Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Caro Maurizio, sollecitata dai cenni storici e descrittivi contenuti ne “Il monaciello” che si trova nel settore “Storie e Tradizioni” del Libero Ricercatore, la mia memoria è andata indietro negli anni, diciamo tra la fine del 1920 e gli inizi del 1930. Questo spiritello dispettoso una volta arricchiva la fantasia (sempre fervida e prolifica) di tanti miei compaesani.
Spiritello perché, secondo me, a volte si dava arie di un fantasma vero e serio.
Dispettoso perché altre volte ti metteva di fronte a situazioni strane e del tutto impensabili. In quegli anni questa entità misteriosa si impadronì anche della poca smaliziata fantasia di mio fratello Andrea che aveva 8/9 anni ed io un anno e mezzo di meno. Allora abitavamo ‘ncoppa a Caperrina, in un vecchio palazzo che si trovava proprio di fronte al Convento delle Stimmatine, in via II° de Turris, ora via Viviani. Era un edificio modesto pur nella sua dignità, con un bel cortile interno di forma quadrata. Ogni piano si raggiungeva salendo tre rampe di scale e percorrendo un breve loggiato che si affacciava sul cortile stesso. L’appartamento che abitava la mia famiglia era l’unico che si trovava all’ultimo piano, nel sottotetto. Per accedervi, dopo l’ultima rampa di scale si svoltava a destra e si veniva inghiottiti in una specie di antro tanto vasto quanto buio, sia di giorno che di notte; malamente e tristemente rischiarato da tremolanti fiammelle di lumini posti devotamente innanzi ad immagini di Santi e Madonne. Invece di dare luce questo baluginio rendeva quel luogo ancora più triste e lugubre. Proprio l’ambiente giusto per l’allocazione di questa fantasiosa entità immateriale (se effettivamente esisteva). Per giungere al nostro alloggio si dovevano attraversare questi stanzoni vuoti, che effettivamente una certa tremarella addosso la mettevano, specialmente a dei ragazzini di 7/8 anni che ci si avventuravano da soli.
Pur essendo meno influenzabile, o più cinico e scettico, di mio fratello anch’io a volte avevo la sensazione che da un momento all’altro dall’angolo più buio o da dietro i pilastri che sorreggevano il tetto, dovesse saltar fuori qualcuno o qualcosa di indefinito. La curiosità tipica del fanciullo che fino a quel momento la vita non l’aveva mai messo di fronte a forti emozioni, sovrastava il timore di dover affrontare un evento misterioso. Qualche volta, combattuto tra la paura e la curiosità, mi sono augurato di vedere o “sentire” questo munaciello che tormentava le notti di mio fratello: ma inutilmente. Questo privilegio (?!) era riservato soltanto a mio fratello, o meglio, io penso, alla sua fantasia. Forse perché fin da piccolo sono stato sempre concreto e razionale, ‘o munaciello pensava che non valeva la pena interessarsi di me. O forse la mia fantasia non era matura abbastanza per percepire questi fenomeni.
Quando mio fratello mi descriveva degli strani episodi che diceva gli erano capitati, e che apparivano verosimili, io gli credevo. Per esempio, il contenuto del portapenne che allora usavano gli scolari per deporre ordinatamente matite, gomme da cancellare, penne ecc., al mattino, lui diceva, lo trovava sparso sul pavimento, sotto il lettino dove dormivamo tutti e due, uno a capo l’altro ai piedi. I calzini a volte non li trovava dove li aveva messi la sera prima, cioè dentro le scarpe, ma sparsi per terra (questo d’estate; perché d’inverno i calzini li tenevamo ai piedi per ripararci dal freddo). Mi riferiva anche che alcune volte, di notte, si sentiva sfilare il cuscino da sotto la testa. Il racconto di questi e di tanti altri fatterelli simili, mi facevano pensare che gli episodi non erano soltanto il frutto della impressionabile fantasia di un bambino sensibile.
Dalla descrizione dei fatti suddetti si ha la conferma di quanto dicevo all’inizio: questo munaciello era dispettoso, ma non cattivo.
Si può immaginare come trascorrevano certe nottate in casa Nocera, fin quando abbiamo abitato ‘ncoppa a Caperrina. Difatti molte volte mio fratello, terrorizzato da quanto credeva di vedere e sentire, balzava giù dal lettino e si rifugiava nella camera da letto dei miei genitori. A volte, accolto con amore e comprensione, veniva messo a dormire in mezzo a loro. Altre volte veniva sgridato dicendogli che erano soltanto capricci, fantasie, con la esortazione finale: “Guarda Gigino (io!) come dorme”. Ma Gigino non dormiva! Svegliato da tanto trambusto accoglievo mio fratello, piangente ed impaurito e cercavo di tranquillizzarlo abbracciandolo e coricandomi accanto a lui; non più uno a capo e l’altro a piedi. Il tutto però non mi lasciava del tutto tranquillo e indifferente. Un po’ impressionato rimanevo anch’io.
Quando queste “nottate in casa Nocera” venivano a conoscenza degli altri inquilini della casa i commenti erano vari e disparati. Chi esprimeva cauta preoccupazione e chi reale scetticismo. A chi manifestava apertamente quest’ultimo atteggiamento mia mamma ribatteva: “ Uè cummarè! Chillo ‘o guaglione he fatta ‘na vermenara!” Oppure con una conclusione più verace ed alcune volte più aderente ai fatti: “Cummarè chillo ‘o criature s’è ccacato sotto d’‘a paura!”. E di fronte a queste inoppugnabili affermazioni la discussione aveva termine.
Un bel giorno mio padre, per porre fine al tutto disse: “Levamme ‘e prete a ‘nanze ‘e cecate!” E decise di cambiare casa. Andammo quindi ad abitare un alloggio che si trovava nel palazzo che si trova sotto l’arco della Pace, al primo piano. All’inizio di Via Santa Caterina (e qui cominciò un’altra avventura: la battaglia contro ‘e scarrafune che di notte sciamavano a centinaia, specialmente in cucina. Ma se sarà il caso ne parlerò un’altra volta).
Pochi giorni dopo il nostro trasloco mi fratello fece a mio padre questa domanda: “Papà ma int’‘a sta casa è muorto quaccheduno?” Con il caratteristico spirito caustico di noi stabiesi mio papà rispose: “Pecchè ‘a gente more mmiezz’‘a via?!”
Da quel momento ebbero termine i rapporti tra mio fratello, anzi, della famiglia Nocera, c”o munaciello.
Gigi Nocera