industria cantieristica.[10]
Si presentava tragica la situazione della città, con i suoi 5.500 iscritti nelle liste circoscrizionali dell’Ufficio di collocamento, secondo altre fonti erano almeno diecimila, numeri ballerini che non modificano di molto la situazione. Si raccontava che le istituzioni erano puntuali nei loro appuntamenti, quando si trattava di mostrare il loro volto duro, come avevano dimostrato i 19 arresti succeduti ai disordini del tre novembre, ma si mostravano latitanti nel dare risposte alle cause di quei tristi avvenimenti. Qualcuno risolse, forse definitivamente il suo problema, vincendo 98 milioni al totocalcio, uno dei sei giocatori, che quella domenica pomeriggio del 13 febbraio in varie parti d’Italia brindò al suo futuro migliore, era di Castellammare di Stabia. Pare che abbia aperto un negozio d’abbigliamento, anzi ne aprì uno più grande e più bello, ed ancora oggi vende i suoi prodotti nella Città delle Acque.
Mentre da un lato partiti ed istituzioni fantasticavano, senza costrutto sulla rinascita della città, in realtà altre industrie andavano in crisi, come la Calce e Cementi Segni, per la quale si temeva addirittura la chiusura in quel marzo 1972. Lo stabilimento stabiese, sorto nel 1935 e realizzato dal gruppo BPD, Bombrini – Parodi – Delfino, la cui sede centrale e primo stabilimento erano a Segni Scalo, nei pressi di Colleferro, si diceva fosse l’unico in tutto il Sud a produrre cemento bianco. Il cementificio aveva conosciuto la sua prima vera crisi già nel 1939, quando l’intero settore industriale conobbe una situazione di stasi dovuta alla difficoltà d’approvvigionamento delle materie prime. La stessa crisi aveva colpito in quel tempo lontano la Cirio e i Cantieri Metallurgici.
La seconda crisi risaliva ai primi anni sessanta, quando dalla sua massima espansione, con circa 300 dipendenti, ridusse nel tempo i suoi dipendenti, fino a scendere ai 164 di quei primi anni settanta, senza passare attraverso nessuna ristrutturazione o ammodernamento tecnologico a giustificare quel calo verticale d’occupati. Il 28 agosto 1971, la vecchia proprietà Segni aveva ceduto, per 30 miliardi, tutti i suoi stabilimenti all’Italcementi di Carlo Pesenti (1907 – 1984), un disinvolto imprenditore vicino ai movimenti d’estrema destra e padrone dei giornali, La Notte, di Milano e II Giornale, di Bergamo.
Il pagamento di 30 miliardi doveva avvenire nella banca di Zurigo, favorendo così quell’esportazione di capitali all’estero che è una delle principali cause dell’attuale crisi economica che Pesenti e tutti i padroni come lui cercano di addebitare agli scioperi dei lavoratori (…). Lo scopo dell’acquisto era di eliminare un concorrente e di assumere il pienocontrollo dell’industria cementiera. [11]
L’imprenditore si preparava, di conseguenza, a chiudere diversi stabilimenti, per concentrare la produzione in altri, con lo scopo non nascosto di tenere sotto controllo la produzione e mantenere alti i prezzi.[12] Tra quelli destinati alla chiusura rientrava lo stabilimento di Castellammare. Contro questa strategia neanche tanto occulta, su richiesta della Fillea Cgil e Filca Cisl, sindacati di categoria dei cementieri, si era tenuto il 2 febbraio 1972 un incontro al Ministero del Lavoro, dove Pesenti non si era presentato, facendo sapere di non essere interessato a trattare su un’azienda di cui aveva deciso la chiusura. Da Castellammare i lavoratori risposero con quattro ore di sciopero, mentre a livello nazionale le organizzazioni sindacali, Cgil Cisl Uil, chiedevano la nazionalizzazione del settore
(…) perché è assurdo che lo stato debba prima concedere gratuitamente o a prezzi irrisori le cave di cemento, per poi comprare il cemento stesso ai prezzi di mercato imposto dagli speculatori dell’industria…[13]
La vertenza ebbe una momentanea pausa con la messa in cassa integrazione di 65 lavoratori, quasi il 50% dell’organico.
