Di necessità virtù

articolo del dott. Tullio Pesola

Attualmente viviamo in una società in cui rapidità e velocità la fanno da padrone, dove regna la filosofia dell’usa e getta, dove ciò che è usurato non viene riparato, ma prontamente sostituito; oggi si dispone di internet, di pay TV, di smartphones, si indossano abiti griffati, si segue la moda dei motori, ci si concedono lunghe e costose vacanze, ci si interessa di imbarcazioni, ristoranti stellati e quant’altro, per cui diventa difficile o addirittura impossibile farsi un’idea di come potesse articolarsi la vita anni addietro (anche se non molti) nel Paese e, quindi, nella nostra città.
Gli anni che precedettero l’inatteso boom economico, infatti, furono quelli in cui era indispensabile, per chi non riuscisse a garantirsi un lavoro stabile e senza soluzione di continuità, inventarsi un’attività che gli permettesse, anche se tra alti e bassi, di vivere con dignità, se non addirittura talvolta di sopravvivere alla povertà. Come si può facilmente intuire, si viveva in… presenza di ristrettezze economiche, per cui si cercava di ridurre al minimo gli sprechi e di risparmiare fino all’ultimo centesimo e ciò che era rotto, andava necessariamente ripristinato. E, poiché -come comunemente si dice- “non tutti i mali vengono per nuocere”, anche tale situazione offriva il suo risvolto positivo, quello, cioè, di permettere a tanti di avvalersi di un’ulteriore possibilità per socializzare. Prendevano, così, a consolidarsi sempre più le figure dell’aggiustatore di ombrelli, dell’arrotino, del riparatore di oggetti di creta smaltata, dell’impagliatore di sedie…
Se, ad esempio, per un malaugurato caso, andava fuori uso un ombrello, si attendeva con impazienza l’arrivo dell’ombrellaio, un artigiano ambulante che riparava gli ombrelli che avevano ceduto alle forti raffiche di vento o che si erano consumati in qualche loro parte. Egli rattoppava la tela, sostituiva le stecche, cambiava il manico e… l’ombrello, grazie ai suoi miracoli, tornava a funzionare.

aggiustatore di ombrelli

aggiustatore di ombrelli

Un ricordo sembra essere rimasto scolpito nella mia mente: ogni lunedì si presentava puntualmente nel nostro quartiere, in via Brin, un’altra figura di rilievo e meritevole di essere menzionata. Era un uomo di statura alta, magro e con una grossa voglia di lampone sulla guancia destra. Non saprei dire da dove provenisse, ma so di certo che arrivava spingendo uno strano macchinario di legno come fosse una carriola. Si fermava nello slargo antistante lo stabilimento dell’acqua Acetosella, dove sistemava il suo marchingegno indispensabile per svolgere le sue mansioni, quelle dell’arrotino.

arrotino ambulante

arrotino ambulante

La scelta di quel posto, per dare corso a detta attività, non era dovuta al caso, bensì ad una strategia logistica in merito all’ubicazione dei vari esercizi commerciali interessati alla sua opera, oltre a consentire a tutte quelle massaie che avessero avuto bisogno di arrotare forbici o coltelli, di raggiungerlo agevolmente. C’è da aggiungere a quanto detto ancora una cosa e cioè che la sistemazione in quel luogo piuttosto che in un altro era dovuta anche al fatto che sul lato opposto della strada, strettamente adiacente al ristorante “Marechiaro”, c’era il bar di don Espedito De Lorenzo -valido intenditore della “tazzina”- locale estremamente piccolo, ma grazioso, dove all’occorrenza il nostro artigiano sperava di potersi ristorare con un gradevole caffè offertogli da qualche anima buona. Non mancavano, poi, le non tanto sporadiche apparizioni del “conciabrocche”.

