Archivi autore: Gigi Nocera

Informazioni su Gigi Nocera

Autore Nato a Castellammare il 18 febbraio 1923, è stato ideatore ed autore della rubrica gli anni '30 a Castellammare, Alla sua morte avvenuta a Torino il 17 marzo 2012, ha lasciato in tutti noi un vuoto incolmabile.

‘O Munaciello

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

munaciello

munaciello

Caro Maurizio, sollecitata dai cenni storici e descrittivi contenuti ne “Il monaciello” che si trova nel settore “Storie e Tradizioni” del Libero Ricercatore, la mia memoria è andata indietro negli anni, diciamo tra la fine del 1920 e gli inizi del 1930. Questo spiritello dispettoso una volta arricchiva la fantasia (sempre fervida e prolifica) di tanti miei compaesani.
Spiritello perché, secondo me, a volte si dava arie di un fantasma vero e serio.
Dispettoso perché altre volte ti metteva di fronte a situazioni strane e del tutto impensabili. In quegli anni questa entità misteriosa si impadronì anche della poca smaliziata fantasia di mio fratello Andrea che aveva 8/9 anni ed io un anno e mezzo di meno. Allora abitavamo ‘ncoppa a Caperrina, in un vecchio palazzo che si trovava proprio di fronte al Convento delle Stimmatine, in via II° de Turris, ora via Viviani. Era un edificio modesto pur nella sua dignità, con un bel cortile interno di forma quadrata. Ogni piano si raggiungeva salendo tre rampe di scale e percorrendo un breve loggiato che si affacciava sul cortile stesso. L’appartamento che abitava la mia famiglia era l’unico che si trovava all’ultimo piano, nel sottotetto. Per accedervi, dopo l’ultima rampa di scale si svoltava a destra e si veniva inghiottiti in una specie di antro tanto vasto quanto buio, sia di giorno che di notte; malamente e tristemente rischiarato da tremolanti fiammelle di lumini posti devotamente innanzi ad immagini di Santi e Madonne. Invece di dare luce questo baluginio rendeva quel luogo ancora più triste e lugubre. Proprio l’ambiente giusto per l’allocazione di questa fantasiosa entità immateriale (se effettivamente esisteva). Per giungere al nostro alloggio si dovevano attraversare questi stanzoni vuoti, che effettivamente una certa tremarella addosso la mettevano, specialmente a dei ragazzini di 7/8 anni che ci si avventuravano da soli.
Pur essendo meno influenzabile, o più cinico e scettico, di mio fratello anch’io a volte avevo la sensazione che da un momento all’altro dall’angolo più buio o da dietro i pilastri che sorreggevano il tetto, dovesse saltar fuori qualcuno o qualcosa di indefinito. La curiosità tipica del fanciullo che fino a quel momento la vita non l’aveva mai messo di fronte a forti emozioni, sovrastava il timore di dover affrontare un evento misterioso. Qualche volta, combattuto tra la paura e la curiosità, mi sono augurato di vedere o “sentire” questo munaciello che tormentava le notti di mio fratello: ma inutilmente. Questo privilegio (?!) era riservato soltanto a mio fratello, o meglio, io penso, alla sua fantasia. Forse perché fin da piccolo sono stato sempre concreto e razionale, ‘o munaciello pensava che non valeva la pena interessarsi di me. O forse la mia fantasia non era matura abbastanza per percepire questi fenomeni.
Quando mio fratello mi descriveva degli strani episodi che diceva gli erano capitati, e che apparivano verosimili, io gli credevo. Per esempio, il contenuto del portapenne che allora usavano gli scolari per deporre ordinatamente matite, gomme da cancellare, penne ecc., al mattino, lui diceva, lo trovava sparso sul pavimento, sotto il lettino dove dormivamo tutti e due, uno a capo l’altro ai piedi. I calzini a volte non li trovava dove li aveva messi la sera prima, cioè dentro le scarpe, ma sparsi per terra (questo d’estate; perché d’inverno i calzini li tenevamo ai piedi per ripararci dal freddo). Mi riferiva anche che alcune volte, di notte, si sentiva sfilare il cuscino da sotto la testa. Il racconto di questi e di tanti altri fatterelli simili, mi facevano pensare che gli episodi non erano soltanto il frutto della impressionabile fantasia di un bambino sensibile.
Dalla descrizione dei fatti suddetti si ha la conferma di quanto dicevo all’inizio: questo munaciello era dispettoso, ma non cattivo.
Si può immaginare come trascorrevano certe nottate in casa Nocera, fin quando abbiamo abitato ‘ncoppa a Caperrina. Difatti molte volte mio fratello, terrorizzato da quanto credeva di vedere e sentire, balzava giù dal lettino e si rifugiava nella camera da letto dei miei genitori. A volte, accolto con amore e comprensione, veniva messo a dormire in mezzo a loro. Altre volte veniva sgridato dicendogli che erano soltanto capricci, fantasie, con la esortazione finale: “Guarda Gigino (io!) come dorme”. Ma Gigino non dormiva! Svegliato da tanto trambusto accoglievo mio fratello, piangente ed impaurito e cercavo di tranquillizzarlo abbracciandolo e coricandomi accanto a lui; non più uno a capo e l’altro a piedi. Il tutto però non mi lasciava del tutto tranquillo e indifferente. Un po’ impressionato rimanevo anch’io.
Quando queste “nottate in casa Nocera” venivano a conoscenza degli altri inquilini della casa i commenti erano vari e disparati. Chi esprimeva cauta preoccupazione e chi reale scetticismo. A chi manifestava apertamente quest’ultimo atteggiamento mia mamma ribatteva: “ Uè cummarè! Chillo ‘o guaglione he fatta ‘na vermenara!” Oppure con una conclusione più verace ed alcune volte più aderente ai fatti: “Cummarè chillo ‘o criature s’è ccacato sotto d’‘a paura!”. E di fronte a queste inoppugnabili affermazioni la discussione aveva termine.
Un bel giorno mio padre, per porre fine al tutto disse: “Levamme ‘e prete a ‘nanze ‘e cecate!” E decise di cambiare casa. Andammo quindi ad abitare un alloggio che si trovava nel palazzo che si trova sotto l’arco della Pace, al primo piano. All’inizio di Via Santa Caterina (e qui cominciò un’altra avventura: la battaglia contro ‘e scarrafune che di notte sciamavano a centinaia, specialmente in cucina. Ma se sarà il caso ne parlerò un’altra volta).
Pochi giorni dopo il nostro trasloco mi fratello fece a mio padre questa domanda: “Papà ma int’‘a sta casa è muorto quaccheduno?” Con il caratteristico spirito caustico di noi stabiesi mio papà rispose: “Pecchè ‘a gente more mmiezz’‘a via?!”
Da quel momento ebbero termine i rapporti tra mio fratello, anzi, della famiglia Nocera, c”o munaciello.