Negli stessi giorni scioperavano le operaie della Cirio. In quella nuova stagione lavorativa, la produzione dei pelati aveva dato lavoro soltanto a trecento delle mille persone normalmente occupate stagionalmente, mentre gli addetti alla lavorazione dei piselli non avevano raggiunto i sei mesi di lavoro, necessari per usufruire dell’indennità di disoccupazione. A rendere più fosco il quadro c’era la previsione, nel Piano regolatore in discussione, di spostare la stazione delle FF.SS. nell’area della fabbrica, una volta dismessa ogni sua attività, così come era prevista la scomparsa del cementificio Segni per fare posto ad attività turistico alberghiero.
Queste coste – si diceva – attendono ancora interventi di salvaguardia assoluta e di riqualificazione, in certi casi addirittura di bonifica, anche se ciò dovesse costare l’allontanamento di attività industriali, il cui danno all’ambiente ecologico e quindi alla convivenza della specie umana, non è in alcun modo compensato dalla modesta loro incidenza nel contesto produttivo del territorio.
Per un’amministrazione, quella del democristiano Vincenzo Dattilo, distintosi per le gravissime speculazioni edilizie e per le spregiudicate scelte urbanistiche, quelle parole suonavano come un’offesa per quanti avevano a cuore le sorti della città e quindi, per molti, quelle parole preannunciavano in realtà nuovi scempi. Contro il piano regolatore, accadde allora un paradosso: Antonio Capasso, socialista della maggioranza, si rifiutò di dare il proprio assenso, ma a dare man forte intervenne un socialista dell’opposizione, Michele Vollono, rimangiandosi con questo atto le sue stesse denunce più volte fatte contro l’arroganza e la spregiudicatezza di quella stessa amministrazione.
Fra tante ombre e preoccupazioni, una luce chiara venne dalla chiusura di una vertenza portata avanti dai lavoratori dell’Avis fin dal novembre 1971, portando ad un accordo in cui si contemplavano 80 nuove assunzioni entro la fine di marzo e una nuova ondata di altrettanti lavoratori entro la fine dell’anno. Altri punti qualificanti erano la costruzione di una nuova mensa, la modificazione della tabella di cottimo, non più discriminante secondo il colore politico o sindacale dei lavoratori, un diverso tipo d’organizzazione del lavoro da contrattare con il Consiglio di Fabbrica, la nuova struttura sindacale di base subentrata alle defunte commissioni interne.
Intanto il 28 febbraio erano state sciolte le Camere dopo la mancata fiducia da parte del Senato al I governo Andreotti, insediatosi soltanto nove giorni prima, frantumando ogni record negativo di durata di governo.[14] Per la prima volta si ricorreva alle elezioni politiche anticipate chiamando alle urne gli italiani il 7/8 maggio. In crisi andava la stessa Giunta presieduta dall’ex giornalista sportivo del Mattino, Vincenzo Dattilo, dimettendosi il 10 aprile e facendo posto al suo compagno di partito, Antonio Somma (1932 – 2012), un avvocato già presente in qualità d’assessore fin dal 1967, quando fu eletto per la prima volta consigliere comunale.
