Castellammare anni ’40. Ricordi del mio quartiere
di Assunta Carrese
Sono nata in quel quartiere di Castellammare ove la gente perbene, per così dire, ma che io definisco piuttosto con la puzza sotto il naso, non osava entrare perché lo riteneva malfamato. Ma quando mai! A conferma vi dirò che un giorno mentre mi recavo in chiesa mi si sfilò dal collo una catenina d’oro. Un abitante del posto, il signor Circiello, se ne accorse e me la riportò raggiungendomi immediatamente. Era un popolino vivace con abitudini strane, ma non pericolose. La maggior parte della loro vita, per necessità, si svolgeva per strada. Dalla via San Bartolomeo e dall’angolo dove ancora oggi sono le suore di clausura si arriva a piazza Pace. Da lì via Viviani, Vico Licerta I e Vico Licerta II, Santa Caterina, Cognulo, Piazza Fontana Grande e così via… In questo mio racconto per dare valore alla natura delle parole sono costretta a scrivere in napoletano. Il dialetto napoletano oltre ad essere difficile da leggere è anche difficile da scrivere. Con un poco di sforzi reciproci però son certa che ci intenderemo. In quel quartiere, la maggior parte delle persone veniva indicata non con il proprio nome, ma con il cosiddetto soprannome: “Lucia ‘a chieppa”, “’o Capa ‘e vacca”, “’a Zellosa”, “’o Rammare”, “’o Vracce muzzo”, “Cecca cu ‘e nnocche”, “Pettelona”, “’a Subrettara”, ecc, ecc… Di alcuni di questi vi dirò anche in cosa consisteva il loro lavoro. Lucia ‘a chieppa, ad esempio, viveva in un basso sotto l’arco delle Pace e il suo commercio variava secondo la stagione.D’estate vendeva ghiaccio grattato corretto con rosolio alla menta. Al tempo delle spighe le vendeva cotte e per dire che erano belle e grosse le chiamava “’e barr ‘e port”. Al tempo delle noci fresche le sue erano uno spettacolo. Innanzitutto erano quelle di Sorrento, grosse e saporite e le esponeva a piramidi sopra un tavolino riuscendo a togliere solo metà guscio. Si vedeva metà dei gherigli che noi chiamavamo cosce di noce. Sempre davanti l’uscio di quel basso, al tempo delle castagne se erano cotte erano le “allesse”, se erano abbrustolite erano “vrorl”. La soffritta poi consisteva in frattaglie di maiale cotte nel sugo di pomodoro forte di peperoncino. Gli acquirenti se lo facevano mettere direttamente in mezzo filone di pane. Pettelona invece arriffava (vendeva a sorteggio). Girava per le strade vendendo i novanta numeri del cartellone della tombola. La merce in palio era a volte salsiccia oppure carne e anche qualche gallina. Al momento dell’estrazione del numero vincente si metteva al centro della piazza Pace chiamando a raccolta i suoi acquirenti e mostrando che nella mano non c’era né trucco e né inganno, gridava: “Chesta è ‘a mano!”; ed estraeva il numero dal panariello. Di pomeriggio vendeva biancheria per le case. Almeno una volta alla settimana arrivava in piazza il “Panzaruttaro”. Friggeva e vendeva, avvolti caldi caldi nei coni di carta, panzarotti e zeppole saporiti di sale e di pepe. Altra attrattiva era “’o pere e ‘o musso” che faceva venire l’acquolina in bocca solo vedendo spargervi sopra sale e limone. Ora vi parlerò di Nanella ‘a subrettara. Dovete sapere che in fondo al Vico Licerta I c’è una piazzetta. In quel periodo tra le altre case vi era anche una casa chiusa dove il più vecchio mestiere del mondo si svolgeva tranquillamente senza dare scandalo. È con l’apertura di quelle case che sono nati i falò e tutto quello che ne consegue. Il compito di Nanella ‘a subrettara oltre a fare da inserviente