piatto e brocca

piatto e brocca

Che nome strano! Certamente vi chiederete chi fosse costui, in cosa consistesse la sua opera… Vi ricordate della novella di Pirandello “La Giara”? Bene! Allora ci siete! In essa, infatti, leggiamo – per farla breve – che don Lollò Zirafa si avvale dell’opera di Zi Dima, il conciabrocche, per farsi aggiustare la sua grossa giara rotta. Lasciando a chi non conoscesse (credo nessuno) questa novella la possibilità di soddisfare il suo bisogno di sapere, noi ritorniamo al nostro conciabrocche, immaginandolo in piena opera. Era solito impiantare la sua postazione di lavoro nel cortile che seguiva l’androne del palazzo di Terrone, proprio di fronte all’allora rinomata fonderia dei fratelli “Iorio”. L’attrezzatura di questo artigiano ambulante era ridottissima: calce spenta, un paio di tenaglie, filo di ferro ed uno strano aggeggio che svolgeva la funzione di trapano. Egli praticava due file di fori lungo entrambi i lembi dell’oggetto rotto, poi faceva passare tra i due buchi corrispondenti un filo di ferro lungo una decina di centimetri e ne avvolgeva i capi strettamente e delicatamente su se stessi. Una volta finita questa operazione, i due lembi ed i fori venivano ricoperti con la calce e l’intervento era così completato. Così facendo, questo valente artigiano era capace di riportare all’uso abituale qualunque oggetto di terracotta, per cui un piatto, un catino che si rompevano o mostravano segni di prossima frattura, venivano riposti in attesa che passasse il conciabrocche. Non certo minore importanza aveva l’impagliatore, ovverosia colui che rimetteva a nuovo sedie, rifacendo le impagliature di quei sedili ormai distrutti e logorati dal tempo. A differenza degli altri ambulanti che prestavano la loro opera direttamente sul posto, l’impagliatore ritirava le sedie da trattare, impegnandosi a consegnarle rinnovate ai legittimi proprietari dopo una settimana.

l'impagliatore

l’impagliatore

Va da sé che questa cultura della parsimonia non era assolutamente avarizia, bensì rispetto di ciò che si possedeva, che tendeva, come si diceva in apertura, a conservare ed a riparare gli oggetti danneggiati.
E che dire del materassaio? Da sempre, si può affermare, che, quando si arreda una camera da letto, ciò che si cura con particolare dovizia è il letto matrimoniale; oggi, più che mai, ci si preoccupa di scegliere, tra i tanti materassi in vendita, quello giusto per noi, quello, cioè, che ci permetterà di dormire sonni tranquilli, di riposarci e di rilassarci al meglio. Allora, pensiamo a quello perfetto per la nostra postura notturna, lo vogliamo di ottima qualità, prediligiamo quello realizzato con materiale anallergico e che sia della giusta rigidità per noi… Tutto ciò, grazie alla scienza ed alla ricerca. Anni addietro, purtroppo, i materassi si ottenevano riempiendo una grossa federa con della lana e basta. E ciò consentiva l’apparizione sulla scena di un altro emblematico personaggio: il materassaio. Sapiente artigiano in tale settore, in quello che in epoca successiva sarà etichettato col nome di Centro Storico, era Catello Filosa, che abitava nel palazzo detto del “Crocifisso”, di fronte alla mescita dell’acqua Acidula.

