La contessa della pensione

La contessa della pensione

a cura di Giuseppe Zingone

Proponiamo al lettore questo scritto di Piero Girace, “La contessa della pensione“, apparso sul quotidiano La Stampa, (Nuova Stampa sera) tra il 7 e l’8 marzo 1951.1

Albert Lynch, Ritratto di una contessa

In quella grande pensione di soggiorno non vi erano che degli orologi a muro, che scandivano il silenzio delle stanze vuote, dei grossi cani barboni, neri, rissosi, un cameriere striminzito e diafano come un fantasma, e la <signora contessa> come la chiamava quest’ultimo con tono reverente.
I cani scorrazzavano per i corridoi, abbaiando, e mi disturbavano non poco.
Ogni tanto in fondo al corridoio si apriva una porta ed appariva, in vestaglia rosa con i capelli sciolti, mezzo bianchi e mezzo rossi, con un mazzo di chiavi alla cintura la <signora contessa>, la quale richiamava i cani con voce stridula; e sembrava una dominatrice di belve.
Le bestie si fermavano di botto, coda bassa verso di lei, e la porta si richiudeva.
Dopo un poco udivo gli accordi di pianoforte: suoni nostalgici, melodiosi si diffondevano per le stanze, e sembrava che i vecchi quadri, le fotografie distribuite sulle pareti, si animassero.
Non avevo scambiato con lei che poche parole. Una sera, essendomi attardato fuori più del solito, rincasai tardi, e suonai ripetutamente il campanello.
Invece del cameriere fantasma venne lei ad aprirmi la porta: stava in vestaglia da camera, con i capelli arruffati, torpida di sonno, intrisa di cosmetici notturni: accese e spense la luce in un lampo, e mormorò in fretta, con voce assonnata: – Siete sempre l’ultimo. Non fate rumore – e mi spingeva verso il corridoio quasi per guidarmi, appoggiandomi ogni tanto le mani sulle braccia con un tremito nervoso.
Camminammo nel buio, a tastoni, nel profumo dei cosmetici e nell’aria greve della casa addormentata.
Ogni sera – disse – sento i vostri passi pesanti.
Eravamo giunti quasi in fondo al corridoio. Si udì uggiolare uno dei barboni. La contessa scoppiò a ridere: – Vi stavo conducendo nella mia stanza. La vostra è più in là.
Quella notte tardai ad addormentarmi; per la prima volta feci delle considerazioni sulla vita di quella strana donna.
Nel sonno vidi un grosso signore con la testa di cane barbone che mi ripeteva a varie riprese: –
Siete un indiscreto. Un intruso. La contessa ha avuto un momento di debolezza.