consisteva nel prelevare alla stazione i nuovi arrivi per quella casa e portarli in carrozza a fare il giro di Castellammare affinché ne venissero a conoscenza i frequentatori. Le ragazze le chiamavano subrette e Nanella era la subrettara. Lo scandalo era tutto qui, ma per chi lo sapeva. Fin qui vi ho parlato del commercio arrangiato, ora vi parlo del commercio autorizzato e di come funzionava. Tra i negozi di Piazza Pace c’era anche la nostra Pasticceria “Carrese”, abbastanza rinomata al punto che un venditore ambulante di frutta al tempo dei cachi per esaltarli gridava: “ Tengo ‘e pasticciotti ‘e Carrese!” Buona parte dei prodotti si vendevano sciolti, persino la pasta e l’olio. Oggi il caffé si compra in barattoli da 250 g. e lo zucchero in pacchi da un chilo. Chi non aveva soldi per soddisfare la voglia di un caffé comprava 25 g. di caffé e 50 g. di zucchero. Per fare un poco in più, spesso al caffé si univa l’orzo. Si vendeva anche a credito, per cui i commercianti avevano un quaderno dove segnavano l’importo dell’acquirente e siccome il più delle volte il vero nome non si conosceva si andava per riferimento. Una volta mia sorella scrisse: “Signora che la figlia non ha figli e si cresce una nipote”, “Signora che abita in testa a Don Giovanni”. Spesso il debito non veniva saldato. L’acquisto dei dolci era un lusso domenicale. Come adesso, anche allora il calcio appassionava grandi e piccoli. Noi vendevamo delle caramelle in una delle quali veniva messa la fotografia (il ritrattiello) del giocatore più in vista a quel tempo. Chi era fortunato e trovava quel ritrattiello vinceva un pallone. Le caramelle si vendevano una alla volta. Vi lascio immaginare il chiasso che facevano i ragazzini. Tra questi c’era anche il compianto Italo Celoro che divenne insegnante e bravo attore teatrale. Naturalmente qui l’inganno c’era perché il ritrattiello veniva fuori quando si erano vendute quasi tutte le caramelle. Una vendita spettacolare era quella dell’8 dicembre, giorno della festa dell’Immacolata. Dopo la cosiddetta Dodicina in cui “fratielli e surelle” alle quattro del mattino invitavano i fedeli alla recita del Santo Rosario, si celebrava alle cinque la Santa Messa. Nel frattempo, nel nostro laboratorio si facevano le sfogliatelle che ancora calde venivano esposte nella grande vetrina prospiciente la piazza. A fine Messa tra i fuochi dei tricchi tracche la gente usciva. Il caldo delle sfogliatelle e il freddo di dicembre appannavano la vetrina mentre il profumo invadeva la piazza rendendo la scena appetitosa e suggestiva. Parecchi entravano in pasticceria e completando la religiosità mangiando la sfogliatella e bevendo un bicchierino di anice. A proposito di religiosità, vi voglio raccontare un episodio che mi raccontava mio padre. La sua madre quando si sposò per alcuni anni non ebbe figli. Preoccupata affidò le sue preghiere alla Madonna della chiesa della Pace. Per essere più convincente le regalò un bracciale d’oro. Guarda caso ebbe la grazia! Nacquero sei figli uno dopo l’altro. A questo punto mia nonna ritenne opportuno ritornare in chiesa, ringraziare la Madonna per troppa grazia ricevuta, ma anche per esortarla a smettere altrimenti si sarebbe ripreso il bracciale. Mia nonna morì cinque giorni dopo la morte del nonno. Non lo seppe mai perché quando il nonno morì lei stava a letto poco bene e non le dissero niente. Si ritrovarono in Paradiso. In tutta la famiglia si ricorda qualche episodio che fa sorridere ed io vi racconterò tre episodi che