Don Michele D’Auria, il soldato prete
di Antonio Cimmino – ottobre 2023
Indubbiamente il tenente cappellano don Michele Teresiano D’Auria, era un personaggio fuori dalla norma. L’ho meglio conosciuto leggendo i suoi libri, intervistando persone che lo hanno frequentato, ricordando episodi personali in quanto ero suo parrocchiano quando gli fu assegnato la chiesa del Carmine a Castellammare di Stabia. Da cappellano era più soldato che prete. Al posto del breviario portava le armi. Oltre alla pistola d’ordinanza e al moschetto, aveva infilato nella cintura bombe a mano italiane e tedesche. I suoi uomini lo chiamavano il prete corazzato! Nato a Pompei nel 1915 e ordinato sacerdote nel 1938, fin dal suo primo incarico di parroco, comprese che non gli si addiceva il ruolo di curato di campagna, voleva andare in guerra, non per fare la guerra, ma per accompagnare e dare coraggio ai tanti giovani e meno giovani che partivano per la guerra come diceva. Lo diceva, ma poco ci credeva. Voleva menare le mani! Volontario nel 1942, fu inviato in Russia. Durante il viaggio in treno, assisté per la prima volta alla barbarie dei tedeschi. Nelle soste venne proibito ai civili affamati di avvicinarsi ai treni, specie a quelli italiani dai quali venivano lanciati del cibo. Un bambino polacco riuscì ad avvicinarsi ad un vagone dal quale i soldati italiani lanciavano gallette e subito fu abbattuto da una raffica di mitra di un tedesco. Questo episodio lo colpì e nei suoi libri, pur apprezzando i tedeschi per la disciplina e le armi in dotazione, li definì senza tema di smentita “bestie della guerra”. Il cappellano disprezzava anche i russi, e specie i mongoli. Raccontò che riconquistando un villaggio prima tenuto dagli italiani, scoprì un secchio colmo degli occhi cavati ai poveri soldati italiani caduti in combattimento. Questo episodio lo segnò per tutto il periodo di permanenza in Russia.
Arrivato a Gorodishche, fu assegnato all’ ospedale da campo 201 del Corpo di Spedizione Italiano in Russia della Divisione di fanteria Ravenna. Tuttavia il ruolo di “vaselina”, come chiamava gli addetti alla Sanità, non gli garbava. Dopo insistenti ricorsi finalmente trovò pane per i suoi denti.
Venne inviato ad Arkhangelskoye nella zona del Don presso il XXX Battaglione Guastatori Alpini, reparto di volontari specializzato principalmente nell’attacco e distruzione delle fortificazioni nemiche, che operava con sorpresa, audacia e sincronizzazione. Volontario tra volontari, subito si integrò con i nuovi commilitoni, imponendosi oltre che per la sua stazza, anche per il coraggio e l’intraprendenza. Anche qui si lamentò perché adibito a scavare fossati anticarro, rifugi e a sminamenti, tutta roba da genio zappatori, come soleva dire, mentre il fronte ribolliva. Alle rimostranze, gli fu risposto che si era guastatori ardimentosi ma anche disciplinati e quindi aspettasse momenti più propizi per menare le mani.
Gli eventi precipitarono e presto i guastatori si scontrarono con i russi, con i loro carri armati T34. Combatterono con bombe e bottiglie incendiarie, con coraggio ed ardimento. Naturalmente don Michele era sempre in prima linea con i suoi soldati, sempre più soldato che cappellano.
Arrivò gennaio del 43, il temibile inverno russo era sopraggiunto. Don Michele, per evitare che il freddo facesse inceppare la pistola e la portava sempre nella tasca interna della giubba, al caldo, vicino al petto, sempre pronta a far fuoco. Questa abitudine gli salvò la vita durante la ritirata. Mentre si trovava in una izba seduto ad un tavolone per mangiare della zuppa calda che una scaltra contadina gli aveva offerto, due partigiani spalancarono la porta e spararono. Uno sparò una raffica di parabellum, l’atro due colpi di pistola. Don Michele portò la mano al petto come colpito a morte e cadde dietro al tavolo che si rovesciò. Credendolo ormai morto i russi si avviarono verso l’uscita con la loro complice, ma l’alpino sparò ad entrambi, finendoli poi con un colpo alla tempia e dopo in preda ad un folle raptus abusò della donna che lo aveva ingannato.