***

Svegliatomi, e ripensando al sogno, non riuscivo a spiegarmi quale momento di debolezza avesse avuto la contessa.
Me lo spiegai invece due ore dopo, quando mi recai da lei per pagarle il conto.
In quel momento il cameriere fantasma usciva dalla stanza tenendo al guinzaglio i cani barboni; ed aveva un’aria segreta.
Intravidi attraverso la porta, tappeti, divani, stuoie, pelli di leoni e di tigri in un’atmosfera
greve di fumo di sigaretta; e pensai all’oriente, alle donne enigmatiche.
La <signora contessa> in una vestaglia di seta nera, gremita di scarabei di oro, un merletto nero, su i capelli, sedeva al piano, e faceva scorrere le dita con indolenza sulla tastiera.
– Entrate pure signor… nottambulo.
Le mani si fermarono. Gli echi delle note si spensero un orologio a muro scandì il silenzio.
Sulla parete di fronte, in una grande cornice dorata, c’era lei vestita di azzurro, seduta su di
un sofà, con un cane di San Bernardo disteso ai suoi piedi.
Guardai sorpreso; ella se ne avvide; E spiegò: – Avevo vent’anni. Dal tono della sua voce c’era tutto un dramma.
La contessa aveva raggiunto forse la cinquantina. Ma quella sera aveva deciso di ringiovanire.
Voleva mostrarsi al forestiero diversa da quella che gli era apparsa fino allora, con le chiavi alla cintura indaffarata e severa.
Un bisogno disperato di evadere la realtà quotidiana la solleticava, con i ricordi che quella sera urgevano, veementi e tentatori.
La casa era deserta, sepolta nel silenzio. Tutte le finestre chiuse.
Non giungevano neppure i rumori della strada.
– Vi piace la musica?
– Alquanto.
La contessa accennò un motivo di Borodine, e poi, preso l’avvio s’ingolfò nel sogno, quasi
dimenticandosi di me che sedevo muto accanto a lei e che ricostruivo la sua vita a modo mio, come se leggessi un romanzo, saltandone ogni tanto alcune pagine.
D’altra parte le fotografie di lei, distribuite sulle pareti, illustravano la sua vita movimentata:
a cavallo in tenuta da amazzone, alle corse, impellicciata; a teatro carica di gioielli tra signori in tuba con baffi e barba. Era giovane e bella la contessa: una donna, insomma, che romanzieri francesi dell’ultimo ottocento avrebbero senz’altro scelto per protagonista delle loro narrazioni, riconoscendole tutti gli attributi della fatalità.
La musica mi aiutava nel mio lavorio di ricostruzione fantastica; ma aiutava maggiormente la contessa, la quale, nell’alone musicale in cui si avvolgeva sempre più, incominciava davvero a diventare giovane; e vi fu un momento in cui non seppi più distinguere tra la contessa che suonava al pianoforte e quella che sedeva sul divano con il San Bernardo disteso ai piedi.
I suoi capelli erano diventati fulvi, foltissimi, ribelli, ed il suo corpo, slanciato, elastico, fremeva sotto la vestaglia di seta, ma cui ora gli scarabei di Oro formicolavano come se si fossero destati da un letargo.
Ella ogni tanto si riavviava con gesto rapido una ciocca; stringendo le labbra; socchiudeva gli occhi, si abbandonava, reclinando la testa all’indietro, e tenendo le braccia distese sulla tastiera.
Viveva da sola in quelle stanze, con quei suoi cani barboni e quel cameriere, che non era né vecchio né giovane, ma segreto e fantomatico.
– L’altra notte ho durato fatica per addormentarmi. Poi ho fatto un sogno così strano…
Scoppiò a ridere. La stessa risata che avevo udito nel corridoio due notti prima.
Poi disse: – A che ora dovete partire?
– Alle undici. – risposi con voce incerta. Divenne pensosa.
– Bene. Un’altra sonatina possiamo farla.
E attaccò Chopin; e, suonando commentava: – E’ una notte chiara di estate. Un grande
silenzio. Stelle. Un soffio di vento. La sua voce era calda, accorata.
Alla fine smise di suonare. Si alzò e camminò per la stanza. La vestaglia le modellava le forme.
Prese da un vassoio e un bicchiere di liquore e me lo porse. Si sedette sul sofà, e lasciò
scoprire una gamba fin sopra il ginocchio, e parlava.
Leggeva una dopo l’altra le fitte pagine del suo romanzo. Ma tutto a un tratto s’interruppe: – Non sarebbe più comodo per voi partire domattina?
Non so perché pensai alla moglie di Putifarre. L’orologio a muro scandì l’ora.
Bussarono all’uscio: entrò il cameriere fantasma con i barboni.
Uno di essi, il più grosso mi si avvicinò, digrignando i denti, e sembrava mi ripetesse: – Siete un indiscreto. Un intruso. La contessa ha avuto un momento di debolezza.
Guardai la donna: era invecchiata; aveva ripreso il mazzo di chiavi e le faceva tintinnare.
– Contessa vi saluto.
– Buon viaggio. E mi accompagnò fin sulla porta.
– Voglio augurarmi che la mia musica non vi abbia annoiato.
E rise. La sua risata mi accompagnò per le scale e mi parve uno scherno.2

La Stampa sera, La contessa della pensione

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Articolo terminato il 23 dicembre 2022


  1. Piero Girace, La contessa della pensione, in: Nuova Stampa Sera, mercoledì 7 – giovedì 8 Marzo 1951, pag. 3, Anno V, numero 56.
  2. Ho ritrovato lo stesso brano pubblicato sulla Stampa, nel libro di: Piero Girace, Donna sola, editrice E.D.A.R.T., 1969, pag. 17-23.

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