Le elezioni del 7 maggio portarono ad un sensibile, seppure limitato, spostamento a destra. Non avanzò il Pci, rimasto sostanzialmente fermo ai consensi del 1968, ma crollò il suo alleato Psiup scomparendo dal panorama parlamentare e determinando la sua confluenza nel partito di Enrico Berlinguer (1922 – 1984), pochi mesi più tardi. La sinistra unita non ebbe la forza di ripetere il suo exploit del 1968 a Castellammare, quando toccò il 42,8%, ma conquistò un 39,8 per cento che lo poneva all’attenzione nazionale, migliorò invece, seppur di poco, a Gragnano. Chi vinse furono i neofascisti del Msi-Dn, assorbendo il piccolo partito monarchico e raddoppiando i consensi, passando dal 4.4 del 1968 all’8.7%. Conseguenza di questi risultati fu lo spostamento a destra della stessa Democrazia Cristiana, consentendo a Giulio Andreotti di formare un governo di centro destra, imbarcando liberali e socialdemocratici, mentre i socialisti posero fine all’esperimento di governo decidendo di rimanere all’opposizione dopo la pesante sconfitta subita nelle urne: infatti, per la prima volta dal dopoguerra, il PSI scendeva sotto il 10%, attestandosi sul 9.6%, una quota mai più superata in tutti gli anni settanta.
L’avanzata elettorale del Msi rese arrogante il suo Capo, Giorgio Almirante, al punto da invitare nel corso di una manifestazione a Firenze i suoi militanti a prepararsi allo scontro fisico con i comunisti e a surrogare lo Stato nell’imporre l’ordine, provocando sdegnate reazioni nel Paese. Forse la sua impudenza nasceva dalle decine di attentati, aggressioni e ferimenti che negli ultimi anni insanguinavano il Paese senza trovare una adeguata reazione da parte delle istituzioni e per gli evidenti appoggi da parte delle sfere superiori delle Forze Armate e di alcuni servizi deviati, poi sfociati nel fallito tentativo di colpo di stato. L’anima antifascista di Castellammare trovò la sua espressione più autentica in un telegramma del Consiglio di Fabbrica dell’Italcantieri trasmesso al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio:
I lavoratori per niente intimoriti tracotante discorso fascista, Almirante, poiché classe operaia forza garante democrazia costituzionale, la invitano, quale capo supremo magistratura repubblicana nata dalla Resistenza, intervenire sede opportuna per porre fine al rigurgito fascista. [15]
Per un telegramma che arrivava a destinazione altri erano bloccati e censurati da un decreto di un pretore in vena di protagonismo o perché chiamato in causa dai termini, probabilmente non eleganti, usati dal Consiglio di fabbrica dell’Italcantieri e indirizzati al Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, al ministro dell’Interno, Mariano Rumor e alla Giunta comunale di Parma, per esprimere sentimenti di condanna dei lavoratori dello stabilimento stabiese per l’assassinio di Mariano Lupo, un edile 19enne, attivo militante di Lotta Continua, ucciso il 25 agosto con una coltellata da una squadra fascista che lo aggredì mentre era con un altro compagno, a sua volta selvaggiamente picchiato. Il testo incriminato diceva testualmente
Ad Andreotti: Lavoratori Italcantieri di Castellammare condannano politica governativa antioperaia che alimenta episodi squadristi come assassinio giovane operaio di Parma invitando far rispettare costituzione che vieta risorgere fascismo
A Rumor: Consiglio di Fabbrica Italcantieri a nome lavoratori di fronte bestiale delitto di Parma opera carogne fasciste invita ad intervenire energicamente stroncare spirale fascista grazie organi di polizia.
A Giunta comunale di Parma: I lavoratori esprimono solidarietà famiglia operaio assassinato e a tutti i democratici antifascisti di Parma ritenendosi mobilitati per respingere carogne fasciste.
Il telegramma, accettato dall’impiegato postale era stato bloccato dal pretore di Castellammare, Augusto Ricciardelli, perché disdicevole alle esigenze di un comportamento civile.
