‘O Sapunaro
di Corrado Di Martino
Fra i tanti mestieri tipici della cultura dell’intera provincia di Napoli, mestieri di quelli che bisogna sempre inventarsi qualcosa pur di sopravvivere, c’era il mestiere del Saponaro.
Una figura antica, risalente addirittura al ‘400, tempo in cui i Monaci Olivetani (Congre-gazione dell’Ordine di San Benedetto), confezionavano un sapone, che scambiavano come merce, con mobilio e suppellettili per la casa conventuale (presso Piazza del Gesù, di fronte il Santuario di Sant’Anna dei Lombardi). In primis, il sapone era un prodotto di alta qualità, in uso per detergersi capelli e corpo. I napoletani, nonostante tutto erano avvezzi alla pulizia, mentre in altre parti della penisola italica, altri popoli erano avvezzi alla pediculosi. I monaci scambiavano il sapone con rigattieri, falegnami ed artigiani, per cui nacque la figura di colui che andava in giro per procurare la merce da barattare col sapone: vecchi mobili, sedie, abiti dismessi etc… Il rigattiere tipico, proprio per il prodotto che baratteva, fu nominato Sapunaro; abile venditore, imbonitore ed imbroglione che non produceva ciò che mercanteggiava, per il fatto che non possedesse alcuna perizia, veniva apostrofato quasi con disprezzo dagli artigiani, col termine di Sapunariello. Noi pensiamo che fosse invece un tecnico del riciclo ante litteram, perché dopo aver dato una sistemata alle cose raccolte, le rivendeva alla povera gente nei mercatini rionali. In seguito al termine dispregiativo di Saponaro o Sapunariello, venne dato il significante di commerciante senza perizia. Successivamente, sono nati alcuni verbi denominali, come il verbo ‘Nsapunà (insaponare) cioè fare le cose male e con superficialità; c’è un’altra accezione dello stesso verbo, ad esempio, nella nota poesia di Raffaele Petra Marchese di Caccavone, là dove dice: …Guaglio’, tu si’ Taniello? Ije me ‘nzapono a mammeta, e chesto va pe’ chello!