Aprile, un anno a Castellammare
di Giuseppe Zingone
Aprile dolce e indaffarato, quando le nuvole sporgono come colombe sul davanzale della finestra che è il golfo di Castellammare.
Distrutta da Silla e sepolta dal Vesuvio, risorta con il Cristianesimo.
Aprile è resurrezione quella dovuta alla primavera, ma resta il mese che va gustato con i sensi, in questi giorni anticipatori della Pasqua di Nostro Signore il naso diventa un’antenna capace di cogliere sfumature, ingredienti, declinazioni di ogni singolo piatto cucinato e riconoscere gli aromi, le individualità, la bravura o la mistificazione della massaia che lo cucina.
Potreste dire senza esitazione come giudici in un’aula di tribunale al momento del verdetto: “‘A cummare è fatto ‘o raù!”, “Teresella ‘a parmigiana”, “‘A Signora rò piano ‘e coppa sta priparanno ‘a pastiera!” ed anche “S’è abbruciato l’agnello che patane…”, o consigliare la vostra amata “Cuncè lieve ‘e vruoccole e ‘e sasicce a coppa ‘o fuoco!”.
Vedete la cultura e la cucina sono essenzialmente una cosa sola, guai a dissociarle, anche “Gesù Cristo” con rispetto parlando non disdegnava mettersi a tavola con amici e peccatori (per gioire con i primi e per riconciliare a Sé i corrotti), a tavola si discute e si dialoga, si litiga persino, ma poi si fa festa è un convivio, “banchetto di sapienza”. Immaginiamo adesso la nostra vita, senza l’orgoglio della nostra terra ossia, la cucina; sarebbe a bene esprimersi una vita senza sale, sciapa, che triste l’uso delle parole “Fast food”; è vero che lo stesso Vangelo afferma: “non si vive di solo pane… ma senza pane neanche si campa! Ed aggiungiamo che se cucinato bene è un pizzico di paradiso”.
In quest’occasione Pasqua per l’appunto, Castellammare è una fucina di odori. Puoi passare, come al ristorante, da un portata all’altra semplicemente salendo o scendendo le scale di un palazzo, dietro ogni porta un odore, dietro ogni odore una ricetta antica. Ho già parlato altrove del rito della preparazione del “Casatiello” che poi veniva lasciato crescere nel tepore della casa, accompagnato per mano come un figlio dal fornaio, il quale avrebbe potuto usare i “casatielli” come pavimento se non come arredo della rivendita, una tappezzeria fatta di fragranti pani dolci e salati, adornati come re da uova (simbolo di vita) ma in questo caso sode.
Che maestria! Che collaborazione! Si trattava di una partecipazione dell’intera comunità ad un rito, un prodotto tipico preparato in casa scendeva in “processione” per le strade e diventava anche solo per la cottura un bene comune, patrimonio e augurio di una vita più prospera. Oggi non è più così, tutti vanno di fretta e preferiamo comprare i ricordi anziché realizzarli, fra qualche decennio vedremo nascere i “Musei degli odori”, dove all’avventore che si aggira per le sale deserte, faranno annusare prodotti chimici da laboratorio, essenze approssimative, snaturate dalla realtà, che richiamano solo vagamente gli aromi dei nostri ricordi.
Pensate solo quante “fetenzie” soggiogheranno la nostra arte culinaria, quante alterazioni; le ricette di un popolo scompariranno e con esse anche il popolo che le ha prodotte; non si riuscirà più a distinguere “nù piatto ‘e spaghette e vongole, da una parmigiana ‘e mulignane…”.
Anche il fumo dei carciofi arrostiti, oggi tediosissimo perché sempre presente, (che tristezza tutte, proprio tutte le Domeniche) era invece un tangibile segno dell’apprestarsi della Pasqua, oggi è “sempe Pasca” e aggiungo anche Natale. Un’amica di famiglia la signora Dolores, stabiese residente da decenni a Viareggio nei pressi del Lago di Puccini, mi raccontava orgogliosissima che quando “arrusteva ‘e carcioffole” nel giardino della sua stupenda casa, accorrevano lì tutti i napoletani (emigrati) che l’atavico effluvio aveva schiaffeggiato nella mente e nei ricordi, ognuno si apprestava pronto ad assaporare la sua parte di essenza azzurrina, a imbrigliarne l’odore nei propri vestiti, per portarlo a casa, per coccolarsi un po’.
Anche il Cristo nella Domenica di Resurrezione, non può mancare ad un giro nell’azzurrina e pesante emanazione dei carciofi nostrani arrostiti, quelli di Schito, i quali ci vogliono raccontare la storia di una tenera e fragile amicizia nata tra la natura e l’uomo. Una passeggiata per le vie annebbiate, lo porta a detergere le ferite della Passione nelle salubri acque delle Antiche Terme, lì dove l’odore sulfureo ricorda le origini, la Creazione, percorre le nostre vie causa la forzata sepoltura di tre giorni. Cristo anticipa il pranzo pasquale semplicemente annusando, ricordo di profumi quando ancora figlio in casa di Maria, si preparava alla festa. Dove se non qui, terra amata e maledetta, sacra e perversa, provvida e rovinosa può poggiare il proprio piede sulla testa della morte, sul buio del sepolcro e spezzarne il pungiglione?
Ladispoli, lì 1 aprile 2011