a cura di Maurizio Cuomo
Per la gentile concessione della preziosa raccolta dattiloscritta dal titolo “Meralda” di Michele Salvati, tratta da stralci di articoli pubblicati separatamente1(da cui ci riserviamo di estrapolare esclusivamente l’introduzione descrittiva del contesto in cui si svolge il romanzo), ringraziamo l’amico Antonio Schettino, collezionista, conoscitore e cultore di cose stabiane.
Fra le amene città della Campania primeggia la bella Castellammare. La natura non le fu avara dei suoi doni, e a piene mani le profuse tante bellezze da renderla un lieto e delizioso soggiorno.
Infatti dove trovare più incantevole sito, mentre essa si adagia a piè d’un alto ed ubertoso monte che la guarda dai nocivi venti, col mare dell’ampio golfo di Napoli che si stende terso e scintillante, e lambendo le sue vie ne mitiga efficacemente le temperature estreme, e di fronte, poi, alto s’eleva l’ardito e superbo Vesuvio?
Ridenti pendii, amene colline, pomposamente adorne di aranceti, pieni di soavità e di profumi, sparse di sontuose casine, valli gioconde dove si contempla ogni terrena bellezza le fan corona.
Il clima v’è dolce per il complesso di tante favorevoli condizioni, e più per la varia e ricca coltura del suolo; le aurore ingemmate di perle vi spargono a profusione e gigli e rose, adornano ogni casa, ogni foglia con miriadi di punti d’oro, di porpora, di zaffiri, di rubini, di diamanti: e l’aria balsamata dal profumo delle piante e della marina, è saluberrima.
La città si stende a guisa di anfiteatro lungo una via che costeggia il mare per più di due chilometri, dalla foce del torrente San Marco sino al porto, molto animato e protetto da un molo con il real cantiere navale.
Questa via è la più bella decorazione della città, perché ne accresce la bellezza dell’aspetto e la magnificenza. Da un lato il mare che la bagna si frena al disotto di un lungo parapetto, e dall’altro un continuo ordine di edifizi accarezzati dalla luce, ora con iridescenze fulgide, ora con biancori nivei, ed ora con fiammeggianti raggi dalle vetrine riflessi, ne rendono la passeggiata semplicemente incantevole, riboccante di amena bellezza, variata e salutare, perché possiede, mirabilmente unite, le due più potenti risorse che ha l’uomo: il mare ed il monte.
Poco lungi dal porto, dove il monte Auro s’inflette nel mare, sorge la collina di Pozzano, a cui si aggiunge per un erta poco faticosa, col famoso santuario, con la sua torre quasi a picco sul mare, dando l’idea d’una gigantesca sentinella posta lì per vigilare sulla città di Castellammare, spiando ad un tempo sulla ridente penisola sorrentina e sul golfo.
Da Pozzano si vede la strada solcare con linea sinuosa i fianchi delle collinette, ad un punto interrotta dalle rovine del castello angioino2, spirante ancora minaccia, quasi memore di chi lo fè costruire, dominante la città con le sue irte rocche dagli antichi fasti. E poscia la strada, sempre fiancheggiata da amene ville, da ridenti giardini, sorvola la città sino al poggio di Quisisana, nome che si deve alla guarigione d’un re angioino operata da quelle aure balsamiche.
Questa sede del sorriso, dell’amenità, della floridezza, della salute fu già prescelta dai patrizi romani (giacché Castellammare sorge sulle rovine dell’antica Stabia) che qui si recavano a godere le ampie distese di verde, l’orizzonte incantevole, il cielo sfavillante di divini sorrisi, la poesia del mare, ove albergavano le leggiadre sirene dai canti maliardi e fatali, il fresco dei monti e dei boschetti olezzanti, portandovi il lusso, l’arte e la raffinata moliezza con feste, danze e conviti…
Note:
- Verosimilmente pubblicati a puntate sui giornali cittadini (“Don Chisciotte” e “Stabia”?) d’inizio ‘900. ↩
- Al tempo in cui il Salvati scrisse il romanzo vi era credenza radicata che il castello di Castellammare fosse di epoca angioina… solo successivamente si è scoperto (da un documento manoscritto risalente al 1086) che il castello fosse di epoca antecedente. ↩