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Informazioni su Gigi Nocera

Autore Nato a Castellammare il 18 febbraio 1923, è stato ideatore ed autore della rubrica gli anni '30 a Castellammare, Alla sua morte avvenuta a Torino il 17 marzo 2012, ha lasciato in tutti noi un vuoto incolmabile.

Ricordo del dott. Imparato

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Dott. Imparato Salvatore

Dott. Imparato Salvatore

Caro Maurizio, nei giorni scorsi sul “Libero Ricercatore” hai pubblicato un bel ricordo del dottor Imparato. L’ho letto con grande emozione perchè molti anni fa fui da lui curato e salvato. Ecco i fatti:

Nel 1934 avevo 11 anni. Nell’estate di quell’anno a Castellammare molti bambini si ammalarono di tifo, ed io fra loro. Qualcuno morì, qualcun’altro si salvò. Io mi salvai grazie alla valentia professionale del dottor Imparato, per l’immenso amore e sacrificio dei miei genitori ed alla buona sorte o per meglio dire al volere di Dio. Il dottor Imparato, fin dalla prima diagnosi, e per tutto il tempo della mia malattia, veniva a volte anche due volte al giorno a visitarmi e controllare come andavano le cose. All’inizio avevo la febbre a 39/40 gradi e quindi la cura fu subito radicale: per far scendere la febbre dovevo fare due volte al giorno un bagno nell’acqua fredda. Naturalmente della vasca da bagno a casa mia si sapeva a malapena che esisteva, ma quanto a possederla poi….! E quindi fu giocoforza sostituirla con una tinozza di zinco abbastanza capiente. Poiché neanche il frigorifero faceva parte dei confort della mia abitazione di Via Santa Caterina, mio fratello (e a volte i vicini di casa) si recava a comprare presso la fabbrica del ghiaccio (che penso si trovasse dalla parte della Caperrina) un mezzo panetto di ghiaccio lungo 50/60 cm. che si caricava in spalla avvolto in un sacco di juta. Tanto per completare la descrizione delle condizioni igieniche in cui si trovavano quasi tutte le abitazioni del centro storico, per noi il gabinetto era costituito da un “cantero” posto in uno sgabuzzino angusto, scuro e senza prese d’aria con l’esterno.

Più sopra ho attribuito la mia guarigione anche ai sacrifici dei miei genitori, ed ecco il perché. Allora non esisteva in Servizio Sanitario Nazionale, la cosiddetta “Mutua” e per un ammalato grave a volte il vivere o morire dipendeva dal censo (chi aveva il denaro per curarsi adeguatamente) e dalla buona sorte (o volere di Dio). Per affrontare le spese per le mie cure i miei genitori portarono tutti i doni di nozze che ancora possedevano al Monte di Pietà (doni che naturalmente non furono mai riscattati…). Mio padre, dipendente delle “Ferrovie dello Stato”, ottenne dall’Amministrazione un prestito che poi restituì con una trattenuta sugli stipendi successivi. In verità non so se il dottor Imparato fu pagato; in caso affermativo non so dire quando e quanto gli fu dato. Era nota però la sua discrezione nel chiedere (ed a volte anche a rinunciare) un modesto compenso a quelle famiglie in precarie condizioni economiche. Dopo 8/10 giorni di un trattamento così drastico, naturalmente affiancato da appropriate cure mediche, il mio stato di salute incominciava a migliorare. Ricordo ancora bene le prescrizioni consigliate ai miei genitori per quanto riguardava il vitto. Mangiare minestrine in brodo e legumi accuratamente sbucciati, carne di cavallo tritata e anche gli acini d’uva dovevano essere accuratamente sbucciati. Inoltre, per rimettermi in forze, dovevo fare delle punture endovenose; e lui tutti i giorni veniva a farmele a casa mia. Per un bambino di 10/11 anni vedersi infilare un ago nelle vene non era piacevole: Ma lui con incoraggiamenti scherzosi e garbati riusciva a tranquillizzarmi dicendomi che avevo le vene che sembravano la “condotta dell’Acqua della Madonna”, tanto erano grosse ed evidenti.
Questo è il ricordo di un malato che 75 anni fa, fu curato e salvato da quel valente medico galantuomo che era il Dottor Imparato. Nel raccontare questo triste momento della mia vita, credo di aver offerto un piccolo spaccato della vita e delle condizioni in cui si viveva allora a Castellammare.