Per quanto concerne l’espressione carogna, a parte il significato ingiurioso dell’invettiva rivolta alle persone indiziate come autori del fatto (…) non è difficile cogliere in tale espressione uno stile che non ha nulla di diverso dalle ideologie – come quella fascista – che propugnano la violenza e denigrano le istituzioni, nonché una carica di odio che mal si consiglia con lo spirito di reciproco rispetto, di fratellanza ecc.[16]
Uno dei tre assassini, successivamente condannato a quattro anni e cinque mesi, si chiamava Luigi Saporito ed era consigliere comunale di Torre Annunziata e segretario della locale sezione missina. La città reagì all’accaduto affiggendo un manifesto murale dove, nell’esprimere la sua solidarietà alla famiglia del ragazzo ucciso, dichiarava la sua vergogna nell’avere in consiglio comunale un uomo simile. Due manifestazioni, a Torre e a Castellammare, videro la partecipazione delle stesse amministrazioni comunali dell’intera area torrese. A Castellammare tra gli oratori parteciparono il senatore Maurizio Valenzi e il rappresentante del Consiglio di Fabbrica dell’Italcantieri, Salvatore Aiello. [17]
A Castellammare, passata la campagna elettorale – candidato, senza fortuna, alla Camera era stato Alfonso Di Maio, docente universitario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Napoli, già militante del Psiup e consigliere comunale a Gragnano, dove era stato eletto nelle ultime amministrative – e terminata la passerella dei big democristiani, dal senatore Silvio Gava, Ministro dell’Industria e Commercio, tornato nella sua città per inaugurare la campagna elettorale con il comizio d’apertura del 24 marzo in un gremito cinema Nazionale, a Giulio Andreotti, trombato, ma pur sempre potente Presidente del Consiglio uscente, ricominciarono i problemi di sempre. Alla Cartiera Cascone ricominciò lo stillicidio di licenziamenti, motivandoli stavolta con la necessità di chiudere i reparti stampa e allestimento per la carta lavorata, per mantenere in vita solo il reparto per la carta in bobina. Contemporaneamente la Cirio dava segnali di smobilitazione, concentrando le sue produzioni a San Giovanni a Teduccio.
Come se tutto questo non bastasse, nuove tensioni si aprirono in luglio all’Avis, per la chiusura momentanea della mensa, dopo alcuni casi d’avvelenamento per cibi guasti e per il mancato rispetto dell’ultimo accordo sulla prima trance di 80 assunzioni. In quelle stesse settimane, quasi a voler dare man forte alla fabbrica stabiese, si era aperta una vertenza nazionale dei ferrovieri, rivendicando uno stanziamento di 4mila miliardi per l’ammodernamento dell’azienda e il potenziamento di alcune linee, così come si chiedeva il miglioramento delle condizioni di lavoro, l’eliminazione degli appalti e l’assunzione di 25mila nuove unità, per eliminare l’attuale condizione di sfruttamento dei ferrovieri in servizio. In questo contesto s’inserirono i lavoratori dell’Avis, chiedendo l’ammodernamento dell’azienda per realizzare 900mila ore di lavoro a fronte delle attuali 600mila nelle quali erano impegnati, per consentire quelle assunzioni di cui la città aveva tanto bisogno.
Uno sviluppo dei trasporti in termini d’ammodernamento del parco rotabile (carrozze e carri che hanno più di 60 anni di vita), significa maggior lavoro di costruzione, aumento del parco rotabile e incremento delle riparazioni (…), ma la battaglia dei ferrovieri, come battaglia per l’Avis è un momento di quella necessità d’alleanza e unità del mondo del lavoro di cui si ha bisogno in Italia per battere il boicottaggio della FLAT (che non consente la costruzione di carri e carrozze) e la sordità del governo reazionario di Andreotti – Malagodi (….), recitava un volantino del Consiglio di Fabbrica Avis, distribuito per le strade cittadine.