Gigi Nocera

‘O lavarone ‘ncopp”a Ferrovia

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Piazza Ferrovia

Piazza Ferrovia

Quello che sto per ricordare forse molti stabiesi l’hanno vissuto direttamente. Non era certamente un fatto eccezionale per Castellammare: ai miei tempi accadeva almeno un paio di volte l’anno. Poiché vivo da molto tempo lontano non so se le cose sono migliorate o meno.

Qualche volta accadeva dopo diversi giorni di pioggia; altre volte per degli improvvisi violenti temporali; questo “lavarone” stravolgeva la vita dei cittadini, specialmente quelli delle zone più interessate: il Cognulo e la Piazza della stazione delle FF.SS. La pioggia, dopo aver imbevuto ben bene il terreno alle falde della montagna e dei boschi di Quisisana, non trovando sulla sua strada delle adeguate canalizzazioni ed ostacoli, si riversava impetuosa nelle strade cittadine. Quando era interessato il Cognulo, questo torrente d’acqua, di pietre, di detriti vari, rami e radici d’alberi attraversava via Santa Caterina, si incanalava in quella specie di tunnel che portava in via Bonito, fermando la sua corsa contro il muro al di là del quale vi era la Capitaneria di Porto ed i silos. Lì poi ristagnava per qualche giorno coprendo la strada di un pericoloso strato di fango impossibile da attraversare a piedi. Riusciva soltanto a noi, ragazzi vivaci e audaci: ci toglievamo le scarpe, ed inzaccherandoci quei pochi indumenti che avevamo addosso, andavamo verso l’Acqua della Madonna o verso piazza dell’Orologio.
L’altra zona cittadina colpita sovente da questo fenomeno era la Piazza della Ferrovia. Qui la corsa del “lavarone” non trovava ostacoli e, con irruenza, venendo giù finiva direttamente a mare, travolgendo tutto ciò che trovava sulla sua strada. In una occasione ricordo che un uomo, travolto da tanta irruenza fu trascinato fin sulla spiaggia e poi in mare, con la tragica conseguenza di lasciarci la vita.
Nei giorni susseguenti a questi disastri gli abitanti della zona Ferrovia, e specialmente i negozianti, si davano un gran da fare con pale, badili, secchi per liberare almeno la parte prospiciente i loro negozi e dei portoni. Dopo pochi giorni la Piazza Ferrovia ritornava bella ed armoniosa.
Non soltanto quando si verificavano questi eccessi climatici, ma anche quando la pioggia arrivava improvvisamente, in casa Nocera scattava la mobilitazione, specialmente di mia mamma e mia. Per motivi di lavoro mio padre ogni mattina prendeva il treno delle FF.SS. per recarsi a Portici. Il ritorno avveniva verso le 6 del pomeriggio. Qualche volta partiva col bel tempo, e magari all’arrivo c’era pioggia. Quindi non era attrezzato per affrontare il maltempo. Bisognava quindi “recuperarlo” adeguatamente; allora io, dotato di ombrello (ed è inutile precisare che era l’unico esemplare che c’era in casa nostra), e con le galosce in una borsa mi recavo alla stazione. In attesa del treno sostavo accanto alle colonne stile pompeiano ammirando dall’alto quella bella Piazza. Proprio di fronte alla breve scalinata che portava all’interno della stazione, (se le ombre del tempo calate sulla mia memoria non alterano i dettagli) ricordo un bel giardino, con tante belle piante ed alberi. Per me rappresentava proprio il giardino dell’Eden in quanto di verde, a Santa Caterina, dove vivevo io, c’era soltanto quello delle tasche di quasi tutti i suoi abitanti! E non è una facile battuta se dico che in quella zona di alberi non c’era neanche l’ombra.
A questo punto credo di dover descrivere queste galosce, che penso pochi sanno cosa sono, anzi, cosa erano, visto che ora non si usano più. Erano praticamente delle soprascarpe di gomma nera, grossolane, senza stringhe e senza tacchi, si calzavano sopra le scarpe vere e proprie per proteggerle dalla pioggia e venivano usate soltanto dagli uomini.