palazzo del Crocifisso

palazzo del Crocifisso

Ritengo doverosa, a questo punto, una breve digressione, unicamente per dire che questo stabile era stato così contrassegnato, perché – come si può rilevare dall’immagine riportata – accoglieva una stupenda edicola nella quale si poteva ammirare una croce su cui erano effigiati i simboli della passione di Cristo. Ora quel fabbricato non esiste più, in quanto al suo posto fu costruito quello che per svariati anni è stato l’imbottigliamento dell’acqua della Madonna. Per dovere di cronaca, faccio presente, inoltre, che la menzionata edicola fu opportunamente restaurata e collocata per volontà dei proprietari alla base della nuova struttura. Catello Filosa prestava la sua opera senza lasciare alcuna gobba o spazio vuoto che potesse compromettere la buona riuscita del materasso, e, grazie alla sua bravura, si era circondato di una clientela piuttosto consistente. C’è da aggiungere solo che le sue prestazioni venivano maggiormente richieste in due particolari periodi dell’anno: prima e dopo l’estate. La richiesta che precedeva l’estate era dovuta al fatto che tante famiglie, dovendo fittare le loro stanze, si preoccupavano di ospitare al meglio i forestieri che si fermavano abitualmente nella nostra città per le consuete cure termali. Queste famiglie, quindi, si privavano dei loro letti, pur di raggranellare un po’ di soldi che valessero a far fronte alle immancabili necessità. Al termine dell’estate, poi, in osservanza a fondamentali norme igieniche, i materassi venivano riaperti, le federe opportunamente lavate, la lana veniva districata e pulita ed in ultimo si chiamava il materassaio che procedeva al rifacimento degli stessi. Con quello che si è appena rappresentato a larghi tratti, però, non si pensi che il tutto si limitasse unicamente a ciò. In diversi modi, infatti, molti stabiesi, trovandosi di fronte a dure e inevitabili difficoltà, riuscivano ad affrontarle con adeguata e benevola disposizione d’animo. Essi avevano capito, infatti, che se le cose non andavano per il verso giusto, il modo migliore per gestire la situazione era quello di trasformare i problemi in opportunità. L’inventiva non mancava e neppure la volontà decisa di darsi da fare; occorreva solo rimboccarsi le maniche e… incominciare ad arrangiarsi. Bisognava, in altri termini, superare ogni difficoltà. E lo fecero molto bene! Avete mai sentito parlare, ad esempio, di “bamboloni”? No? Provo a darvene un’idea: o in prossimità del Circolo Nautico o nelle immediate adiacenze delle giostre di Scognamiglio situate a due passi dalla banchina di “zi Catiello” sistemava il suo banco di lavoro un ambulante di Piazza Grande, Carmine Fileccia, noto a gran parte della cittadinanza stabiese -e non solo- per la sua innata bravura nel realizzare queste delizie. Era una persona di ridotta statura corporea, con un’altezza di gran lunga inferiore alla norma: come si intuisce chiaramente, si trattava di un nano. Meticoloso nell’osservare le norme igieniche a tutto tondo, soprattutto perché i suoi prodotti erano consumati da una clientela per lo più di tenera età, lasciava bollire dell’acqua in un pentolino a dir poco luccicante. Quando lo riteneva opportuno, vi versava la giusta dose di zucchero che, associato ad altri ingredienti, si trasformava di lì a poco in una pasta che egli lavorava finché fosse calda. La girava, la rivoltava, l’allungava, l’arrotolava, la… massaggiava con gesti che sembravano ora percosse, ora carezze. Alla fine la tagliava dando ad ogni pezzo la forma di un cilindretto dalle punte maltagliate. Erano questi i “bomboloni”, dolcetti umili, ma con un passato inverosimile: la cosa sorprendente, infatti, è che la loro interessante storia trova radici nell’antico Egitto. Una storia emblematica, che mostra come elementi del lontano passato fossero entrati a fare parte del nostro ordinario quotidiano. Di frequente, poi, il nostro Carmine Fileccia integrava la produzione di bamboloni con le mele caramellate. Ricordo la sua espressione compiaciuta di se stesso, quando preparava il caramello. Faceva sciogliere lo zucchero nell’acqua, alla quale, quando iniziava a bollire, aggiungeva qualche goccia di colorante rosso per alimenti. Per ultime immergeva le mele infilzate individualmente da uno spiedino di legno, come fosse un lungo picciolo, e le lasciava caramellare per qualche minuto. Appena raffreddate e solidificate, le metteva in bella mostra, perché contribuivano ad appagare la golosità di piccoli e grandi.

mele caramellate

mele caramellate

Spuntavano, contestualmente, come funghi la figura del venditore di caramelle che proponeva la sua merce agli alunni delle poche scuole allora esistenti o di quello che invitava all’acquisto di zeppole, scagliozzi e panzarotti tenuti in caldo in uno speciale recipiente termico o ancora di quello che incitava al divertimento con prove di abilità ad uno stucchevole tiro a segno e via di seguito. Uno di questi rispondeva al nome di Ciro Di Maio, conosciuto come Giritiello. Staccatosi, dopo aver trascorso l’infanzia prima e l’adolescenza subito dopo, dalla famiglia d’origine o, a voler rendere meglio l’idea, dalle grinfie della matrigna, era costretto ad inventarsi giorno per giorno escamotage per riuscire a guadagnare quanto bastasse per sopravvivere. Era di origine contadina, per cui era esperto nel come e quando zappare, piantare e come ottenere i prodotti della terra. Era intenzionato a lavorare nel settore di sua conoscenza, ma… erano tempi di magra e le richieste di prestazioni d’opera si facevano inutilmente attendere. Intanto, una mezzadra di Ponte della Persica che lavorava un fazzoletto di terra di proprietà ecclesiastica e che periodicamente portava la decima dello scarso raccolto ad un vecchio sacerdote che abitava in via Brin, volle prendersi cura di Felicetta Fiorentino, una brava ragazza, nipote del religioso, rimasta orfana di entrambi i genitori. La donna sapeva di Giritiello e della sua situazione familiare ed organizzò un incontro “occasionale” tra i due. La cosa ebbe esito positivo, per cui non restava che concludere l’opera con il matrimonio, che fu officiato dallo stesso zio della sposa, nella chiesetta che gli era stata assegnata, microscopica, senza alcun introito, situata tra il ristorante “Posillipo” e lo spiazzo dove sgorgano le acque Acidula e della Madonna.