Paradossalmente l’azienda replicava inviando una lettera ad ogni dipendente minacciando sospensioni nel caso fossero continuati gli scioperi rivendicativi. Inutili dire che alla minaccia i lavoratori risposero effettuando una protesta di due ore. [18]
In quei giorni si concludeva, dopo quattro mesi di scioperi, anche la lotta dei termali, riuscendo finalmente ad ottenere il nuovo contratto di lavoro e continuità occupazionale, dopo aver chiesto alla stampa ed ai gruppi parlamentari un concreto sostegno alla loro difficile vertenza; mentre entravano in sciopero i comunali sul riassetto delle carriere dei dipendenti e i pastai e mugnai di Gragnano per il rinnovo contrattuale. Come sempre accade vi è chi sciopera per migliorare le proprie condizioni economiche e chi, invece, lo deve fare, esclusivamente, per difendere i propri diritti lesi, se non semplicemente il posto di lavoro in pericolo: era il caso della Calce e Cementi, dove i 65 operai in cassa integrazione rischiavano di non vedersi riconosciuto il diritto al pagamento perché nella richiesta inviata al Ministero del Lavoro non era stato allegato nessun progetto di ristrutturazione, come invece prevedeva la legge per usufruire di questo strumento. Inutilmente gli ispettori ministeriali, giunti in fabbrica, chiedevano chiarimenti. A vuoto erano andate due riunioni consecutive presso l’Ufficio regionale del lavoro, il 25 agosto e il 21 settembre in quanto Pesenti aveva fatto sapere di non avere nulla da dire. A tentare di calmare le acque intervenne, allora, il sindaco, Antonio Somma, sostenendo che non vi dovevano essere eccessive preoccupazioni, perché il 2 ottobre tutti i lavoratori sarebbero tranquillamente rientrati in fabbrica. In realtà il 27 settembre si riuscì ad avere una riunione presso l’Ufficio provinciale del lavoro e qui i rappresentanti aziendali per la prima volta esplicitarono le reali intenzioni, dichiarando di modificare la richiesta di cassa integrazione, motivandola non più per ristrutturazione ma per riconversione verso altre attività industriali. Si aprì, dunque, per i 160 lavoratori del vecchio cementificio, un nuovo e lungo calvario fatto di cassa integrazione a rotazione, durato diversi anni e con il trasferimento finale, nel 1975, di 20 operai in un altro stabilimento dell’Italcementi di Salerno e degli altri nel nuovo stabilimento di Volla, dove si sarebbero prodotti tubi in plastica e in amianto cemento. [19]
Il sogno di Carlo Pesenti era di realizzare al posto dell’antico cementificio un grande polo alberghiero già in quei primi anni settanta, ottenendo unicamente di smantellare l’apparato produttivo in cambio di niente, lasciando a futura memoria un rudere d’impianto industriale, abbandonato a se stesso per un quarto di secolo e trasformato in un covo di ladri, contrabbandieri, deposito illegale, luogo d’incontri di malaffare e regno di ratti e animali d’altra natura. All’inizio degli anni ottanta ci fu un certo interessamento da parte di diversi gruppi industriali, compreso quello di Silvio Berlusconi, per riprendere il progetto alberghiero ma s’infranse ancora una volta contro mille difficoltà di varia natura, amministrative e ambientali. Ritornerà nei progetti della Tess (Torre e Stabia Sviluppo, agenzia per il reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione delle aziende in crisi dell’area torrese stabiese), nella seconda metà degli anni novanta, nell’ambito di un ridisegno più complessivo del territorio, di cui parleremo più diffusamente nella seconda parte di questo lavoro. Conta ora sottolineare quanto tempo si è inutilmente perduto in tutti questi anni: se si fosse riuscito a realizzare fin d’allora un progetto, oggi solo molto parzialmente andato in porto, se non sostanzialmente fallito, si poteva, accelerare un processo, in fondo da tutti sognato ma da nessuno realizzato, quello di una città proiettata verso il turismo internazionale, alla pari di Sorrento e Capri. Certo con i se e con i ma non si è mai realizzato niente di buono ed è inutile piangere su quanto poteva essere e non è stato, consoliamoci con il vecchio adagio secondo il quale ogni cosa nasce al momento opportuno, quando le condizioni maturano e gli uomini e la società sono pronti a recepire i cambiamenti. Del resto il progetto di Carlo Pesenti era, per quanto se ne sa, svincolato da ogni disegno più complessivo di riassetto del territorio, di trasformazione del sistema socio economico della città e più complessivamente dell’area circostante, a differenza di quanto proposto dalle tre organizzazioni sindacali confederali del comprensorio vesuviano esterno nelle loro Linee programmatiche presentate nel novembre 1991 e successivamente ampliate dai diversi contributi presentati dalle forze politiche, istituzionali e imprenditoriali.