riguardano un mio fratello che si trovava ad essere per nascita al centro di 10 figli: Vincenzo. Quando fece la prima Comunione non so per quale motivo accompagnato da una mia sorella si recò alla chiesa del Salesiani a Scanzano vestito da balilla. Dopo la cerimonia il prete distribuì dei confetti che mangiarono seduti sugli scalini della chiesa. Il ricevimento finì lì. Un giorno invece, all’età di nove anni circa, cadde dalla scala a pioli. Con gli occhi chiusi sembrava svenuto. Per riprenderlo mia madre disse: “Fate presto, prendete del marsala” e lui con un filo di voce, disse: “Non mi piace ‘a marsala, rateme ‘a vermutt”. Era d’inverno, indossò il cappotto e andò al doposcuola. Il maestro appena lo vide esclamò: “Oh, oh… che bel cappotto ti sei messo!” e lui contento precisò: “Pssò che vi credete questa è robba bbuona. Prima era il cappotto di papà e quando si è un poco consumato mammà lo ha portato dalla sarta che lo ha scucito e rivoltato e poi lo ha rifatto per mio fratello Pinuccio. Quando a mio fratello non ci è andato più perché è cresciuto, allora è passato a me!”. Il maestro non rise, ma sorrise dicendo: “Però si vede che è robba bbuona!”. Allora per necessità esisteva il riciclaggio. Oggi per abitudine esiste l’usa e getta. Non posso non parlarvi di alcuni personaggi. Prima di tutti Gabriele ‘o “canestraro”. Gabriele il “canestraro”aveva un negozio di cesti di vimini, ma aveva anche una enorme ernia inguinale. Aveva l’abitudine di sedere fuori del negozio mostrando chiaramente quando la natura gli aveva elargito. Il solito scugnizzo quando gli passava davanti non dimenticava mai di salutarlo così: “Rabbie’ ‘a paposcia!” e lui rassegnato e tranquillo rispondeva: “’A vuò ‘na fella? ‘A puorte a mammeta!”. Un altro scugnizzo “Terremoto”. Non si sapeva il suo nome, ma per tutti, per il suo carattere, era terremoto e basta. Un giorno si sentì male e stava per svenire o svenne. Quella che lo soccorse gridava: “Currite, è venuta una mossa a terremoto”. Chi la sentì, avendo afferrato che era venuta una scossa di terremoto fece ancora più chiasso per invitare la gente a scappare. Un altro giorno terremoto si chiuse il suo organo genitale nella cerniera di metallo del pantaloncino. Alle sue grida la mamma non lo portò all’ospedale ma dal fabbro. Un ricordo molto triste è quello di un ragazzino di nome Catello che era nato senza le gambe dall’inguine. Vestiva fin sotto le ascelle un sacchetto di iuta ma aveva una grande vitalità. Con le mani per terra gareggiava nella corsa con gli altri bambini della sua età. Quando non lo vidi più seppi che lo avevano portato al Cottolengo di Torino dove morì.
Giudicate voi. Era un quartiere malfamato? Singolare? Si, perché vari pittori venivano ad immortalare quella realtà, fra i quali D’Angelo di cui vi ho allegato la foto. Il negozio sulla sinistra è la pasticceria Carrese.
Io penso che se ci fosse stato Luciano De Crescenzo di quel quartiere ne avrebbe fatto un film. Tutto quello che vi ho detto non esiste più da anni ed io non ci sono più tornata per non subire la delusione della trasformazione. A quel chiasso si è sostituito un silenzio sepolcrale dove riposano per sempre i miei ricordi.
Assunta Carrese
complimenti per il racconto molto vivo e sentito.
Vi chiedo, se avete notizie storiche di mia nonna, una signora chiamata con il soprannome di “Mammell” Carmela Iovino, vendeva giocattoli e caramelle a Piazza Fontana Grande in una bottega dove mio faceva anche il falegname Ciro Di Somma detto O’ Ciglion’.
