Vincenzo D’Angelo e il Duce

di Corrado Di Martino

L'artista D'Angelo negli anni '70

L’artista D’Angelo negli anni ’70

Vincenzo D’Angelo (Pozzuoli, 9 marzo 1906 – Castellammare di Stabia, 10 gennaio 1984) artista poliedrico, fu pittore, poeta e scrittore di fama nazionale. Mosse i primi passi alla scuola di Leon Giuseppe Buono, di Giovanni Brancaccio e successivamente, del leccese Vincenzo Ciardo. Nel 1930 si trasferì a Castellammare di Stabia, dove nel 1936 costituì, in ricordo di Errico Gaeta, la Scuola dei Pittori di Quisisana e, successivamente, quella di Via Coppola. Era molto conosciuto e apprezzato a Bruxelles, a Helsinki, a Praga, a Bucarest, a Varsavia, a Cracovia, a Sofia, e naturalmente, in Italia. Alcune sue opere si ritrovano in collezioni private, come: la Pirelli a Milano, la Martinez a Parigi, la Sormani ancora a Milano, come anche la Villani; e in collezioni pubbliche come quella del Museo civico di Pescara, del Banco di Napoli, del Palazzo Strozzi di Firenze, del Museo Civico di Milano, e del Comune di adozione Castellammare di Stabia. partecipò al Premio Bergamo, al Premio Michetti, al Premio Suzzara, Premio Posillipo, alla Quadriennale di Roma (1937, 1951) ed alla Biennale di Venezia (1950) solo per citare la partecipazioni ai maggiori eventi.

A questo punto, vorremmo trattare il particolare episodio vissuto da D’Angelo, alla  I° Quadriennale di Roma, quella del 1931. Presidente di quella quadriennale fu Enrico di San Martino Valperga; Segretario Generale, Cipriano Efisio Oppo. Quella Quadriennale, la prima in Italia, fu la più vasta vetrina nazionale dell’arte figurativa. All’apertura il 5 gennaio del 1931, furono testimoni di rango Vittorio Emanuele III e la Regina Elena.

Il sabato precedente l’inaugurazione, il 3 gennaio 1931, Benito Mussolini (immancabile giurato per l’assegnazione premi) aveva partecipato alla vernice (vernissage, l’autarchia linguistica, vietava il francesismo) alla presenza degli artisti e degli addetti ai lavori. Quel sabato, c’era gran fermento nei corridoi della mostra, i saloni allestiti in gran pompa, luminosi e lustri, sembrava avvertissero l’importanza del momento e, soprattutto, dell’ eccezionale visitatore che doveva arrivare di lì a poco. Stivali lucidi, mostrine e medaglie, su petti gonfi e tronfi, gerarchi, donne imbellettate, cortigiane, scagnozzi e tirapiedi. Tutti a sgomitare per porsi in evidenza; tutti eccitati, infiammati oltre ogni limite, arrivava il Duce. Vincenzo D’Angelo, fra gli artisti di gran nome in esposizione, come incurante di tutto questo fremere, era magneticamente attratto da una rappresentazione campestre, fatta da un suo collega vicino di postazione, viveva come una lieve sindrome di Firenze.