Quando sentivo lo stridere dei freni del treno che arrivava mi avvicinavo all’uscita per farmi notare da mio padre. Io penso che lo sguardo dei genitori sia guidato dal radar dell’amore: difatti non capisco come facesse ad individuarmi fra tante persone, io che ero ancora piccolo di statura. Quindi mi dava un bacio, metteva le galosce e uno a fianco dell’altro ci incamminavamo verso casa dove mia mamma ci aspettava, premurosa, pronta ad asciugare i miei capelli nel caso si fossero bagnati.
Durante il tragitto mio padre “nu mme pigliava p’‘a manella”: con la sua mano cingeva le mie spalle e mi attirava a se. E così, fianco a fianco, per tutto il non breve tratto di strada da percorrere. Quel gesto tenero e affettuoso mi scaldava più del calore del suo cappotto. Ancora oggi, dopo quasi ottanta anni rivivo ancora le emozioni di quei momenti che non dimenticherò mai.

Gigi Nocera

 

 

A proposito di pastore e pecore

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

In questi giorni si è parlato tanto di Mirafiori, ed io proprio nella condizione di dipendente della Fiat ebbi la ventura di assistere alla inaugurazione di questo grande stabilimento. L’evento ebbe luogo il 15 maggio del 1939. Tutti i dipendenti degli altri stabilimenti Fiat dislocati in città furono intruppati per assistere alla cerimonia. La fabbrica dove ero stato assunto distava circa 3 km da Mirafiori e quindi a piedi, inquadrati come soldatini, operai e impiegati ci recammo sul posto dell’evento. La mia eccitazione era al massimo: avrei visto per la prima volta e da vicino il Duce (figuriamoci!).
Giunti sul posto prima degli altri io mi sistemai ad una trentina di metri dal palco delle autorità. Sullo stesso troneggiava una enorme incudine, proprio di una dimensione smisurata.
Pensai subito che fosse di legno verniciata nero. E da qui cominciò la mia dissacrazione dell’evento e dei suoi protagonisti. Che fu poi confermato dal seguito cui assistetti.
Dopo parecchio ritardo giunse Mussolini con il codazzo dei gerarchi fascisti e delle autorità cittadine. Fra le quali naturalmente il vecchio senatore Agnelli, il capo della dinastia, e tutti i più alti dirigenti.
E qui, sempre per comprendere meglio il seguito devo fare una precisazione. Eccola: durante i suoi discorsi Mussolini inseriva sempre una domanda retorica. Ne cito soltanto una. Quando l’Italia invase l’Etiopia nel discorso che annunciava la guerra, chiese: “Camerati, volete voi burro o cannoni?”. La claque ben istruita cosa poteva rispondere? Naturalmente “Cannoni!”
Dunque anche durante la cerimonia di cui parlavo, a un certo punto sparò (facendo fetecchia!) la famosa domanda retorica: “Operai! Conoscete il mio discorso di Milano?”(1)
Domanda accolta da un silenzio totale; neanche una voce si sentì gridare SI! Un silenzio agghiacciante. A questo punto, per qualche secondo che sembrarono minuti, impettito e l’aria truce, dando un vigoroso pugno sulla famosa incudine, riprese con voce stentorea e concluse “Se non lo ricordate rileggetelo!”. Alzò i tacchi e con passo deciso scese dal palco con aria corrucciata seguito affannosamente dalle esterrefatte autorità (ecco perché il titolo del pezzo dell’amico Plaitano …IL PASTORE E LE PECORE, ha risvegliato questo ricordo).
Dell’avvenimento descritto credo di essere uno, se non l’unico, testimone vivente. Di simili ne avrei tanti altri da ricordare, ma… ho tempo; e mi riservo, se graditi dagli amici del Libero Ricercatore, di raccontarli… negli anni a venire.