L’esperienza vissuta nel primo decennio del terzo millennio ha dimostrato che neanche questo è sufficiente quanto il degrado politico istituzionale è tale da confondere ruoli, funzioni e responsabilità e il senso dello Stato svanisce sotto i colpi della corruzione più bieca, piegandosi alla legge del profitto personale, all’arricchimento proprio e altrui a discapito della comunità che si rappresenta, che si dovrebbe rappresentare. Gli sforzi profusi negli ultimi quindici anni dalle singole personalità disperse nelle diverse forze sociali, politiche ed economiche non soltanto cittadine ma regionali e nazionali, hanno partorito risultati contraddittori, troppo spesso soccombendo sotto i colpi sferrati da una occulta cricca di potere annidata nei vari gangli istituzionali e non, capaci di indirizzare e governare i reali processi incanalandoli nella direzione voluta, favorendo progetti a discapito di altri e imprenditori amici, complici nel malaffare, realizzando uno sviluppo effimero, svanito come neve al sole, scomparendo con quanti invece si erano presentati con false credenziali. Non diversamente da quanto aveva tentato di fare Pesenti, la cui finalità era di speculare su un opificio costruito in un angolo di paradiso, ottenendo come unico risultato soltanto d’impoverire un tessuto produttivo già precario.
P.S.: Chiunque possa e voglia fornire notizie e foto utili all’approfondimento dei temi trattati può contattarmi sia tramite il portale liberoricercatore.it, sia sulla mia mail personale: raffaele_scala@libero.it
Note:
[1] Uomo di fiducia di Antonio Gava, assessore regionale dal 1976 al 1987, fu arrestato, mentre sta per ricevere una tangente di 80 milioni dall’impresa padovana, Vittadello in cambio di un appalto a Capo Sele. Cfr. Francesco Barbagallo: Napoli fine Novecento, pag. 114, Einaudi editore 1997.
[2] Testimonianza di Luigi D’Auria all’autore.
[3] Per maggiori particolari cfr Raffaele Scala: La Camera del Lavoro di Gragnano. 1909 – 2009, pag. 104/106, Nicola Longobardi Editore, 2009.
[4] l’Unità del 18 febbraio 1971: I lavoratori respingono una provocazione fascista.
[5] L’anno più tragico nell’odiosa conta dei morti sul lavoro fu il 1963 con 4.644 caduti. Se ne conteranno 3.744 nel 1966, 2.793 nel 1976. Cfr. Il Mattino del 13 gennaio 2009: Morti bianche, strage infinita, di Roberto Giuscardi.
[6] Nominato generale di Corpo d’Armata, massone iscritto alla P2, coinvolto nell’operazione Gladio, Vito Miceli sarà poi eletto deputato per il Movimento Sociale Italiano dal 1976 al 1987. Morirà durante un intervento chirurgico subito in Francia nel 1990.
[7] l’Unità del 4 novembre 1971: A Castellammare polizia scatenata contro la protesta dei disoccupati, art. in prima pagina di Ennio Simeone.
[8] l’Unità del 5 novembre 1971: Castellammare, rinnovato impegno di lotta per la ripresa economica, art. in prima pagina di Sergio Gallo.
[9] Cfr. l’Unità del 9 novembre 1971: Oggi Castellammare sciopera e manifesta per l’occupazione e del 10: Tutta Castellammare ferma per il lavoro e le riforme, entrambi gli articoli sono di Ennio Simeone.
[10] l’Unità dell’8 febbraio 1972: Sciopero generale a Castellammare.
[11] Nuova Iskra, anno IV Nuova Serie, n° 14: Calce e Cementi. Minaccia di chiusura di Giuseppe Esposito.
