LA CANTATRICE, Belle Fille du Grand Mogol
di Giuseppe Zingone
Qualche settimana addietro il dottor Carlo Felice Vingiani ha pubblicato un interessante lavoro sulla progenie del nostro Catello Filose, più noto come il Gran Mogol, nel continuo confronto con il dottor Vingiani, gli rendo noto di aver trovato un documento che a mio parere è estremamente interessante. Si tratta di una sorta di biografia postuma, perché le carte giungono nelle mani dell’autore a distanza di circa 7-8 anni, ed è lui stesso a rassicurarci più volte anche all’interno del brano in discussione che si tratta di una storia vera.
Così si apre la nota numero 1: Questa (storia n.d.r) è reale, tutta la memoria storica è stata trascritta per noi su un foglio da uno dei nostri amici. Ci è sembrata una storia interessante e curiosa. I nostri lettori saranno grati per avergliela offerta“.1
Chi è la cantatrice? Perché la bella figlia del Gran Mogol?
Alla prima risposta, ci viene in aiuto Stendhal:2Giuseppina Fabre era una contralto francese cresciuta a Milano, nata in realtà (artisticamente, n.d.r.) tra le mura del Royal Palace. Doveva essere la figlia del cuoco di Beaumarchais. Stendhal, sempre con un occhio di riguardo per le signore, la notò ne La Testa di Bronzo3sul palco della Scala la sera del 25 settembre 1816.
L’affascinante Mademoiselle Fabre sfoggiava un mantello celeste e argento, con un pennacchio bianco che volava coraggiosamente sul suo shako4L’intero palcoscenico della Scala è infuocato di ricchezza e magnificenza; la folla di cantanti e attori raramente conta meno di cento. Sono in uno stato di stordimento febbrile. La sua performance è ammaliante in alcuni passaggi di intensa emozione. Fabre cantò anche al San Carlo tra il 1817 e il 1821. Mentre era al Teatro Carolino di Palermo, si distinse come una delle artiste più pagate guadagnando il triplo di quanto Lablache5fece.6
LA CANTATRICE
State tranquilli, lettori; questa non è una favola fantastica perché il titolo potrebbe far paura, è la storia più esatta e vera, raccontata in modo ingenuo e senza pretese. Se avessi dei dubbi sull’autenticità della mia storia, non sarebbe necessario, per chiarirla, fare un viaggio in India, dove la mia eroina non ha mai vissuto; non sarebbe nemmeno necessario andare al litorale di Napoli, nel comune di Castellamare, dove ha il suo domicilio; tutto quello che devi fare è intervistare diverse persone che la conoscevano, e soprattutto il signor Rossini, sempre pronto a testimoniare la verità, quando vuole. Il signor Rossini, è appunto un estimatore dei talenti di questa cantante un po’ famosa, ha voluto produrla sul nostro palcoscenico italiano, dove avresti avuto il piacere di vederla in tutto il suo splendore, se l’ambizione di diventare la nuora del grand-mogul non l’avesse portata via dal teatro.
A quel tempo il suo nome era Joséphine Fabre, (leggi la sua biografia) un nome meno noto che avrei preferito segnalarti, perché mi restituisce piacevoli ricordi, ricordi del tempo che ho passato vicino a lei quando eravamo ancora entrambi bambini. Questa volta è passato nella piccola città di Aramon, situata sulla riva destra del Rodano, a uguale distanza da Villeneuve lez Avignon e Beaucaire. Era il luogo della sua nascita, che aveva lasciato presto, e dove era tornata a stabilirsi con sua madre e sua sorella, mentre suo padre, rovinato da false speculazioni, era andato in cerca di fortuna in un paese straniero. Non poteva quasi non se l’aspettava allora, povera ragazzina, che un giorno sarebbe stata chiamata nei primi teatri d’Italia per interpretare un ruolo brillante di primadonna, fino a quando si era messo in testa di diventare la nuora del grand mogol.