Gigi Nocera

 
Note:
(1) Il discorso cui si riferiva lo pronunciò a Milano qualche anno prima in occasione di un convegno dei sindacati fascisti. Nello stesso preannunciava delle provvidenze per i lavoratori. (Proprio come ora: nulla cambia sotto il sole).

Anagrafe stabiese

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, mi rifaccio all’episodio narrato dal Signor Alessandro per esporre anch’io un fatto che capitò a mio padre quando si sposò nel lontano 1920.
Bisogna premettere che una volta per accontentare i nonni, paterni e materni, alla nascita ogni bambino si vedeva appioppare due o tre nomi, oltre a quello, diciamo, principale. Cosa che puntualmente capitò anche a mio padre, inconscio pargoletto che ignorava quanto avevano fatto i suoi genitori.
Mio padre si doveva sposare e si recò in Comune per espletare le relative pratiche. Nell’anticamera dell’ufficio preposto, assieme ad altre coppie aspettava che lo chiamassero per completare l’iter. Dopo aver atteso parecchio tempo e dopo che tutti gli altri… aspiranti sposi avevano esaurite le incombenze, mio padre si rivolse all’incaricato chiedendo il perché solo lui mancava all’appello. Ed ecco il colloquio, riferitomi diverse volte da mio padre, che si svolse tra lui e il commesso:
Mio padre: “Scusate, pecché a me nun m’avito chiammato?”
Commesso: “Scusate, ma vuie comme vi chiammate?”
Mio padre: “Nocera Francesco”
Commesso: “…Ma io v’aggio chiammato tanti vote!”
Mio padre, convinto: “No, guardate, vuie nun m’avite mai chiammato!”
Commesso: “Vostro padre comme si chiamma?”
Mio padre: “Nocera Andrea”
Commesso: “Allora, vuie site Nocera Francesco Paolo Mario Taddeo!”
Mio padre: “No, guardate, io songo sulo Francesco Nocera”
Commesso: “Diciteme almeno comme se chiamma vostra madre”
Mio padre: “Genoveffa Salerno”
Commesso: “Allora vuie site Francesco Paolo Mario Taddeo!”
Mio padre, rassegnato e non convinto: “E si ‘o dicite vuie…..!”
E fu così che Francesco Paolo Mario Taddeo sposò Gemma Suarato, i quali poi generarono questo bel tipo.

Gigi Nocera

Anniversario ( lettera del 07/05/2008 ):

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, esattamente un anno fa conobbi il tuo Libero Ricercatore. Ti scrissi e tu pubblicasti la mia lettera il 7 maggio del 2007 (rif.: “Libro Visite – Archivio 2007”). Data la mia età mi appellasti come il “nonno multimediale”. E subito mi proponesti di ricordare come si viveva a Castellammare negli anni “ 30” del secolo scorso. Di descrivere luoghi, fatti, persone e cose di quegli anni. Ben volentieri raccolsi il tuo invito. Per due motivi:

1° Perché rinnovare il ricordo di quei tempi era ed è come rivedere un vecchio film. Quando anche le scene meno belle vengono rivalutate e viste con occhi diversi.
2° Perché alle persone anziane piace raccontare il passato; molti illudendosi che delle loro esperienze se ne possano giovare i giovani. Ma non è così: le esperienze sono l’accumulo di fatti, di cose, di luoghi e persone, vissuti e conosciuti direttamente, e restano per sempre un bagaglio personale, un suo capitale, che in nessun modo è trasmissibile.
Rivedendo il film della mia vita, il ricordo di una grave malattia che mi colpì nel 1934, e che stava per portarmi all’altro mondo, non è così angosciante come dovrebbe essere. Eppure quella malattia, il tifo, in quella occasione fece parecchie vittime fra i bambini più o meno della mia stessa età.
Oggi non tutti sanno che allora la sanità pubblica non esisteva. Chi aveva le possibilità economiche (ed erano in pochi) poteva curarsi, chi ne era privo poteva anche morire per mancanza di cure. A volte il vivere o morire dipendeva dal censo e dal destino. Io mi salvai perché cosi volle il distino, al quale diedero una mano gli enormi e dolorose sacrifici dei miei cari genitori. Loro,poveretti, appartenevano alla categoria dei abbienti, e per curarmi adeguatamente furono quindi costretti a vendere tutto quello che si poteva vendere (anche i regali di nozze ricevuti in occasione del loro matrimonio), e impegnare al Monte di Pietà tutto ciò che era impegnabile (non so se poi il tutto fu riscattato; ma non credo). Al destino ed ai sacrifici di cui sopra si unì la solidarietà e la comprensione dei bottegai del rione (Geretiello ‘o casaiuolo, ‘o chianchiere, Mannara, Acampora il panettiere, e altri). Del medico Imparato che mi curò quasi gratis.
Queste tutt’altro che floride condizioni economiche oggi vengono da me ricordate non con l’affanno con cui allora erano vissute.
Il rammarico non mi assale se penso che io le scuole elementari e medie le ho frequentate senza mai comprare un libro. La mia famiglia non poteva permetterselo. Le nozioni che dovevo apprendere le dovevo assimilare ascoltando attentamente quello che dicevano in classe i maestri e i professori. Questo “allenamento” mi ha abituato ad ascoltare sempre con molto rispetto e attenzione quello che mi dicono le persone con le quali interloquisco. E questo lo ritengo anche un segno di rispetto.
Rivedendo il film di cui sopra, il lavarone, (che periodicamente invadeva le strade della città, e specialmente a Santa Caterina, quando dalla montagna acqua e terra precipitavano dal Chignulo ostruendo le strade e impedendo di andare agevolmente da Piazza Orologio all’Acqua della Madonna), oggi lo valuto con più freddezza, diciamo quasi con simpatia: era una anomale variante alla consueta routine della vita giornaliera. Per noi bambini sguazzare a piedi nudi in quel fango era uno dei tanti poveri e ingenui divertimenti.
Per le persone anziane (oggi non esistono vecchi, ma soltanto anziani!) invece, raccontare il passato è anche rimpiangere la semplicità, la genuinità dei rapporti umani che c’era fra la gente. Con grande nostalgia ricordo la solidarietà che esisteva fra i vicini di casa, fra la gente della via, del rione.
Nostra vicina di casa, per molti anni, è stata la famiglia Mauriello. Ebbene durante la mia malattia di cui ho parlato poc’anzi, mia mamma molte volte non aveva il tempo per preparare da mangiare, ma una delle sorelle Mauriello, Filumena, che era zitella, (come venivano chiamate allora le donne che non si sposavano) mai ci ha fatto mancare un piatto di pasta e fagioli, una pastasciutta, un frutto. Nel fare il bucato si sostituiva a mia madre , stanca per aver accudito giorno e notte a questo figlio quasi moribondo. E allora non esistevano detersivi e lavabiancheria I panni si lavavano a mano, con la forza delle braccia, in un mastello di legno, usando della cenere e del sapone grossolano.
Ma la solidarietà ci veniva data anche da molti abitanti della via. Chi andava a prendere i pani di ghiaccio perché,data la febbre alta, dovevo fare i bagni nell’acqua fredda; chi si alternava al mio capezzale perché dovevo essere assistito giorno e notte; chi andava a comperare le medicine. Insomma, come ho detto, c’era la solidarietà e l’aiuto diretto dei vicini di casa e di molti abitanti della via.
Ecco caro Maurizio quello che mi sentivo di comunicare ai giovani amici lettori di questo sito, nel compleanno della nostra conoscenza.
Nel concludere questi ricordi sono doverosi i miei ringraziamenti a te e agli amici stabiesi che ho avuto la gioia e il piacere di conoscere personalmente durante la mia breve visita a Castellammare nel mese di marzo.
Nei vostri occhi, sui vostri volti ho rivisto quei nobili e bei sentimenti di cui mi sono nutrito durante la mia fanciullezza a contatto con la gente dell’Acqua da Madonna, da Caperrina, ‘e via Santa Caterina.

Grazie ancora. Gigi Nocera