[12] Ibidem. Il gruppo Segni, oltre a quello di Castellammare, possedeva stabilimenti a Colleferro, Vibo Valentia, Savignano e Scafa.
[13] Ibidem.
[14] Il monocolore democristiano guidato da Andreotti si era costituito il 17 febbraio, dimettendosi il successivo 26. Sempre ad Andreotti appartiene il secondo posto di negatività nella durata di governo, con 11 giorni: il 20 marzo 1979 costituirà un governo DC – PRI e si dimetterà il 31 di quello stesso mese. Lo emulerà Amintore Fanfani il 17 aprile 1987, quando varerà un governo con la sola Democrazia Cristiana, rafforzato con nove ministri tecnici. Durerà anch’esso 11 giorni presentando le dimissioni il 28 aprile. Il record di durata invece, rimasto saldamente nelle mani di Bettino Craxi per molti anni con 1058 giorni – dal 4 agosto 1983 al 27 giugno 1986 – Presidente del Consiglio di uno dei tanti famigerati pentapartiti (DC, PSI, PRI, PSDI, PLI), sarà poi frantumato da Silvio Berlusconi con 1412 giorni nel corso del suo secondo governo durato dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005. Il suo quarto governo, eletto nel 2008, si fermerà a 1283 giorni nel novembre 2011, travolto dalla violenta crisi economica e finanziaria in cui era precipitato gran parte del mondo occidentale, ma aggravata in Italia dalla cieca negazione della drammatica situazione da parte dello stesso Presidente del Consiglio.
[15] l’Unità del 7 giugno 1972: Risposta democratica alla provocazione fascista. Per le sue affermazioni, Almirante fu incriminato per il reato di ricostituzione del partito fascista dal Procuratore Generale di Milano, l’ex partigiano Luigi Bianchi D’Espinosa (1911 – 1972), chiedendo l’autorizzazione a procedere alla Camera. Pochi giorni dopo, però, il procuratore morì.
[16] l’Unità del 3 settembre 1972: Un telegramma bloccato perché condanna le carogne fasciste.
[17] l’Unità del 4 settembre 1972: Proteste antifasciste nel napoletano. Per l’omicidio di Mariano Lupo furono condannati Edgardo Bonazzi a 11 anni e otto mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale, e Andrea Ringozzi e Luigi Saporito per concorso, rispettivamente a sei e quattro anni.
[18] l’Unità del 24 agosto 1972: Nuovi attacchi all’occupazione.
[19] La Zona, bollettino a cura delle organizzazioni sindacali di zona, numero unico, 17 settembre 1975, art: Italcementi, di Carlo Iezza, Responsabile del Consiglio di Fabbrica dell’ex Calce e Cementi Segni.
C’è da complimentarsi con l’obiettività di chi ha esposto questa cronistoria con cuore fedele alla città. Essa ci induce a ricordare i tanti movimenti sindacali, anche esasperati, posti in atto dalla “Cittadella rossa”. Ma anche il sindacalismo deve presentare nel conto il positivismo delle sue battaglie e lo deve fare documentando i risultati (algebrici) ottenuti a vantaggio di tutta la classe che tutela. Orbene Castellammare ha proceduto in un continuo declino perdendo tutti i suoi punti di forza: Terme, Cantieri, Corderia, Avis, C.M.I., Turismo, Artigianato etc… Non c’è da scendere nel merito o nel dettaglio; di fronte a questi risultati il sindacato locale ha miseramente fallito.
Posso anche condividere il pensiero dell’amico Izzo sulle responsabilità del sindacato locale per lo sfascio dell’industria locale, ma queste responsabilità vanno ampiamente condivise con la classe politica, che considerare inetta sarebbe un ridicolo eufemismo. Il sindacato ha pagato e sta pagando a caro prezzo la sua cecità, il suo essersi trasformato in una casta autoreferenziata e autolesionista.