Gigi Nocera

Stabiese sempre

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Spagnuolo

Spagnuolo

Una botta di nostalgia più acuta di sempre mi è venuta leggendo la lettera di Canzanella che vi scrive da Genova. In quella ricca cartoleria (che vendeva anche giornali e giornaletti) ci comperavo i quaderni che mi servivano quando frequentavo la scuola che allora si trovava nel palazzo di fronte (per essere più preciso, dove c’era l’osservatorio meteorologico). Pur essendo a Torino dal 1938, al seguito di mio padre, funzionario delle FF.SS., non ho mai dimenticato quel tempo, anche se breve della mia vita. Quando “filavo” la scuola per andare a buttarmi a mare dalla vicina banchina ‘e “zi Catiello” o quando giocavo a fare a pietrate sulla spiaggia di fronte alla sede dello “Stabia”; oppure quando i miei genitori, a passeggio nella villa, mi comperavano il gelato da Spagnuolo. Quanti ricordi belli ! Forse perchè un incosciente ragazzino. Per ora saluto tutti i frequentatori di questo sito. Presto mi rifarò vivo.

Serenate a Castellammare

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

serenata

Serenate a Castellammare

Da troppo tempo manco da Castellammare e quindi non so se la simpatica e romantica usanza che sto per raccontare era ancora in voga dopo la fine della guerra.

Nella famiglia del mio nonno materno, don Luigi Suarato, tutti i componenti maschili sapevano suonare almeno due strumenti, ad orecchio però, da autodidatta, perché nessuno di loro aveva mai studiato musica. Ciò non deve sembrare strano in quanto noi stabiesi abbiamo, quasi tutti, un buon orecchio musicale. Questa affermazione non è frutto di un esasperato orgoglio cittadino.
Incominciamo da mio nonno: aveva molto confidenza con la fisarmonica; e ricordo che quasi tutti i pomeriggi si sedeva in un angolo della sala da pranzo e ci deliziava suonando le belle canzoni napoletane in voga in quei tempi.
Mio zio Salvatore era un vero portento: quasi tutti gli strumenti che passavano nelle sue mani non lo imbarazzavano. Dopo i primi approcci, tanto per prenderci confidenza si impadroniva, rudimentalmente, della tecnica per usarlo con disinvoltura e gradevolmente. Fosse pure uno zufolo o una ocarina. In un mio ricordo pubblicato dal Libero Ricercatore qualche tempo fa parlavo degli stabilimenti balneari installati sulla spiaggia di Corso Garibaldi (per intenderci: dove ora c’è un prato sul quale starebbero bene a pascolare delle pecore irlandesi!). Descrivevo anche l’ambiente della rotonda che portava alle cabine e dove oltre alla cassiera faceva bella mostra di sé un pianoforte. Ebbene, questo mio zio ogni tanto si sedeva davanti a questo piano e suonava i motivi delle più belle canzoni o delle Operette in voga allora.
Fu grazie a zio Salvatore (un bel giovane con baffi neri e folti e capelli lisci dello stesso color corvino), che capii cosa era una serenata. A lui mi legava un affetto e una simpatia particolare. Furono questi reciproci sentimenti che lo spingevano a portarmi con se quando c’era una festa a cui lui partecipava o quando, appunto, doveva “portare” la serenata ad una bella ragazza.
Perché questo concertino? Capitava per esempio che una ragazza resisteva alla corte che le faceva l’innamorato, oppure quest’ultimo, già fidanzato con questa ragazza, veniva lasciato.
Allora subentrava l’arte della seduzione musicale e si “portava” la serenata. Sperando che questa manifestazione d’affetto intenerisse il cuore della ragazza.
Naturalmente non tutti gli spasimanti sapevano suonare uno strumento e quindi si avvalevano dell’abilità degli amici in questo campo e si combinava un piccolo complesso di due-tre strumenti e un cantante, che molte volte era uno degli, diciamo, strumentisti. Questo mio zio che in questo campo sapeva il fatto suo, veniva incaricato di organizzare questo complessino con l’aiuto di amici capaci di suonare uno strumento. Mio zio eccelleva nella chitarra e quindi trovato un mandolinista o anche un clarinettista il più era fatto; specialmente poi se uno di loro avesse avuto una bella voce.
Come ho detto questo mio zio mi voleva bene e quando capitava di dover fare la serenata “per conto terzi” mi diceva: “Gigì stasera ce sta ‘na serenata; mo ‘o dico a mammeta e te porto cu’ mico”. Poiché mia mamma era sua sorella il permesso non veniva mai negato, con mia grande gioia.
Queste serenate venivano fatte di sera, e se c’era anche un poco di luna la cosa diventava di un romanticismo incredibile. Questa atmosfera mi colpiva particolarmente perché le prime emozioni sentimentali incominciavano a prendere possesso del mio cuore. Il cuore di un non ancora giovanotto, e un non più bambino. Ma torniamo alla serenata.
Questo gruppetto di amici si recava sotto il balcone della fanciulla desiderata e incominciava a suonare e a cantare. Dopo le prime note la gente del rione o della via accorreva per godersi gratuitamente uno spettacolo molto gradevole e simpatico. Chi suonava non era uno strimpellatore e chi cantava aveva sempre una bella voce, pertanto sia la musica che l’atmosfera erano oltremodo gradevoli. Ricordo bene che allora la canzone che veniva cantata di più era “‘Na sera ‘e maggio”.
A proposito di canzoni, quella che rappresenta bene che cosa era una serenata è la famosa “Guapparia” scritta dal poeta Libero Bovio e cantata dai più bravi e famosi cantanti napoletani. Ed ecco la prima strofa:

Scetateve, guagliune ‘e malavita,
ca è ‘ntussecosa assaje ‘sta serenata:
i’ songo ‘o ‘nammurato ‘e Margarita,
che ‘a femmina cchiù bella d’‘a Nfrascata! 

Gigi Nocera

Stabiesi: gioiosi e irriverenti

Stabiesi: gioiosi e irriverenti

 Castellammare  linea tranviaria

Castellammare linea tranviaria

Per questa sfiziosa rubrica voglio raccontare una volgaruccia e popolaresca scenetta, cui assistetti quando avevo 12/13 anni, cioè nel 1935/36. Per valorizzarla e far risaltare il carattere gioioso, irriverente e caustico del nostro popolino occorrerebbe la penna del grande Peppino Marotta. Ma accontentatevi della mia scarsa abilità affabulatoria.
In quegli anni a Castellammare esisteva una linea tranviaria che attraversava tutta la città facendo capolinea da una parte all’entrata delle vecchie Terme e dall’altra al piazzale della Ferrovia dello Stato.
Nei mesi della bella stagione in Villa, per godersi un po’ di frescura, e sentire le bande musicali che si esibivano sulla splendida nostra Cassa Armonica, si incontravano gli amici e i parenti. In stragrande maggioranza erano maschi; le donne non avevano tempo per bighellonare: a casa dovevano preparare il pranzo e accudire la numerosa figliolanza.
Oltre ad ascoltare la musica in compagnia, questi incontri servivano anche a scambiarsi pareri, a commentare i fatti del rione, a “murmuriare” e pettegolare sulle avventure galanti dell’uno o dell’altra. Quante di quelle boccaccesche vicende sono venuto a conoscere mentre facevo finta di distrarmi con i giochi, ma attentissimo ad ascoltare quei pettegolezzi!
Di domenica questi incontri avvenivano verso mezzogiorno e mio padre, che aveva altri tre fratelli, con essi si incontrava in quel ameno luogo.
Mio zio Luigi, che era il più vecchio e il meno istruito, faceva il calafato al Cantiere, e quindi fatto di “grana grossa”. Come quasi tutti gli stabiesi anche lui aveva un soprannome: cientemosse, che gli derivava dal fatto che non stava mai fermo. Quando parlava si agitava come una marionetta disarticolata: si sbracciava, saltellava, si piegava sul busto, roteava le gambe in tutte le direzioni e accompagnava il suo dire con delle esilaranti espressioni facciali degne del miglior mimo in circolazione. Insomma, un vero spettacolo. Inoltre era scuro e secco come un’aringa affumicata.
Abitava dalle parti della “Funtana ranna” e per giungere in Villa si serviva del tram di cui ho detto. Una domenica, verso mezzogiorno, gli altri fratelli, ed io con loro, lo aspettavano alla fermata posta all’altezza della “Banchina ‘e zì Catiello”. Il veicolo era zeppo di passeggeri, molti accalcati verso la discesa. Aggrappato ad un maniglione vi era un compunto sacerdote, forse venuto per la cura delle acque dall’entroterra campano. Accanto a lui mio zio che poco prima di balzare a terra emise un volgare e formidabile rumore corporale. Poi rivolto al religioso gli disse: “Zì prevete! Ma nun ve pigliate scuorno a ffà certi ccose!?”. Il buonuomo, sorpreso, esterrefatto e imbarazzato, non ebbe la prontezza di spirito di ribattere alcunché. Questa assurda situazione, pur se alquanto volgare, suscitò nei presenti una risata generale. Nel frattempo il tram riprese la sua corsa portando lontano i pensieri amari di un povero prete di campagna.