Elaborato che riproduce il luogo dove si sposarono Ciro e Felicetta

Elaborato che riproduce il luogo dove si sposarono Ciro e Felicetta

Non riuscendo a lavorare come contadino, Giritiello, che doveva pur provvedere ai bisogni della sua nuova famiglia, prese ad offrirsi anche come manovale, persona tuttofare…, finché un giorno pensò bene di organizzarsi per una rivendita di biscotti di Castellammare -tanto apprezzati allora come ora- sul territorio napoletano. Pertanto, animato da tale sentimento, prese a contattare diversi biscottifici stabiesi, per concordarne il prezzo di acquisto, in quanto quello di vendita era standard ed era imposto dallo stesso fabbricante. Trovò quello che faceva al caso suo e, procuratosi il cesto richiesto per tale esercizio, si imbarcò in quella che aveva tutta l’aria di voler essere solo un’avventura, ma che si rivelò, invece, il solo modo per poter sbarcare il lunario in maniera dignitosa, anche se non priva di svariati sacrifici. A lui spetta il merito di avere stimolato col suo esempio tanti giovani che lo imitarono nella vendita di biscotti stazionando chi all’ingresso delle Terme Stabiane in Piazza Amendola (unico complesso allora esistente), chi sulla strada Panoramica, chi alla stazione della Circumvesuviana di Castellammare Terme, chi a quella Centrale, chi ancora a quella delle Ferrovie dello Stato… Un notissimo proverbio insegna che “la necessità aguzza l’ingegno”, vale a dire che tutte le qualità creative spesso vengono fuori quando c’è una necessità. Ed è proprio così! Che armonia di voci e di colori, oltre a quella dei profumi dei prodotti tipici del tempo! Le prime ore delle mattinate autunnali erano allietate dal richiamo di Fraulanella, che proponeva ai ragazzi dell’epoca l’acquisto delle sue castagne lesse. Spingeva un carrettino di forma quadrata, con un enorme foro centrale, nel quale era posizionato di sbieco un grosso pentolone di rame contenente castagne lesse tenute in caldo da una tenue e continua brace sottostante. Nonostante gli anni che le gravavano addosso e consapevole che non disponeva (come tanti) di alternative, trascorso il tempo delle castagne, si dedicava alla vendita di fave lesse e via di seguito fino a completare il ciclo col commercio in estate di spighe bollite. Tutto ciò, per lottare per la sopravvivenza. Nelle serate del periodo autunnale ed anche per buona parte di quelle invernali, invece, si posizionava di fronte alla chiesa di San Ciro in piazza Grande un’altra vecchietta che arrostiva e vendeva castagne, il cui caldo profumo si diffondeva per ogni dove, fino ad insinuarsi nelle abitazioni circostanti, inebriandone gli occupanti. Il suo nome era Michelina Tramparulo e forse non era così anziana come pensassi io allora che ero poco più che un ragazzotto. Riesco a ricordare, come se l’avessi ora presente davanti a me, la sua figura bassa e grassoccia dal colore della pelle tipico delle donne mediterranee, capelli folti e crespi e tendenti al grigio, sempre avvolta in un enorme scialle nero. Non era per niente loquace; amava controllare continuamente le sue castagne, che portava con orgoglio a cottura uniforme. Si dava il caso, intanto, che Fraulanella non fosse ancora uscita di scena, quando un altro personaggio di rilievo faceva la sua attesa apparizione. Una donna alle prese con un banchetto di legno, nel cui vano protetto da un vetro di copertura si potevano ammirare brioches, pasticciotti e bocchinotti, si spostava da piazza Grande lungo via santa Caterina, passava per piazza dell’orologio, costeggiava via Bonito e si portava per ultimo in via Brin. Fornita di cartelle e panariello del gioco della tombola, si annunciava lungo tale itinerario, effettuando delle brevi soste a richiesta dei suoi clienti, che diventavano giocatori occasionali pronti a tentare la sorte nella speranza di concedersi una dolce colazione.