Tali speranze erano proibite dalla sua posizione, tanto più sfortunata di quanto non fosse non aveva i mezzi per dedicarsi allo studio della musica, di cui conosceva appena gli elementi. Nonostante ciò, la sua giovane immaginazione sognava, a volte, non so quale destino di una grande signora, che doveva essere opera della sua bella voce e del suo appassionato gusto per il canto; tanto è vero che una vocazione decisa porta quasi sempre in sé il segreto presagio del suo futuro! E quale vocazione fu mai più decisa della sua? Sembrava che la natura, nel crearla, le avesse detto: Canta; e ciò si sarebbe realizzato. Così ha cantato dalla mattina alla sera. Il canto era in un certo senso il suo linguaggio naturale; si mescolava alle sue occupazioni familiari. Ricordo che cantava mentre lavava le fasce della sua bambola vicino al fiume, e la sua voce sembrava diventare più bella, incantando ogni volta il passante che si fermava affascinato dalla grazia del suo languido cantare.
Che peccato se tali accordi non fossero riusciti solo alla fama di un virtuoso del villaggio! Fortunatamente non è successo e circostanze fortunate hanno favorito la vocazione teatrale di questa giovane e affascinante ragazza. Il padre, del quale non si sentiva da molto tempo, scrisse una lettera da Milano, sul retro della quale si trovavano questi personaggi, che sembravano indice di qualche meraviglia: Servizio del viceré.
Era riuscito a ottenere un lavoro redditizio nella casa del principe Eugenio, dopo una serie di avventure molto singolari, e chiese alla figlia di raggiungerlo. È partita con i desideri di tutto il paese; perché non c’era nessuno che non fosse interessato a lei, nessuno a cui non sarebbe piaciuto respirare la felicità come ai tempi delle fate; come afferma Sévigné.7
Quando è arrivata aveva un posto da studentessa al Conservatorio di Musica; si distinse negli studi e iniziò brillantemente, nel 1814, al Teatro della Scala. Da allora si è mossa per le grandi città d’Italia, dove è stata costantemente accolta dai voti più lusinghieri. Tutto ciò che è adatto alla seduzione è stato raccolto nella sua casa. Le sue dimensioni erano vantaggiose, la bellezza del suo corpo notevole e il suo carattere nobile era abbellito dal riflesso di due occhi luminosi che si erano formati sotto l’influenza di un sole del sud e che sembravano aver trattenuto i raggi più puri. La sua voce è forte e morbida allo stesso tempo, regolata da un metodo sicuro, piegato a tutti i toni con una felice morbidezza, e ha saputo animare la canzone con tutte le sfumature espressive. Univa a queste qualità un’azione drammatica che realizzava, per così dire, l’illusione della scena con la verità dell’imitazione, e che a volte diventava sublime in movimenti appassionati. Infine, per concludere la sua lode, basti dire che si è meritata l’onorificenza con cui i registi degli spettacoli l’hanno onorata regalandole Madame Pasta8per primo sostituto e Madame Pisaroni9per seconda.
Ho appreso tutti questi dettagli dai dilettanti delle varie regioni d’Italia, che ho visitato nel 1825;10poiché non mi è stato dato di testimoniare i suoi successi. Aveva già lasciato il teatro quando ho fatto questo viaggio. Ovunque sono andato, a Milano, a Firenze, Venezia, Roma, ecc., chiesi cosa ne fosse stato di lei. Tutti quelli con cui ho parlato mi hanno riferito di lei con entusiasmo, senza però dirmi dove abitava. Finalmente l’ho scoperto a Napoli. Soggiornavo a Chiaja, in un albergo dove c’era un ex soldato francese come portiere con il quale ero felice di chiacchierare. Gli ho chiesto se conosceva una cantante di nome Mademoiselle Fabre. Sì, certo, mi ha detto, perché sono stato per qualche tempo al servizio di don Paulo Fabre, suo padre, che vive con lei. Sai che ha sposato il gran mogol? Inizialmente pensavo volesse raggirarmi e così ho reagito con una frase scherzosa che la memoria mi ha suggerito: Il gran mogol! non è un uomo arrivato via mare dall’India a Napoli, attraversando due mari?
Ma poi mi sono subito convinto della sua veridicità e, preso l’indirizzo che mi ha dato, ho scritto a Don Paulo per comunicargli il mio vivo desiderio di rinnovare la mia conoscenza con lui e sua figlia. Due giorni dopo, mentre ero sul balcone dell’albergo, divertendomi a guardare il giardino di Villa Reale e il mare, ai margini del quale è posto, ho visto una vettura fermarsi davanti alla mia porta. Un uomo ben vestito a cui ho sentito pronunciare il mio nome. Era Don Paulo, che ho ricevuto con gioia. È venuto a prendermi per portarmi a Castellamare, perché sua figlia, dovendo cantare la sera stessa con il governatore, principe di Conca, voleva che la sentissi. Ho risposto che ero al suo comando e mi sono preparato per la partenza. Durante questo periodo abbiamo iniziato un colloquio e non ho mancato di chiedergli una spiegazione sul Gran Mogol. Ecco la risposta che mi ha dato.