Gigi Nocera

Il fedele… infedele

Il fedele… infedele

Il fedele infedele

Il fedele infedele

Questo fatterello che sto per narrare, per l’epoca in cui si svolse e per le persone coinvolte, credo abbia una valenza abbastanza delicata. Farò quindi in modo che difficilmente si possano individuare i luoghi e le persone interessate. Ai tempi della mia fanciullezza le famiglia cambiavano casa con una frequenza stupefacente. Basta dire che nei primi 15 anni della mia vita ho abitato in sei appartenenti diversi e in diverse zone della città. Ciò vuol dire che circa ogni due anni io cambiavo casa, rione …e Parrocchia. Poiché ero uno che si faceva voler bene, ubbidiente, simpatico e che ispiravo una certa fiducia, i parroci con i quali venivo in contatto, incauti!, si fidavano di me. In una di queste Parrocchie tutti gli anni si festeggiava un Santo (di cui non ricordo il nome) e per tradizione, in quei giorni, il parroco faceva fare dei piccoli panini che poi distribuiva ai più assidui frequentatori delle funzioni religiose. Fra questi frequentatori c’era una giovane e bella signora che abitava poco distante, il cui marito era un sergente della Regia Marina imbarcato su una nave da guerra. In quel periodo era in corso una vertenza politica-militare fra la Cina e il Giappone e le potenze occidentali (Francia, Inghilterra, Italia, ecc.) per evitare che l’incendio si espandesse nei Paesi vicini e per fare da pacieri, mandarono colà una flotta di guerra. Guarda caso, su un nostro incrociatore inviato laggiù era imbarcato il marito della signora di cui sopra. Nel giorno della festa di cui ho detto, il parroco mi affidò un pacchetto con un numero consistente di quei panini che, proprio perché piccoli, erano attaccati l’uno agli altri in file parallele. E mi ordinò: “Portali alla signora!” A questo punto l’istinto fellonesco che, poco o tanto, alberga nell’animo di ognuno di noi, in un lampo si fece spazio nella mia testolina e… nel mio stomaco, sempre mezzo vuoto e mai mezzo pieno. Il breve “pari e sparo” che fecero fu il seguente:… “se ne sottraggo una fila chi vuoi che se accorga!?”. Il gesto furtivo fu più rapido del pensiero, ma mi accorsi che l’operazione incontrava qualche difficoltà. Aprii completamente il pacchetto per vedere quale era l’ostacolo, e mi trovai fra le mani un foglio di quaderno, che era, come una fetta di salame, sistemato fra i panini stessi. In esso il parroco fissava l’ora di un appuntamento, che suppongo fosse per una intima confessione! Lestamente e furtivamente così come l’avevo svolto, riavvolsi il pacchetto e con una faccia da ingenuo impunito lo portai alla signora. Cosa avrà letto costei nei miei occhi smaliziati ed ingenui allo stesso tempo? Mah!… …Intanto il marito, in mari lontani, compiva la sua missione di guerra! Forse anche in lei, in quei momenti, si combattevano due sentimenti: il desiderio e la fedeltà. Chi vinse? Io credo di saperlo, ma non ve lo dico!

Gigi Nocera