Nel corso del suo giro abituale, saltuariamente si presentava in zona lo straccivendolo, che acquistava per poche lire maglie, indumenti in genere e materiali metallici; in prossimità del Natale, invece, barattava le stesse cose con dei simpatici pastorelli di creta. In via Brin, sullo stesso pianerottolo di quella che è stata l’abitazione della mia infanzia e, subito dopo, della mia adolescenza, abitava una famiglia composta dal padre, vedovo, e tre figli: Concetta, Pietro e Catello Prato. Quale attività svolgesse il padre, non si è mai capito; Concetta era relegata alle faccende domestiche, Pietro era barbiere e si dedicava alla sua attività, effettuando prestazioni a domicilio o al servizio di chi raramente, purtroppo, avesse bisogno di un collaboratore, mentre Catello, che sapeva leggere, scrivere e far di conto, ed era per questo considerato il “colto” della famiglia, faceva lo scrivano. Sono certo che il termine non vi torna nuovo, in quanto è di dominio pubblico che una volta questa attività veniva svolta proprio come una professione: chi era analfabeta, infatti, si rivolgeva allo scrivano per farsi leggere o scrivere lettere per i parenti lontani. A chi oggi non riesce per niente a farsi un’idea di questa figura che, nella società del suo tempo, svolgeva un’attività considerata in apparenza (ma solo in apparenza) di un certo prestigio e per niente ben remunerata, possiamo consigliare la versione molto eloquente di don Felice Sciosciammocca in Miseria e Nobiltà. Il nostro Catello Prato aveva installato il suo “bancariello” sul sagrato della Cattedrale ed in cambio di poche decine di lire (o di un panino con qualche fetta di mortadella) scriveva o leggeva lettere e curava i rapporti col Comune per conto dei suoi clienti che facevano parte di quella folta schiera di analfabeti, che, una volta, costituivano una buona parte della popolazione. Come è facilmente intuibile, per averne, tra l’altro, fatto poc’anzi cenno, il suo guadagno era abbastanza modesto, ma la vita non offriva altre prospettive. Di fronte alla piazza dell’acqua Acidula, c’era un angusta bottega di solachianiello, all’esterno della quale il titolare, mastro Catello Manzillo (meglio noto col soprannome di Ciccariello) aveva sistemato una poltrona dall’aspetto regale, su cui prendeva posto chi volesse farsi lucidare le scarpe. Purtroppo gli avventori erano sempre troppo pochi, anche perché non tutti avevano scarpe che valeva la pena di pulire e se capitava una giornata di pioggia… meglio lasciar correre! Era un mestiere che rendeva pochissimo, nonostante il tempo impiegato per tirare a specchio un paio di scarpe, ma che si faceva perché bisognava provvedere ai bisogni della famiglia. In via santa Caterina, invece, all’ingresso di un basso facevano bella mostra di sé tanti cartoccetti a forma di cono capovolto bene allineati lungo il bordo di una cesta e pronti ad essere venduti. Contenevano orzo tostato, una graminacea conosciutissima che aveva (e conserva tuttora) caratteristiche e proprietà analoghe al caffè, che è una bevanda nobile, e che rispetto alla quale è inferiore di qualità, ma meno costosa e di più facile approvvigionamento sia durante che dopo la seconda guerra mondiale. Procedendo per via Santa Caterina, poi, e passando per via Dogana Regia, ci si immette in piazza Cristoforo Colombo (meglio conosciuta come piazza dell’orologio) e di qui a breve si arriva al nostro lungomare. Per noi Stabiesi, passeggiare per l’incantevole lungomare della nostra amata Città ed avvertire che l’attenzione veniva un tempo allontanata dalle esaltanti bellezze della natura per posarsi sul passaggio di un treno merci, era cosa del tutto normale.