“Un giovane di Castellamare di nome Filoso” salpò per l’India sessant’anni fa. Arrivato alle Marattes,11presso le genti bellicose di questo vasto paese; egli, ha preso servizio nelle loro truppe, si è distinto, ha ottenuto il titolo di jaghir dar,12vale a dire uomo di jaghir. Riuscì finalmente a possedere sotto questo titolo diversi jaghir o feudi, che lo ponevano in una posizione simile a quella di un principe di Germania. Quando gli inglesi fecero la guerra a Tipo-Saeb, divenne il loro ausiliario, si distinse in molti scontri e contribuì alla cattura di Séringapatnam, che portò alla morte di questo monarca e alla caduta del suo impero. L’inglese ha premiato Filoso ampliando i suoi possedimenti. Gli piaceva godere per qualche tempo degli onori che la fortuna aveva accumulato sulla sua testa; ma si finisce per essere disgustati di tutto, anche della sovranità. Rinunciò volontariamente alla sua (fortuna) a favore del figlio maggiore, che ancora oggi la esercita, e tornò a Castellemare con tre bambini piccoli, su un vascello carico di ricchezze. Acquistò una considerevole terra e costruì un magnifico palazzo, dove desiderava trascorrere felicemente il resto della sua vita. Per questo aveva bisogno di un harem, e ne aveva uno composto da due o tre bayadères13con le quali alcune giovani bellezze che non erano molto crudeli dalla città e dai dintorni erano prontamente associate.
Sapete bene che tale condotta non poteva non suscitare i mormorii. Gli invidiosi gridavano che non dovevano soffrire per un avventuriero che viveva così nello stile del grande turco, in un paese cattolico, e la loro lamentela arrivò, fino al palazzo del re. Ma siccome Filoso era un uomo che ha fatto del bene in campagna; poiché aveva inoltre a sua disposizione cashmere e perle orientali per risparmiarsi un alto grado di protezione, l’autorità, lo trattava con rispetto: si limitava a raccomandargli di ridurre un po’ la pubblicità dei suoi piaceri e, a questa condizione, gli permetteva di vivere come gli pareva. Da quel momento nulla più ostacolò le sue dolci abitudini; e seppe farlo in tutta sicurezza, anche in mezzo alle turbolenze politiche che si susseguirono a Napoli. Solo la sua fortuna ha sofferto. Durante questo periodo, nonostante le perdite subite, alla sua morte lasciò considerevoli proprietà per la sua famiglia, un portafoglio ben fornito e 55.000 sterline depositate nella Banca d’Inghilterra.
Così è la storia di Filoso, soprannominato il Gran Mogol. Ecco ora quella di suo figlio Nicolò,14mio genero. Questo giovane, ugualmente distinto per le qualità del suo cuore e quelle della sua mente, è sempre stato un sostenitore delle idee liberali, senza paura di essere perseguitato da un governo oscuro. Le sue opinioni acquisirono una sorta di influenza che esercitò al tempo in cui Ferdinando I fu costretto a dare una costituzione ai napoletani, e durante il regno effimero di quella costituzione. Quando gli austriaci invasero il regno, con il pretesto di ristabilire l’ordine, ciò fu considerato un delitto nella condotta di Nicolò, anche se sarebbe stato conforme ai principi di moderazione e di interesse pubblico. Fu condannato alla reclusione, dalla quale si riscattò con poche migliaia di ducati napoletani. Oltre alla condotta indegna con cui era stato trattato, cessò ogni rapporto con una società piena di spie, e, invece di passare le serate in società, frequentava spettacoli, si innamorava follemente di mia figlia e osava farle una dichiarazione che non era l’equivalente di una proposta di matrimonio; ma lei gli ha risposto, come e una volta fece una principessa francese con un re, che per arrivare alla sua camera da letto doveva passare attraverso la chiesa. Lui ha accettato questa condizione e si è unito a mia figlia chiedendole di rinunciare al teatro. La felicità del loro matrimonio fu turbata per un solo momento da una nuova persecuzione politica. Nicolò fu condannato all’esilio. Mia figlia andò e si gettò ai piedi del re, e ottenne la grazia per suo marito. Da allora hanno vissuto in pace e con rispetto. Hanno un figlio (Eugenio n.d.r.) il cui battesimo è stato seguito da una brillante festa a cui hanno partecipato persone fantastiche. Vedrai questa sera come saremo ricevuti dal governatore.