Gentilissimo Ciro, nel pubblicare la sua richesta devo dirle che non posso rispondere direttamente, ma a mia volta rigiro la sua domanda alla equipe di Libero ricercatore dove magari qualcuno potrà soddisfare le sue curiosità…
Carissimo Ciro, stimolato dall’amico Peppe, provo brevemente a raccontantarti quelle poche cose che sono riuscito a sapere. Tua nonna, la signora Carmela Iovino, era detta Mammela. Il soprannome deriva certamente dal modo infantile di storpiare il nome Carmela. Questa signora dai capelli ricci e brizzolati, durante tutta l’Estate, vendeva “il cazzimbocchio”: – la grattachecca -, una sorta di grattata di ghiaccio, realizzata con una specie di pialla per il ghiaccio, chiamata “checca” in quel di Roma, per cui il nome “grattachecca”. La grattata di ghiaccio, sovente insaporita con degli sciroppi colorati: -‘e sense-; menta, fragola o acqua e caffé, era una sorta di granita da strada, fresca e corroborante bevanda rinfrescante, una porzione costava sulle prime cinque lire, poi la crisi fece aumentare il prezzo a dieci lire. A settembre e fino a novembre, vendeva noci sbucciate, frutti spellati con tanta meticolosa cura, che ancora oggi non capisco come facesse a non rompere il mallo, nel separarlo dalla buccia amarognola. In inverno, invece, vendeva poche cose: giocattolini in plastica, caramelle e lecca-lecca; uno degli acquisti più ricercati dai bambini del rione di Piazza Fontana Grande, era quello delle catenelle in plastica, gare e scommesse, conducevano i più bravi a possedere catenelle in plastica lunghe svariati metri. Negli ultimi tempi, ha venduto anche qualche penna e qualche piccolo quaderno. Questa “attività commerciale para ambulante” era svolta ai piedi del Vico Salvati, sulla destra guardando il vicolo; a sinistra vi era la salumeria della signora Sisina, questo vicoletto in pendenza conduceva, a sinistra all’abitazione di Vittoria e dei suoi figli; e la famiglia d”o Zimbero; in cima al civico tre, verso la parte dove abitavano, dove al primo piano c’era Ninuccella e la sua miriade di figli, il maggiore di nome Annibale; ‘o Cazzo ‘e Michele, padre della prima; al secondo piano, la famiglia Cannavale, Totonno ‘o Spezino e Maria ‘e Saletta; poi la famiglia Iovino (il capofamiglia era fratello, credo di Mammela, entrambi imparentati con Zì Bbacca, la fruttivendola verso Visanola); ‘A Masana; Agrilio Ferrigno, detto Acrilio ‘o Cusutore; poi Liberatina; al secondo e ultimo piano ‘A Ricciulella; e l’ostetrica Izzo, ‘a vammana Izzo. Mammela, portava avanti la sua attività commerciale, su un “bancariello” che le aveva costruito suo marito Ciro Di Somma, artigiano-falegmane, detto ‘o Ciglione, alto e magrissimo e un po’ piegato sulla schiena, un cappello a falde larghe, sigaretta perennemente in bocca e mani colorate di olii e vernici, che usava per pulire o dare di lucido i mobili, che costruiva o riparava, nel retro del basso che era al contempo “negozio stagionale”, falegnameria, abitazione. Uno dei numerosi figli, credo più di quattro, aveva un motto ricorrente: – chi ‘o ssa’, se l’apparamme ‘e mattune..?-
Signora Assunta , Ho letto con piacere ed emozione quanto ha scritto , mi complimento con lei …. Se d’Angelo ha fissato sulla tela la realtà di quel mondo , lei l’ho fatto con le parole ….. La conosco da una vita , essendo la figlia di Mario Conte , grande amico di suo marito …… Grazie per questi ricordi meravigliosi di un mondo che non c’è più …..