La sua prontezza e la resistenza alle fatiche della marcia nella neve alta, fecero sì che salvasse da morte sicura una quarantina di soldati. Il gruppo stanco si era rifugiato in una grossa izba. Alcun partigiani dopo aver eliminato la sentinella, tentarono di sparare verso i soldati che riposavano. Don Michele che non riusciva a prendere sonno, si accorse dell’imboscata, estrasse la sua Beretta M34 e fece fuoco contro gli assalitori mettendoli in fuga, li inseguì fino ad un boschetto vicino.
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Don Michele D’Auria – Seconda Guerra Mondiale
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Durante la ritirata un altro episodio lo vide protagonista. Le slitte cariche di feriti venivano schiacciate sotto i cingoli dei carri armati russi che non sprecava nemmeno i proiettili per uccidere i soldati italiani. Don Michele, presente ad una di queste carneficine, saltò sul carro e sparò all’interno delle feritoie eliminandone l’equipaggio. Dopodiché dal piccolo boccaporto della torretta, tentò di strangolare uno dei sopravvissuti, fortunatamente si avvide in tempo altrimenti in seguito questo si sarebbe sommato d altri scrupoli di cappellano.
Nei suoi ricordi, riportati in due libri, descrisse in maniera rude e realistica, la triste ritirata, nonché il sopravvento del tenente sul cappellano per mantenere un minimo di compattezza in una massa di disperati, laceri, affamati e soggetti agli inevitabili congelamenti. Catturato il 25 gennaio 1943 da una pattuglia russa, con alcuni suoi guastatori, seppur privi di armi, riuscì a sopraffare le guardie facendole prigioniere a loro volta. Il giorno dopo, però a Valuiki dovettero arrendersi di nuovo e definitivamente. Cominciò la lunga detenzione e gli stressanti trasferimenti nei campi di concentramento.
Fortunatamente per lui non partecipò alle marce del “davai”, cioè le marce forzate nella neve, al grido di “avanti, cammina” delle sentinelle che ammazzavano coloro che si fermavano. Fu imbarcato, assieme ad altri, in un treno per essere deportato ad Akbullak nel Kazaghistan. Nel lungo viaggio durato 8 giorni, soffrirono la fame, il freddo e, soprattutto la sete, nonostante il treno viaggiasse in mezzo alla neve. I morti venivano buttati fuori da un finestrino posto in alto sul carro bestiame, senza avvisare i carcerieri che chiedevano “scoljki caput, sivodnia?” (Quanti morti oggi?) per poter utilizzare le misere razioni alimentari assegnate, in ogni sosta, in base al numero degli occupanti il vagone bestiame.
Leccavano piastre metalliche e bulloni del vagone per dissetarsi. Nel campo di Akbullah stazionò diversi mesi, sopravvivendo ad una broncopolmonite. Qui, per un tozzo di pane in più ed uscire dal campo, si prestò a fare il becchino. Dovevano seppellire, scavando fosse comuni nella terra indurita dal gelo, le decine di soldati morti quotidianamente per tifo, malattie, congelamenti, denutrizione. Di molti riuscì a raccogliere le piastrine di riconoscimento
Dopo molti mesi venne il trasferimento a Susdal campo 160 destinato agli ufficiali. Susdal era un monastero fortificato a poche centinaia di chilometri da Mosca. Finalmente lasciava l’Asia per avvicinarsi all’Europa. Qui le condizioni di vita migliorarono, incontrò altri cappellani, alcuni tedeschi, ungheresi e rumeni con i quali dialogava in latino. A quel tempo tutti i preti cattolici conoscevano il latino. Anche qui dovette combattere altre battaglie, questa volta psicologiche. Nel campo si organizzavano riunioni per indottrinare i prigionieri sul comunismo, veniva distribuito il giornale Alba, in italiano, edito a Mosca e diretto da Palmiro Togliatti. Spesso, assieme ad altri fuoriusciti italiani scappati in Russia al tempo del fascismo, si presentava anche Robotti, il cognato di Togliatti, per convincere gli ufficiali a sposare la causa comunista unitamente a Edoardo D’Onofrio (poi deputato e senatore) rifugiatosi in URSS dal lontano 1923. Don Michele naturalmente resistette alle lusinghe e così fecero la maggioranza degli ufficiali. I pochi che accettarono lo fecero per convenienza, per ottenere un veloce rimpatrio e vitto migliore, solo una piccola parte accettò per convinzione. Il cappellano fece richiesta, assieme ad altri preti, di essere trasferito in altri campi di concentramento disseminati nella steppa per portare assistenza religiosa. Ebbe un rifiuto.
A Susdal gli affibbiarono il nomignolo di ganascia, già appartenente ad altro cappellano, perché era ghiotto di pane, in ricordo della fame sofferta precedentemente ed anche perché era moneta di scambio con i rumeni addetti alla cucina. Solo in questo campo, migliorando le condizioni di vita, ricominciò un poco a fare il cappellano, organizzando incontri con i prigionieri anche con spettacoli, oltre ai lavori di boscaiolo, stradino e contadino. Racconta che c’era anche il nipote di Enrico Toti, il bersagliere della prima guerra mondiale decorato con Medaglia d’oro, che possedeva una bella voce da tenore, oltre ad altri musicanti e cantanti di fortuna.
Finalmente si parlò di rimpatrio. Prima di tornare in Italia fece un lungo peregrinare tra Odessa, la Romania, l’Ungheria e l’Austria. In Italia arrivò nel luglio del 1946, unico cappellano meridionale reduce dalla prigionia in Russia.
Tornato in patria nel 1946 gli fu di nuovo assegnata una parrocchia a Pompei. Egli non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie per il passato regime, nonostante le peripezie sofferte nell’A.R.M.I.R. attirandosi l’inimicizia di molti. Il clima politico del dopoguerra era particolarmente arroventato dalle ideologie. Venuto a sapere che qualcuno aveva minacciato di ucciderlo, una domenica dal pulpito durante la messa, dopo aver frettolosamente commentato il vangelo del giorno, disse che in canonica aveva 4 fucili mitragliatori e 40 granate. Che lo venissero ad uccidere!
Nel 1954 fu destinato alla parrocchia del Carmine di Castellammare ed in questa città rimase fino alla sua morte (avvenuta nel 2003), anche come docente e canonico della cattedrale.
Come suo parrocchiano nel 1973 gli chiesi il N.O. per contrarre matrimonio dai salesiani e dovetti penare molto per ottenerlo, solo quando gli spiegai che il suo desiderio era dovuto al fatto di essere ex allievo dell’Istituto San Michele di Scanzano, a malincuore acconsentì. Durante la benedizione pasquale delle case, non volle benedire una casa di piazza Ferrovia perché vi abitava una coppia non sposata.
Ma torniamo al prete soldato.
Sempre nel 1954, a Napoli piazza del Plebiscito, fu decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione:
“Tenente Cappellano, chiedeva ed otteneva l’assegnazione ad un reparto di Guastatori. Volontariamente seguiva i reparti, impegnati nelle azioni più rischiose, oltre le linee nemiche. In fase di ripiegamento si prodigava instancabilmente, incurante dei pericoli e dei disagi, assolvendo il suo compito con sprezzo della vita ed elevato spirito di sacrificio. Catturato dal nemico, sopportava virilmente le sofferenze e i disagi della dura prigionia, continuando ad assolvere con instancabile generosità la sacra missione affidatagli”.
Nonostante fosse stato redarguito dai suoi superiori ecclesiastici perché in Russia, aveva “trasgredito” i suoi doveri di Cappellano operando più da soldato che da prete, egli amava ricordare che, per i suoi superiori militari, non aveva trasgredito ma “superato” i suoi doveri di Cappellano. E ne era profondamente convinto ed orgoglioso!
Ormai diventato alpino in congedo, partecipava a tutti i raduni degli alpini e di guastatori alpini, nonché a varie ascensioni ed escursioni in Val d’Aosta e Courmayer con il Circolo alpinistico milanese cui si era iscritto. Nel 1963 a Napoli al Maschio angioino, celebrò il 20° anniversario di Nikolaewka, battaglia ove gli alpini, seppur decimati, si coprirono di gloria contrastando un nemico sei volte superiore in numero ed in armamento. Collaboratore della rivista Bonus Miles Christi, fu definito definì “scrittore e narratore efficace”.
A Castellammare di Stabia, rivestì il ruolo di parroco, canonico e docente. Anche qui per il suo carattere, si scontrò con persone contrarie alle sue simpatie ideologiche. Il 17 giugno del 79, Associazione Marinai unitamente e Consiglio di fabbrica dell’Italcantieri, posarono una lapide in memoria del Capitano di Corvetta Domenico Baffigo trucidato dai nazifascisti per aver difeso l’undici settembre del ’43 il cantiere e le navi in rada. Madrina della cerimonia la signora Paola Baffigo figlia dell’eroico marinaio. Don Michele si presentò allo scoprimento della lapide, i sindacalisti conoscendo le sue idee politiche (ogni anno il parroco suscitatore di sentimenti contrastanti, celebrava una messa per Mussolini) minacciarono di abbandonare la cerimonia. Fu molto complicato far rientrare la protesta, ma alla fine si riuscì a placare gli animi. Motivo principale fu quello per il quale non si poteva deludere la figlia dell’eroe Baffigo giunta apposta dalla Liguria, né disilludere le autorità civili e militari intervenute. Don Michele era davvero una figura spigolosa e controversa, tuttavia sotto la corteccia dura si nascondeva un animo sensibile, quando qualcuno andava a visitarlo a casa, lo accoglieva sempre con cappello di alpino, offriva liquore fatto con le erbe di monte Faito e dava la stura ai ricordi di Russia commuovendosi.
Si ricorda ancora il suo impegno durante il sisma dell’80, quando a mani nude scavò sulle macerie mentre ancora duravano le scosse per estrarre morti e vivi, nonostante il pericolo di ulteriori crolli.
Ha scritto un libro di poesie, anche in vernacolo, sul Faito, vi amava passeggiare, con le mani dietro la schiena o appoggiandosi ad un bastone, per i sentieri che conosceva tutti.
Aiutò come muratore a ricostruire la chiesetta di San Michele al Faito. Scrisse un libro di poesie su San Catello il patrono di Castellammare di cui era molto devoto. Nel 1986 fu nominato Cappellano Nazionale dalla F.N.A.I. (Federazione Nazionale Arditi d’Italia).
Il 31 luglio 1988 fu invitato dagli alpini a benedire la cd Campana dell’Amicizia e della Concordia realizzata dall’alpino abruzzese MOVM Sergio Paolo Sciullo. Il piccolo monumento fu collocato sul Monte Piana sulle Dolomiti al confine delle province di Bolzano e Belluno. Nel ricordo della inutile strage del primo conflitto mondiale, posta in una zona multietnica e plurilinguistica, per il suo alto riferimento ideale, rappresenta un invito alla pace tra i popoli
Nel 2002 un anno prima della sua morte, scrisse una dura lettera al Generale Incisa di Camerana, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, protestando perché in un poderoso volume edito dall’Ufficio storico dell’esercito, non era stata menzionata la concessione della Medaglia d’Argento al V.M. al XXX Guastatori che “fu, ed è ancora, parte della mia carne e del mio sangue, del mio animo, cioè, del mio essere”
In ricordo della campagna di Russia scrisse, dal 1967 al 1988, tre volumi, descrivendo in maniera cruda e realistica l’odissea dell’ARMIR: La mia Russia, L’Armata della neve e Bivaccando e combattendo …ripensando.
La sua figura è rimasta particolarmente legata alla storia degli alpini, tanto è vero che nel mese di ottobre 2022 in occasione del 150esimo anniversario della costituzione del Corpo, avvenuto proprio a Napoli, è stato istituto il primo premio nazionale di letteratura Michele D’Auria. Io, come ex marinaio ma rappresentante della Federazione napoletana dell’Istituto del Nastro Azzurro fra combattenti decorati al valor militare, ebbi il piacere di commemorarlo nel salone della Confindustria a Piazza dei Martiri, davanti una platea di alpini provenienti da ogni parte d’Italia. Questa, in sintesi, la storia di don Michele D’Auria, nato campagnolo di pianura e consacrato alpino nelle gelide e desolate steppe della Russia. Personaggio scomodo, scontroso e divisivo ma indubbiamente coraggioso e, a tratti, generoso.
Antonio Cimmino