Questa era la storia di Don Paulo. Lo ascoltavo con il piacere di un bambino che avrebbe ascoltato per la prima volta le meraviglie delle Mille e una notte, e quando smise di parlare, la mia mente, preoccupata per tutto ciò che mi aveva appena detto, suggerì solo domande per farmelo ripetere in dettaglio. Don Paulo le ha interrotte per indurmi a partire. Salimmo in carrozza e in pochi istanti eravamo fuori Napoli. Abbiamo superato Resina, costruita su Ercolano come un monumento moderno su un’antica tomba. Oltrepassammo Torre del Greco, diverse case delle quali sono ancora avvolte dalla lava vomitata dal Vesuvio nella sua eruzione del 1794. Abbiamo lasciato alla nostra sinistra, sotto questa montagna incoronata di fumo, la città riesumata di Pompei, questa antichità ora fuori dalla sua bara, dove ha riposato per più di diciassette secoli. Poi, seguendo le tortuose deviazioni di una fertile vallata, ci siamo trovati presto a poca distanza da Castellamare.
L’impazienza che provavo di arrivarci era stata solo leggermente moderata dai grandi spettacoli davanti ai miei occhi, finalmente era soddisfatta: siamo entrati in casa di Madame Filoso, che ci aspettava con suo marito. Inutile dirvi il modo cordiale con cui mi hanno accolto, le attenzioni delicate, le attenzioni gentili che mi hanno profuso e quel giorno e i seguenti, e tutti i giorni che ho passato con loro. Questi dettagli interessano solo me.
Ma credo che soddisferò la vostra curiosità, raccontandovi qualche parola sul sentimento che animava allora questa giovane donna, un tempo appassionata di successi teatrali, e ora una grande signora. A questi successi, pensava sempre, ne era preoccupata e perseguitata. Ah! come avrebbe voluto riapparire sul palcoscenico, e che fascino trovava ancora negli applausi! Vorrei, mi disse un giorno, piangendo, che mio marito perdesse tutta la sua fortuna, solo per fargliene un’altra grazie al mio talento! La sua gloria e i suoi successi passati gli hanno impedito di godersi il suo destino attuale. La moda di Madame Pasta, il cui nome risuonò poi su tutti i giornali parigini, fu uno stimolo che eccitò la sua autostima. Mi interrogò con avida curiosità, sull’effetto prodotto da Madame Pasta, e mentre le parlavo di questa grande cantante, ho visto i suoi occhi prendere vita e tutta la passione dell’artista era dipinta vividamente nei suoi occhi. Che singolare contrasto! Il suocero aveva rinunciato alla vera sovranità per tornare a una vita calma e pacifica, e la nuora, nella dolce e tranquilla posizione opulenta, avrebbe voluto riconquistare una sovranità teatrale con tutte le sue agitazioni e tutte le sue fatiche!15
Firmato QUITARD16
Lo stesso articolo fu di nuovo ripubblicato, Mercoledì 25 Luglio 1838 sulla testata LA PRESSE, con data 24 Luglio, a Parigi.