Il treno in villa comunale (foto Maurizio Cuomo)

Il treno in villa comunale (foto Maurizio Cuomo)

Il fischio della locomotiva ed il trillo del fischietto di due ferrovieri, che, posizionati alla testa del convoglio, instancabili agitavano continuamente due bandierine rosse ed invitavano i passanti a tenersi lontano dai binari, annunciavano il passaggio del treno, quand’anche procedesse molto, ma molto lentamente. La fila di vagoni carichi di gigantesche lamiere di ferro si dirigeva verso i nostri gloriosi Cantieri Navali. A volte, però, tale fischio non era prodotto dal solito locomotore in movimento, tanto più che lo si avvertiva anche di sera. Infatti, girando lo sguardo intorno ci si rendeva conto che non c’era alcun carico in transito. Ve ne ricordate anche voi? …No? Allora cerco di riportare alla vostra mente cosa fosse tale richiamo, anzi, sono certo che basterà appena un cenno, perché tutto vi sia chiaro. Il venditore di fave, ceci, semi di zucca… che abitualmente si posizionava in prossimità di quel tratto di arenile di fronte alla Cassa Armonica, per incrementare le sue vendite, un giorno ebbe un’idea geniale. Sul suo carrettino, infatti, pensò di collocare qualcosa che colpisse l’attenzione dei passanti: il modello di una piccola locomotiva a vapore alimentata a legna e predisposta per tostare noccioline americane. Si trattava ovviamente di un oggetto particolare; aveva un vano per accogliere le noccioline, era dotato di caldaia per l’alimentazione e, come una vera locomotiva, aprendo la giusta valvola, scaricava la pressione accumulata riproducendo il fischio di un treno vero. Con questa insolita trovata si accaparrò una consistente clientela, visto che era anche l’unico venditore di bruscolini a poter offrire ai suoi acquirenti noccioline americane più che ben calde. E la cosa, particolarmente d’inverno, non poteva che fare enormemente piacere. Non mancava in tutto ciò, naturalmente, il tanto atteso messaggio di allegria e di distensione. Quando da lontano, infatti, si era raggiunti da un suono particolare che diventava sempre più consistente, che si diffondeva con soavità per ogni quartiere, regalando note delicate e dolci, si poteva esser certi che questo era il pianino. Trainato da un cavallo o spinto a mano, era il “veicolo” della canzone.

pianino ambulante

pianino ambulante

Richiamati dal suono, vi si affollavano intorno i giovani dell’epoca, impazienti di acquistare il Canzoniere, foglio con i testi delle canzoni. Al pianino, quindi, – oltre alla radio – era affidato l’alto compito di portare la canzone nelle case e nel cuore della nostra gente. Ed erano proprio quelle canzoni che venivano immancabilmente eseguite sia in occasione dei festeggiamenti (che duravano ben tre giorni) in onore di San Catello, nostro vescovo e protettore, sia per la festa del 1° maggio, sia ancora per qualche altra circostanza dalla Cassa Armonica in villa comunale. Altri due eventi musicali di grande importanza e molto attesi dagli Stabiesi erano: la festa della Vergine Assunta al rione Spiaggia e quella dell’Acquafrescaio all’acqua della Madonna. Nel primo caso il palco veniva eretto nell’area attualmente occupata da un distributore di benzina, nel secondo, invece, lungo il tratto compreso tra l’acqua Acidula e l’allora ristorante “Posillipo”. Lascio alla vostra immaginazione ipotizzare quale potesse essere l’accoglienza riservata ai beniamini del momento. Col passar degli anni, con il progressivo sviluppo tecnologico, con l’avvento della Televisione, molte di queste attività artigianali o simili sono del tutto scomparse. Di certo oggi non c’è più l’ambulante che vende ranocchie di fiume, né quello delle telline cotte, né l’acquaiolo che gira per le periferie della Città col carretto carico di damigiane piene di acque delle nostre Terme, né più la giovincella che ieri insieme a sua madre allestiva in via Acton, di fronte all’ingresso dei Cantieri, un panchetto ricoperto di una tovaglia di lino bianco su cui, ben protetti da un tulle bianco, venivano sistemati tanti cozzi di pane, con accanto la fornacella (un grosso bidone di latta con griglia che fungeva da barbecue ante litteram) per preparare quel cibo paradisiaco, saporito e piccante, ma anche incredibilmente dolce e vellutato: il soffritto.

Tali attività sono state fonte di sostentamento per tante famiglie per diversi anni; la loro finalità oggi può essere solo quella di mantenere vivo il ricordo di un modo di vivere assolutamente inimmaginabile. Nell’attuale contesto di vita, infatti, risulta difficile pensare che siano realmente esistite queste figure di ambulanti di cinquanta e più anni fa, figure capaci di trovare le vie, i modi e i mezzi per risolvere problemi, per eliminare le difficoltà che intralciavano quello che sarebbe dovuto essere per loro un normale percorso di vita. Esse ci riportano ad un mondo umile e popolaresco totalmente scomparso, fatto di persone semplici, abituate a ringraziare il Signore per quello che concedeva loro, senza mai lamentarsi del proprio stato, ma disposte sempre a regalare sorrisi e pronte a qualsiasi tipo di rinuncia, pur di aiutare chiunque, non solo chi versasse in condizioni peggiori delle loro. Erano “Gente ‘e n’ atu seculo”, per le quali, prendendo a prestito ed adattando i versi di una famosa canzone napoletana di Ernesto Murolo, potremmo dire:

Chisto è ‘o popolo ‘e na vota:

gente semplice e felice…

chesta gent’era sincera

ma pur’essa se ne va…”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *