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Informazioni su Gigi Nocera

Autore Nato a Castellammare il 18 febbraio 1923, è stato ideatore ed autore della rubrica gli anni '30 a Castellammare, Alla sua morte avvenuta a Torino il 17 marzo 2012, ha lasciato in tutti noi un vuoto incolmabile.

La dis…avventura di un malato vecchio

La dis…avventura
di un malato vecchio

gigi nocera

gigi nocera

Cari amici, qualche settimana fa stavo concludendo brillantemente il mio 88° round con la vita. Improvvisamente sono stato colpito da una sventola che mi ha mandato rovinosamente al tappeto (la stessa fine del nostro pugile Primo Carnera, una montagna di carne e muscoli alto più di due metri, che nei primi anni “30”si batté per il titolo mondiale dei pesi massimi contro il piccolo ebreo americano Max Baery. Naturalmente fu messo KO ai primi pugni. Cosa che riempì di ridicolo il regime fascista. Difatti Mussolini, prima dell’incontro fece pervenire al nostro pugile il seguente telegramma: “Vinci per noi! Per il fascismo!”).

Ma torniamo a me. Visto che la botta era stata durissima, dopo qualche giorno fui portato all’Ospedale, al reparto geriatrico, modernissimo ed efficiente. La descrizione del trasloco in camera dopo 5 ore dall’arrivo è allucinante. Sdraiato su una barella in un corridoio intasato dove ero spintonato da altre carrozzine, barelle e carrelli vari. Quanti eravamo? “’Na folla!” Tanti poveretti fiaccati dal dolore chiedevano il conforto di un infermiere, di un parente, di una voce amica. Mentre assistevo a queste sofferenze e udivo questi lamenti mi vennero in mente quei bei versi di Salvatore Di Giacomo in “Lassammo fà DIO”. Dove si narra che S. Pietro portò il Padreterno a visitare i più bei posti di Napoli: la Chiesa di San Michele, il Museo, il caffé di Diodato, ed altro ancora. A un bel punto Dio interpellò S. Pietro e gli chiese:

“Dunque dicevi?- E c’aggia dì?…Guardate!
Tenite mente attuorno…Che bedite? –
Dio guardaie spaventato. Mmiez”a strata,
stuorte, struppiate, cecate,
giuvene e bicchiarelle,
guagliune senza scarpe,
vicchiarelle appuiate a ‘e bastuncielle,
scartellate, malate
e cert’uocchie arrussute
chine lacrime-
e mane secche, aperte stennute…
-‘A carità!… -Sta voce
‘e voce a centenara
sentette, ‘a tutte parte,
disperate, strellà:
e quase lle parette
dint’a n’eco e a luntano,
sentì ‘o stesso lamiento:’A carità!…

Questo mi venne in mente mentre ero assediato da poveri vecchi che si dolevano sommessamente, chi piangeva dolorante e, momentaneamente, senza assistenza. Ecco, mi dissi, queste sono le sofferenze che fuori di qui non si immaginano neanche. “Guai ai vinti!”
Ma proseguiamo. Nel pomeriggio venni sistemato in una bella camera a un solo letto. Il letto!
Tecnologico che più di così non si può: azionato da decine di pulsanti assume innumerevoli posizioni, meno una: quella che vorresti tu per stare più comodo. Il bottone che ti rialza la schiena, ti alza anche le gambe e alla fine ti trovi piegato in due come la lettera V. Il pulsante che ti alza le gambe fino al ginocchio ti manda sotto il sedere e il tuo corpo assume la figura di una N. Notte d’inferno! E non solo per questo.
Nella stanza accanto alla mia venne occupata da una povera vecchia contadina. Dopo le venti, fatti uscire tutti i parenti questa povera donna incominciò ad invocare tutta la notte il suo “Beneitu! Beneitu!” ma quest’ultimo non poteva sentire: sono certo però che soffriva solitario
un altro tipo di dolore in una cascina della campagna piemontese, senza la sua vecchierella.
Al mattino successivo sfatto, assonnato, debole come una canna sbatacchiata dal vento, venni affidato alle cure di due assistenti che con acconci massaggi in tutto il corpo cercavano di mettermi in carreggiata. Fui maneggiato, palpeggiato in tutte le pose e in tutte le parti del corpo; e nel frattempo pensai “Peccato non essere vecchi a 50 anni!”
Adesso cari amici vi saluto; il seguito un altro giorno.

P.S.: Cari amici del Libero Ricercatore, grazie! Se ho potuto scrivere queste considerazioni lo devo anche al vostro affetto, al vostro conforto, alle vostre preghiere che mi hanno protetto in questo difficile momento della mia via. I contatti col caro Enzo Cesarano (piccolo di fisico, ma grande d’animo) erano quasi giornalieri e mi trasmettevano sempre la vostra solidarietà.

Grazie ancora cari amici!

Gigi Nocera

La radio… ed altro

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Quanto sto per dire ai giovani amici potrà sembrare incredibile, eppure è la pura verità. Le trasmissioni radio, in tutto il mondo, ebbero inizio all’incirca dopo il 1920 in modo molto precario. Dopo qualche anno in Italia chi ne intuì l’enorme importanza propagandistica fu il regime fascista. Infatti stava preparando le sue prime manifestazioni di facciata (vedi le prime trasvolate atlantiche nelle due Americhe dell’aviazione italiana) e le più concrete imprese belliche in Africa Orientale.

La radio

La radio

Comparvero i primi apparecchi radio il cui costo non era alla portata di tutte le famiglie. Se lo potevano permettere soltanto quelle che disponevano di discrete risorse economiche, quindi non gli operai del Cantiere ne gli artigiani. Mio nonno che non apparteneva a queste categorie ne comprò uno.
In quel periodo la mia famiglia abitava in via S. Caterina nello stesso stabile del nonno, ed io, sempre curioso, appena potevo mi recavo da lui “a sentire la radio”. La stessa era sempre accesa, da mattina a sera, ma nessuno l’ascoltava perché trasmetteva soltanto musica da camera e in quella famiglia non c’erano orecchie educate a sentire tale tipo di “melodie”. In sostanza questa musica era il sottofondo musicale dei lavori domestici svolto da mia nonna Catella. L’unico che vi prestava una qualche attenzione ero io. I notiziari veri e propri ebbero inizio con le prime avvisaglie relative alla guerra in Africa che si stava preparando.
Poiché i giornali li leggevano in pochi e, come detto, i possessori degli apparecchi radio non erano tanti, per far conoscere alla gran massa dei cittadini l’andamento delle imprese africane fu ideato un mezzo ingegnoso ed efficace. Ecco di cosa si trattava.
Nella nostra bella Villa comunale, all’altezza della banchina ‘e zì Catiello, fu installato in alto, fra le fronde degli alberi, un enorme pannello di legno proprio nel viale di mezzo (‘o viale ‘e miezo). Su questo cartellone era riprodotta in grande scala una carta geografica dell’Africa Orientale (Eritrea, Somalia e Abissinia) dove tutti i giorni venivano indicate con bandierine tricolori le località conquistate dai nostri soldati. E man mano che queste bandierine avanzavano in territorio nemico, l’entusiasmo della gente era quasi da paragonare al tifo che si fa adesso per le squadre di calcio. Essendo in primavera poi erano tanti i cittadini che recatisi in villa per un po’ di fresco si accalcavano sotto questo tabellone.
Per quanto riguarda le altre notizie di carattere generale che riguardavano i cittadini e la vita della città esse venivano portate a conoscenza della popolazione attraverso i manifesti affissi sui muri della città. Normalmente però la gente era interessata maggiormente ai fatti che avvenivano nella via dove abitava, nel rione. Dei vicini di casa, di ciò che avveniva nel rione tutti sapevano tutto.
Le famiglie si confidavano le pene e le gioie. Si pettegolava anche, si facevano delle maldicenze, ma, viva Dio! Quando c’era da darsi una mano questa non mancava mai. A tale proposito voglio raccontare un fatto cui inizialmente fui un testimone diretto.
All’età di 11 anni, nel 1934, mi ammalai gravemente di tifo. Avevo la febbre altissima, a volte deliravo. Le vicine di casa e del rione erano sempre a casa mia a confortare mia madre per portare sollievo alla sua angoscia. Alcune preparavano a volte anche un piatto di spaghetti, di pasta e fagioli, sempre per “dare una mano”. Mentre mi vegliavano queste donne naturalmente parlavano del più e del meno e un giorno, pensando che io stessi dormendo, si confidarono che una certa signora abitante in un vicino palazzo aveva l’amante. Non volendo quindi appresi una notizia abbastanza delicata. Ebbene a questa signora fedifraga non mancò il conforto la solidarietà e l’aiuto delle stesse “commarelle”, quando qualche tempo dopo il marito morì a causa di un terribile incidente sul lavoro lasciandola sola e con 4/5 figli da mantenere. La solidarietà tra poveri non era soltanto un modo di dire.
Oggi con radio, televisioni, internet e tante altre fonti di informazioni siamo sommersi da notizie di tutti i generi. Crediamo di sapere molte cose del mondo, ma non sappiamo come sta di salute il nostro vicino. Sul pianerottolo di casa ci sentiamo già in territorio nemico. E’ vero, cerchiamo di lavarci la coscienza con l’adozione di un bambino a distanza. Ma forse lo facciamo proprio perché è distante. Non ci accorgiamo invece (anzi qualche volta ci infastidisce) di quell’altro bimbo che per la strada ci tende la mano per una monetina.
Della notizie che i suddetti mezzi ci portano in casa da tutto il mondo poche ne restano nel nostro cuore e nella nostra mente: dobbiamo fare spazio alle altre che ci risommergeranno domani. Crediamo di sapere tutto, ma non sappiamo nulla perché niente tratteniamo.
Secondo me le nozioni che ci restano dentro e ci fanno crescere moralmente ed intellettualmente sono quelle che apprendiamo leggendo un bel libro. Ecco perché esorto i miei cari e giovani amici a leggere, a non stancarsi mai di leggere dei buoni libri: il loro contenuto è il nutrimento dell’animo.
Ora però mi accorgo che da un ricordo dei tempi lontani sono scivolato in considerazioni sociologiche d’accatto. Ai lettori di questo bel sito chiedo di scusarmi se ci riescono. Grazie.

Gigi Nocera

Gigi Nocera

10 marzo 2010: “Caro Maurizio, questi versi (naturalmente non degni di dirsi poesia) mi sono venuti di getto nei giorni scorsi ripensando che sono quasi due anni che ci siamo visti. Pubblicali se li ritieni degni. Un abbraccio, Gigi Nocera”.

Lettera d’ammore alla mia Castellammare

T’aggio ‘ncuntrata doppo tantu tiempo!
Quant’anni so’ passate, a quanno te lassaie?
‘Na vita! ‘N’esistenza!

Si’ bella comm’allora; sempe c’‘o pizzo ‘a riso
‘o tiempo nun te tocca, te lascia sempe ‘a stessa:
pecché tiene pacienza!

Pe’ tutto chistu tiempo, chilli ca t’hanno avuto
hanno penzato a lloro, senza curarse ‘e te,
t’hanno sulo tenuto.

T’hanno spurcato ‘o nomme e chesta bella faccia,
facennule accussì, senza ‘nu pentimento,
e po’, se ne so’ ghiute.

Chi pe’ necessità, chi p’‘o destino suoio.
S’è alluntanato a te, senza putè turnà,
pe’ sempe te vo’ bene.

Te tene int’‘e penziere e sempe dinto core.
Te canta in versi, musica e canzone
e patenne se ne more.

*  *  *

“Caro Maurizio, pochi minuti fa ti ho inviato alcuni miei pensieri in versi, ti prego di accompagnarli con queste brevi note. Ciò allo scopo di spiegare il perché di questo enorme, sviscerato amore per una persona, per un luogo. Appena adolescente (15 anni!), per gli imponderabili casi della vita, le mie radici stabiesi furono sradicate: fui costretto a trasferirmi, con la mia famiglia, in una città del nord, lontana, fredda climaticamente, estranea (ma non ostile però). Nel pieno della mia maturazione fisica e psicologica dovetti lasciare i parenti, gli amici di strada, i luoghi dei miei giochi, il mare delle mie nuotate, le abitudini di vita. Costretto quindi a vivere fra volti ignoti, e alle prese con un parlare che alle mie orecchie suonava “strevezo”, incomprensibile. Si aggiunga ancora che, dopo appena un anno, i disagi, anche economici, della mia famiglia aumentarono a causa della guerra che nel frattempo era scoppiata. E si sa che la guerra isola la gente, la fa diventare sempre più egoista, che lotta sperando di sopravvivere agli altri. Queste difficoltà fecero della mia famiglia una vera “tribù”, chiusa, uno per tutti e tutti per uno. In tali condizioni i contatti col mondo esterno erano prevalentemente limitati a quelli dell’ambiente di lavoro e con i bottegai del borgo. I compaesani presenti a Torino in quel periodo si potevano contare sulle dita di una mano. E quei pochissimi appartenevano ad una classe sociale superiore alla nostra. E quindi…
La famiglia oltre ad essere strettamente unita dai vincoli di sangue, divenne monolitica anche a causa delle suddette condizioni. Ai nostri genitori ci legava un immenso, sviscerato amore. Benché giovanissimi, noi figli (io e due sorelle più piccole) comprendevano benissimo quanti sacrifici, quante rinunce, quanta fatica facessero i nostri genitori per far fronte alle difficoltà descritte e far in modo che non pesassero su di noi più del necessario.
Il loro amore, le loro premure, le loro tenerezze non sono mai venute meno. Ecco perché gli siamo sempre grati e li ricordiamo sempre, anche se sono passati moltissimi anni dalla loro scomparsa.
Dopo queste precisazioni penso si comprenderanno meglio i sentimenti che hanno generato questi semplici versi.
Grazie Maurizio, ti abbraccio e insieme a te abbraccio tutti gli stabiesi. Gigi”.

MEMORIE

Quanti ‘ccose hanno visto st’uocchi miei!

‘A primma cosa è stato nu sorriso,
Comme ‘e chillo da Vergine Maria
Quanno dint’a na grotta nascette o bammeniello.

Appriesso, doppo poco, è stato nu rilorgio,
‘ncopp’a na torre ‘nfaccia a casa mia,
mmiez’a ‘na piazza detta “do mercato”.

Nu poco cchiù luntano , ‘o mare nuosto,
‘o cielo azzurro e ‘na muntagna nera
cu nu pennacchio ‘e fummo ‘ncoppa’a capa

Quanti cose hanno ‘ntiso questi recchie!

‘A primma cosa ‘a voce ‘e mamma mia
Ca doce doce cantava ‘a ninna nanna.
Po’ ‘a voce allera da gente e stu paese.

E ‘ncoppa a Caperrina e do Chignulo;
e Santa Caterina e do Quartuccio;
e mmiezo a Pace e da funtana ranna.

E sento ancora ‘a voce e mamma mia:
“nun correre Giggi ca può sciulià;
c ‘arteteca ca tiene te fai male!”

Quanti parole ha ditto chesta vocca!

“Mammà!” è stata a primma, certamente.
L’urdema vota , doppo tantu tiempo,
cu e lacrim’inta l’uocchie,
è stata sempe a stessa “Mammà??!!”

*  *  *

“Caro Maurizio, quando un uomo giunge ad una certa età (diciamo più vicino ai 90 che ai 30!) ed ha vissuto una vita serena, onesta e laboriosa, pur fra travagli, dolori e disillusioni; e fatto un impietoso e inflessibile esame di coscienza, non lo spaventa l’incognita del futuro, ma lo strugge la nostalgia del passato, anche se molto lontano nel tempo. Ognuno di noi affonda le proprie radici nella terra dove è nato, ed io a questa terra sono legato, anche se da moltissimi anni ci vivo lontano. E forse proprio per questo Castellammare è cara al mio cuore. Gigi”.

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A banchina ‘e zì Catiello

Quann’ero piccerillo, guagliunciello
jevo ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello,
saglievo ‘e scuoglie e me menavo ‘a mmare.

E pe’ fa chesto ‘a scola nun ce jevo,
facevo ‘a fuiarella, e già sapevo
ca ‘a casa m’aspettavano mazzate.

Mammema m’alliccava ‘o vracciulillo
e si sapeva ‘e sale era ‘nu strillo:
“Si stato ‘a mmare e ‘a scola nun è juto!”

Ma ‘e strille nun putevano fa niente:
‘o mare me chiammava, preputente;
‘e ‘ncopp”e scuoglie jevo ‘o jurno appriesso.

‘E vota me menavo tutt’annuro,
piccerillo cumm’ero, casto e puro
nun me mettevo certamente scuorno.

Ma certi vvota invece me menavo
vestuto ‘e bbuono, proprio comme stevo:
cu ‘na maglietta ‘ncuollo e ‘o cazunciello curto.

Chella banchina ha visto tanti ccose:
spasere, piscature e rezze ‘nfose,
‘e ‘o cunnulià d”e barche ca stanno ‘a repusà.

E addò sta cchiù mò chella scugliera?!
Mò c’e’ crisciuta ll’evera, tant’evera!
Ca nun ce azzecca niente cu stu mare.

Sparite songo tutt”e varchetelle,
‘e rezze… sò sparite pure chelle,
‘e piscature non ce stanno cchiù.

Mò nun ce vanno cchiù ‘e nnammurate
stritti, abbracciati cu ll’uocchie ‘a zannariello
llà, ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello

* * *

“Caro Maurizio, queste sono alcune mie rimembranze in versi (non le chiamo poesia perchè non è proprio il caso). Sono considerazioni di una persona anziana che fra poche settimane festeggia (!?) i suoi 85 anni e vede avvicinarsi (anche con serenità e senza nessuna ambascia) quel traguardo che tutti gli esseri viventi prima o poi dovranno tagliare. Ho voluto ricordare anche se sommariamente i miei cari genitori e il mio passato con loro; specialmente quando eravamo ancora cittadini stabiesi. Ti sarei grato se potessi inserirla nel sito quando tu lo ritieni opportuno… Ti ringrazio. Gigi”.

‘Nu suonno

Me sbatte forte ‘o core stammatina!
Pecchè me so’ sunnato a mamma mia
ca me purtava a scola tenennemo ‘a manella?

O pecchè patemo, pur’isso, m’è venuto a truvà’
mentr’ero ‘nzuonno, forse pe mme parlà’,
o pe vedè’ si stevo sempe buono?

Io nun ‘o saccio chesto che vò dì’;
ca sta venenno ‘o juorno ca songh’io
ca vaco ‘a truvà’ lloro ca stanno ‘mparaviso?

Quanno sarrà ‘o mumento, tutt’e tre,
cu ‘e lacreme int’a ll’uocchie ce abbracciammo
e ricurdammo ‘e fatte ‘e tantu tiempo fa.

Quanno piccereniello tenevo ‘a freva ‘ncuollo
e vuje cu ll’uocchie triste penzaveve ‘o cche ffà’:
qual era ‘a mmerecina pe me putè’ sanà’.

O quanno, giuvinotto, avevo fà’ ‘o surdato
mentre ce steva ‘a guerra, che sciorta m’aspettava?
Sarria turnato a casa a sta sempe cu vuje?

Ce ricurdammo pure d’‘e sore meje, ‘e fratemo;
‘e quanno stevemo ‘e casa all’acqua d’‘a Maronna:
‘na casa chiena ’e sole e cu tant’alleria.

Stiettemo pure ‘e casa ‘ncopp’‘a Caperrina:
tre cammarelle strette sempe cu poco sole,
ma ‘o sole dint’‘o core steva sempe cu nuje!

Cumm’era bella ‘a sera quanno turnave a casa,
papà te n’arricuorde che festa attuorno a te?
Strignennete ‘e denocchie vulevemo pazzià’.

Pure a Santa Caterina stiettemo ‘e casa,
assaje luntano po’ ‘a vita ‘nce purtaje,
senza ‘nu poco ‘e mare e tantu friddo attuorno.

Ma ‘nce scarfava ‘o bbene ca steva dint’‘o core;
e si ‘o destino po’ luntano ce teneva,
sempe vicino stevemo, cu ‘o core e c’‘o penziero.

Po’, comm’è scritto ‘ncielo, vuje ve ne partiste,
ma ‘nce truvammo ancora, so’ sicuro,
e stammo sempe ‘nzieme, tutta ll’eternità!

Il vero Raffaele Viviani

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

Caro Maurizio ho letto il simpatico scritto del Signor Corrado di Martino sul falso Raffaele Viviani. Ebbene io ho conosciuto di persona il vero Viviani, il cui padre era amico di mio nonno, Luigi Suarato e lui stesso, Raffaele, amico di mia mamma, quasi coetanei.

Per quei casi della vita che ti portano a vivere lontano dalla tua città, io giovanotto lasciai Castellammare con i miei genitori moltissimi anni fa. Finita l’ultima guerra mondiale nel 1945 la vita incominciava a riprendere il suo ritmo nella normalità ed anche gli spettacoli teatrali quindi incominciavano a svolgersi regolarmente. Le varie compagnie teatrali ripresero i loro giri artistici portando gli spettacoli nelle varie città italiane.
Non ricordo bene se fosse il 1946 o 1947, a Torino dove vivevo con la mia famiglia, venne per una recita la compagnia del “vero” Raffaele Viviani. Appena mia mamma lo seppe volle che io l’accompagnassi a teatro per vedere il suo amico d’infanzia. Naturalmente l’accontentai e finita la commedia ci facemmo accompagnare nel camerino del commendatore.
Un uomo come me di più di 85 anni di avvenimenti ne ha vissuti; di momenti belli e brutti, tristi e gioiosi, allegri e malinconici ne ha passati, ma il ricordo di quell’incontro mi è rimasto indelebilmente stampato nel cuore e nel cervello per l’intensità delle emozioni che mi procurò.
Per capire quanto sto per descrivere bisogna sapere che da qualche anno Raffaele Viviani soffriva di una malattia che di li a poco lo avrebbe portato alla tomba e che mia mamma non lo vedeva da molti anni. Appena uno di fronte all’altro, negli occhi dell’uno e dell’altra, e sul volto dell’artista appena struccato e su quello di una donna matura lessi chiaramente quale emozioni e quali commozioni si erano impadroniti dei due in quel momento. Lui in piedi, al fondo di quel locale non molto ampio, fermo con le braccia aperte che preludeva ad un commosso abbraccio disse: “Gemmetè, comme si ancora bella! Comme staje?” E l’abbraccio che ne seguì è uno dei ricordi più belle e cari della mia vita. Prima, perché quel complimento che poteva apparire galante, ma che era espresso con sincera affettuosità, era rivolto a mia mamma. E poi perché in quel momento facevo la conoscenza di un grande artista. Un artista che (studiandolo più approfonditamente negli anni seguenti) ha sempre ben rappresentato la vita e l’anima di quel meraviglioso popolo dei disperati, dei poveri, dei lavoratori manuali, di muratori, di pescatori, di zingari e saltimbanchi; in poche parole, dei reietti dalla società. Ma non voglio dilungarmi sulla grandezza dell’artista e del poeta.
Voglio solo ricordare il grande nostro concittadino e quindi ringraziare il Signor Di Martino che me ne ha dato l’occasione. Quello era il “vero” RAFFAELE VIVIANI che ho conosciuto io.

                                                          Gigi Nocera

Il “salotto” di Castellammare (parte II)

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Il “salotto” di Castellammare

Nel mio precedente ricordo ho descritto le serate in Villa Comunale quando c’era il concorso delle Bande Musicali che si alternavano sulla bellissima Cassa armonica. Ma ciò si verificava appunto soltanto in quelle occasioni. Quindi non era sempre così.
In Villa gli adulti si radunavano anche per trovarsi, per parlare della propria famiglia, dei propri… guai, di politica e, perchè no, pettegolare.
I gruppetti di amici e parenti si davano appuntamento quasi sempre a ‘o viale ‘e miezo.
Ma incontrarsi in quella folla era molto difficile, si ricorreva quindi ad un espediente ingegnoso, semplice e caratteristico, frutto proprio della fantasia partenopea: un fischio! Ma non un fischio qualsiasi, banale, no. Ogni gruppo di parenti o amici modulava questo sibilare in modo del tutto particolare e personale. Quel modo originale di cercarsi raggiungeva sempre il suo scopo. Difatti il destinatario, o i destinatari, di quel richiamo rispondeva allo stesso modo e a quel punto ci si individuava facilmente anche fra la ressa. Ricordo che mio padre e i suoi fratelli si incontravano il sabato e alla domenica con il seguito dei figli più grandicelli. Raramente erano presenti anche le mogli; quelle povere donne rimanevano in casa ad accudire i marmocchi più piccoli, quelli non ancora in grado di una sia pur limitata autonomia. In ogni famiglia i figli non erano meno di tre o quattro, e le nascite avvenivano sempre in serie, uno dietro l’altra, in modo che quelle povere madri non avevano mai un periodo di riposo, di svago.
I ragazzi che seguivano i padri in Villa scorazzavano, giocando, per quei viali polverosi sgattaiolando fra le gambe dei presenti, inutilmente inseguiti dai richiami e dalle raccomandazioni dei genitori. Durante questo lento pendolare dalla Cassa armonica alla banchina e zi’ Catiello le soste erano frequenti, e servivano a rafforzare, a precisare, anche con i gesti, i concetti che in quel momento si stavano esponendo.
Come credo di aver detto in altra sede, mio zio Luigi, detto cientemosse, in queste pantomime era insuperabile: si dimenava come una marionetta disarticolata, muoveva braccia, gambe, chinava il busto avanti e indietro, strabuzzava gli occhi, si dimenava con tutto il corpo, improvvisava una specie di balletto; un vero spettacolo! Un altro personaggio che quasi gli stava alla pari nell’improvvisare questa disarmonica danza era Geretiello ‘o casaiuolo, molto conosciuto nel rione di Santa Caterina.
I ragazzi invece vivevano un altro genere di trastullo. Mentre per gli adulti, nel mezzo della loro passeggiata, un caffè o un gelato da Spagnuolo erano di prammatica, l’irresistibile esca dei ragazzini erano le bancarelle che vendevano dolciumi e che erano addobbate con fiori e luci multicolori. Qui si vendevano franfellicche, lenghe ‘e Menelik e leccornie varie. Per noi bambini poi lo spettacolo più interessante era vedere come il franfelliccaro creava il suo prodotto, ovvero come nascevano i franfellicche. Da una pentola veniva estratta ancora calda una massa gommosa di zucchero, che veniva appesa ad un chiodo rampino e poi assottigliata, in diverse riprese, riappendendola ogni volta a quel chiodo. Fino a che non era ridotta sottile come un dito e tagliata poi in pezzi di varia lunghezza. Qualche volta, durante la cottura di questo zucchero, venivano versati nella pentola dei coloranti in modo che i bastoncini di franfellicche risultavano striati da diversi colori.

Il "salotto" di Castellammare: franfelliccaro

Il “salotto” di Castellammare: franfelliccaro

La stampa antica riprodotta, dà una certa idea di quanto ho cercato di descrivere.Molte volte l’andirivieni degli adulti e i giochi dei bambini venivano interrotti da una pioggia improvvisa. E tutte le volte il commento era sempre lo stesso: “E’ ‘a trupéa d’‘e cerase”. Ancora adesso non so di preciso cosa vuol dire trupéa.Ma il vero significato della frase è ben spiegato dallo storico e glottologo del dialetto napoletano Renato de Falco: “Improvviso acquazzone, l’inaspettato temporale che spesso si materializza in concomitanza della maturazione delle ciliegie, anticipandone la raccolta.”In tali occasioni era un fuggi fuggi generale e per ritrovarsi era un aggrovigliato e urlato richiamo che si intrecciava fra genitori e figli: “Giggì’, Salvatò’, Gennarì’, addò staie?!”. Ed era un correre affannoso sotto i portoni delle case della zona e nei locali di Spagnuolo. Questa sosta però non durava molto: la pioggia come velocemente era arrivata così sveltamente cessava. Intanto però aveva scombinato i discorsi, gli incontri, la passeggiata, le chiacchiere, e, quel che per noi era più importante, aveva interrotto i nostri giochi, le nostre corse, lasciandoci qualche volta con l’acquolina in bocca per il mancato acquisto dei franfellicche.