La pecore, la vacca e il toro

Un conflitto antitetico, affascinava il pittore puteolano, tanto fermento in giro, tanta fibrillante eccitazione, mentre dal quadro del suo vicino traspariva la pace e la serenità di un paesaggio agreste e pastorale. Una vacca distesa sotto un albero, presso di lei un torello, qualche ovino e un pastore. Gli occhi, dell’animale disteso, attraevano D’Angelo, vi era in essi un velo di tristezza, una sorta di arguta premonizione per quello che sarebbe accaduto in Italia e nel mondo di lì a poco. L’artista stabiano, almeno di adozione, era rapito da tanta pace, avvertiva come una brezza sul suo volto; i profumi della campagna si mescolavano a quello dell’olio sulla tela, una tortora volava sull’ ampio pascolo, la ricchezza dell’alpeggio e i suoi colori rapivano lo spirito dell’artista. Improvviso, come un temporale di fine estate, arrivò l’annuncio che il Duce stava arrivando, un gerarca diede una ultima lucidata agli stivali, sfregando la punta dell’uno, sulla stoffa del pantalone che ricopriva l’altra gamba; una matrona già iniziò a battere animatamente le ciglia, un giovane impettito gonfiò il torace fino a sembrare una rana in amore, un cerimonioso cerimoniere con voce ferma disse: – Eccolo, finalmente è qui, il Duce è con noi..! – Un silenzio tombale, piombò nella sala mentre gli stivali del seguito all’unisono con quelli del Duce, cadenzati, avanzavano. Immaginate l’improvvisato palcoscenico:
Mentre Mussolini s’avanza, di botto si ferma; divarica le gambe, appoggia i pugni sui fianchi, ruota la testa ed ammira l’immagine bucolica del vicino di D’Angelo. Indica, la mucca al centro del quadro, ed annuisce,come approvando la scelta poetica di rappresentare: una vacca (l’Italia[?]) pronta al sacrificio; un toro arzillo,  pronto ad approfittare di essa (il Duce[?]); delle pecore ignave (gli Italiani[?]); un pastore fermo lì a guardare (il Papa[?]). Benito, approva! Lo dimostra, guardando l’artista negli occhi, appagato; la reazione di questi non si fa attendere, il volto assume un colore paonazzo, come di metallo infuocato. Un capogiro, una profonda vertigine, e poi crolla a terra, svenuto; oltre che mostrando una scarsa Italica virilità, che disturba il Duce; anche palesando un’eccessiva commozione. Mussolini, seccato, mettendo su il suo naturale broncio, passa a guardare i quadri di D’Angelo. Il giovane Vincenzo, non intende fare la pessima figura del suo predecessore, e nonostante un forte tonfo allo stomaco, fermo, attende il responso del Duce. Col dito verso una delle viste dipinte dal D’Angelo, sembra chiedere: – chi ha dipinto questo? – Pronta e forse ardita la risposta di D’Angelo: – È ‘o mio…-. Il codazzo, si zittisce, il giovane dal torace gonfio accenna ad un colpo di tosse, la matrona sbianca dal terrore; il pittore svenuto appena ripresosi, ripiomba a terra in preda al panico. Il Duce, indifferente a tanta apprensione, chiede ancora: – Napoletano?!? Su Napoli anche il paesaggio? Caliginosi!- D’Angelo, si era ripromesso che se non avesse avuto parole di elogio, avrebbe reagito, a modo suo, sanguigno e verace; ma il codazzo, rasserenato e ravvivato, da queste osservazioni, gli fa comprendere che Mussolini ha gradito le sue pitture. Di nuovo il Duce: – È Napoli vero? – E D’angelo: – No è Castellammare di Stabia..!- Improvviso, come era solito fare, Benito, cambia d’umore, si rabbuia, diventa scuro in volto, e cogitabondo, si allontana.

Questa in pratica la scena, capirete quanto D’Angelo, rimase sbigottito; non capì questo mutamento di umore, restò basito, non riuscì a comprendere il motivo di questo repentino cambiamento di umore. Noi di Libero Ricercatore, abbiamo associato questo episodio della vita di Vincenzo D’Angelo, alle note vicende descritte da Antonio Ferraro nel suo testo “la resistenza a Castellammare nel settembre 1943” a pagina 156. “…Un insediamento industriale, quello del cantiere, le cui maestranze, nonostante il fascismo, nonostante le persecuzioni verso gli oppositori del regime, mantennero in gran parte sempre un atteggiamento – per quanto possibile – di non allineamento alle imposizioni mussoliniane: ancora fresca era la memoria della tempestosa visita del Duce ai cantieri del 16 settembre 1924, quando Mussolini fu accolto freddamente dagli operai ad appena un mese dal delitto Matteotti.” Testimoni del tempo, dissero che Mussolini era stato accolto con lanci di verdure marce ed insulti, per cui era plausibile, un suo indispettirsi al sentire il solo nome della Città ribelle.


Note: le informazioni biografiche introduttive, sono state gentilmente concesse dal prof. Giuseppe D’Angelo (figlio del compianto Vincenzo).

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