E del resto a Castellammare, per non andare oltre, sono anni ormai che il sindacato non esiste più, rimane solo la sua ombra, forse neanche quella.
La fine dei partiti di massa ha accelerato un processo di degenerazione della politica che risponde ormai solo a interessi individuali e corporativi i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per rimanere alle cose stabiesi basterebbe vedere il triste spettacolo dello scioglimento del nostro consiglio comunale, frutto di una guerra per bande, di tutti contro tutti perché nessuno misura le sue capacità e tutti credono di essere dei leader in 32°.
La tragedia di Castellammare ha origini lontane, forse affonda in quell’insano dualismo nato negli anni Cinquanta e che vide contrapposte due strategie, quella di chi voleva una Castellammare industriale (la sinistra guidata da Pasquale Cecchi) per non perdere la propria egemonia, e chi puntava tutto sulla Castellammare turistica), la Democrazia Cristiana di Silvio Gava) che puntava all’indebolimento politico del Pci.
La verità, come sempre, sta nel mezzo, perché le due realtà, se ben governate, potevano ben coesistere e dare un volto e un futuro diverso alla nostra belle e sfortunata Città, ma la nostra sfortuna è stata quella di essere stati governati da pigmei, da una classe politica corrotta e collusa con il malaffare, come hanno ampiamente dimostrato le varie inchieste giudiziarie. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Alla luce di queste considerazioni e dei dati storici incontrovertibili potrei raccontare solamente il mio vissuto di ragazzo in formazione finito altrove lontano da una città che aveva ed ha tante possibilità per vivere degnamente la storia di oggi ma ancora in preda a dolori di pancia che ancora non riesco ad attribuire se alla mala vita che nel lontano dopo guerra erano ragazzi come me o alla politica che nel suo risorgere presentava atteggiamenti di malessere sociale, praticata per un arricchimento individuale dei soggetti in essa impegnata. Ogni tanto mi chiedo a chi torna utile tutta questa disgrazia. Certamente alla classe medio alta che una volta si riuniva nei circoli salottieri e complottisti che prosperavano e che sicuramente prosperano ancora con situazioni di disagio economico di personale cittadino che ogni giorno si trasferisce altrove fuori città per avere soldi a disposizione per vivere. Quelli che piango sono i vecchi che ancora resistono con i loro atteggiamenti da commedia. La cultura è in preda a mestatori che l’adoperano per sopravvivere e far sopravvivere le tante illusioni che ancora permangono. Castellammare di stabia è una realtà composità. La stessa composizione del consiglio comunale la dice lunga. I saccheggi continuano e la città si trasforma in dormitorio per diventare, distruggendo quello che resta ancora di edilizia industriale, in dormitori con pace all’anima di chi aveva messo su un mulino, per chi si ricorda dell’AVIS, della Maricorderia, dei Cantieri metallurgici a fronte di una nuova deliquenza che produce moneta falsa, interessi all’etero vedi Romania e Mar nero e addirittura in Russia. Tanti assieme alle terme hanno dimenticato una piccola acciaieria, Un saponificio, una fabbrica di materassi, la Compagnia meridionale del Gas, i piccoli cantieri navali di cui ogni tanto tornano i titolari tornano alla mente come eroi con i loro titoli sportivi o i riconoscimenti conquistati.
Gli ecomostri a Castellammare ci sono sempre stati. Prendi il Montil, L’albergo sul lungomare e tutte le dimenticanze operate perchè la città finisse al servizio di una politica malata che non ha saputo difendere neppure quello che aveva prodotto. Oggi Castellammare vive pù di traffici illegali che di benessere alla luce del sole. L’attuale amministrazione sta mettendo le toppe nei primi giorni di vita. Torneremo sull’argomento quando faranno pulizia all’interno del palazzo almeno nella portata di Corso Alcide De Gasperi e di Via Roma dove l’amministrazione Pannullo aveva dimenticato un figlio disagiato di questa realtà caotica, irregolare e di “cazzi suoi buoni”. Gioacchino Ruocco