Articolo terminato il primo maggio 2021
- Domenica 26 Gennaio 1834. ↩
- Marie Henri Beyle, noto come Stendhal, è stato uno scrittore francese. Nacque a Grenoble il 23 gennaio 1783, morì a Parigi il 23 marzo 1842. ↩
- La testa di bronzo o La capanna solitaria, Melodramma eroicomico, Libretto di Felice ROMANI, Musica di Carlo Evasio SOLIVA, Prima esecuzione: 3 settembre 1816, Milano, Teatro alla Scala. ↩
- Lo shako è un cappello militare, a forma di cono troncato con una visiera; era spesso in capelli e decorato con una piuma, un pompon o una treccia. La parola shako, che faceva parte dell’uniforme degli hussar ungheresi nel XVIII secolo, deriva dal csákó ungherese. Altre ortografie: chako, czako, schako e tschako. ↩
- Luigi Lablache, nacque a Napoli da padre marsigliese e da madre irlandese il 6 dicembre 1794 e morì a il Napoli, 23 gennaio 1858, è stato un basso italiano. ↩
- in Clarissa Lablache Cheer, The Great Lablache Nineteenth Century Operatic Superstar His Life and His Times, Xlibris Corp, 29 luglio 2009, pag. 31. ↩
- Marie de Rabutin Chantal, marchesa de Sévigné, nata a Parigi il 5 febbraio 1626, morta a Grignan il 17 aprile 1696, è stata una scrittrice francese. ↩
- Giuditta Angiola Maria Costanza Pasta, nata Negri a Saronno il 26 ottobre 1797 (o 9 aprile 1798) muore a Blevio, il primo aprile 1865, è stata un contralto e soprano italiano. È considerata, insieme a Maria Malibran, la più celebre cantante lirica del XIX secolo. ↩
- Rosmunda Benedetta Pisaroni, nome d’arte di Benedetta Pisaroni nata a Piacenza il 16 maggio 1793 e morta a Rivergaro il 6 agosto 1872; è stata un contralto italiano, inizialmente attiva come soprano, celebre per le sue interpretazioni rossiniane. ↩
- Lo stesso autore precisa che già nel 1825 Giuseppina Fabre si era ritirata dalle scene della ribalta. ↩
- Maharashtra è uno stato dell’India Centro-occidentale, meglio conosciuto per la capitale dai ritmi frenetici, Mumbai (ex Bombay). ↩
- La parola jagir connotava originariamente una concessione fatta dai governanti Rajput agli uomini dei loro clans per il servizio reso o come ricompensa. ↩
- Bayadere è un termine europeo per devadasi, (serva di dio) una ballerina femminile in India spesso vestita di costume orientale. ↩
- Nicola Filose (Bombay 1797†Napoli 1855) sposò in prime nozze, a Napoli nel 1823, Giuseppa Fabrè (Avignone, Francia 1800 circa †Napoli 1827), da cui ebbe due figli: Eugenio (Castellammare 1824†Napoli 1831) e Federico (1826†Napoli 1831) in: La progenie del Gran Mogol. ↩
- L’Anti Romantique, Rivista teatrale e letteraria, Anno II, numero 39, di Domenica 26 Gennaio 1834, pag. 1-3. ↩
- Quitard dal latino quamquam, vale a dire sebbene. Questa congiunzione era di moda, nel secolo XVII, tra i conferenzieri universitari, che la adoperavano in apertura di discorso: era ritenuta, infatti, un costrutto molto elegante e raffinato al punto di assumere l’accezione di arringa pubblica su argomenti filosofici. Ma vediamo come il vocabolo si è diffuso nel significato odierno di putiferio.
Secondo l’usanza gotica la congiunzione latina quamquam veniva pronunciata kankam. Un celebre umanista però, Ramus, sosteneva, giustamente, che la locuzione andava recitata alla latina ma i sapientoni della Sorbona (università parigina) non ne vollero sapere tanto che dimissionarono un giovane professore che aveva avuto l’impudenza di pronunciare quamquam.
Questi fece ricorso al Parlamento dove l’umanista Ramus assunse la difesa del giovane docente. Davanti alle assise Ramus riuscì a smantellare le argomentazioni dei fautori della pronuncia gotica (kankam) con motivazioni che misero in ridicolo gli accusatori del giovane insegnante. Il Parlamento, allora, emise un verdetto salomonico lasciando a ciascuno la facoltà di pronunciare il termine in tutti e due i modi.
Al verdetto seguì un furibondo litigio con una rissa conclusasi con l’assassinio di Ramus. Da quel momento in poi il vocabolo passò a indicare una violentissima discussione su argomenti di irrilevante importanza e in seguito, per estensione, un… cancan, cioè un gran putiferio.
La seconda interpretazione, per altri insigni autori, va ricercata nel suono onomatopeico con cui i fanciulli francesi chiamano l’anatra (canard) ma va riferita, anche e soprattutto alla danza in cui il passo e il dimenarsi assomigliano all’andatura dell’anatra, appunto. ↩