Archivi autore: Giuseppe Zingone

Informazioni su Giuseppe Zingone

Collaboratore di Redazione Insegna a Roma, vive a Ladispoli, nutre molti interessi, come: la storia religiosa, l'arte, la fotografia e l'amore per la sua Castellammare di Stabia.

Gli Scavi di Stabia

Gli Scavi di Stabia

a cura di Giuseppe Zingone

Michele De Ruggiero, Pianta Stabia, San Marco

Un articolo d’epoca sugli Scavi di Stabia, tratto dall’Illustrazione Italiana del 1882, nel quale si celebra anche la stampa della pubblicazione della nuova raccolta di Michele De Ruggiero, Degli scavi di Stabia dal 1749 al 1782, pubblicato il giorno delle Palilie1 21 aprile 1882. Continua a leggere

  1. I Palilia o Parilia erano un’antichissima festa pastorale della religione romana, che si celebrava il 21 aprile in onore del numen Pale, a volte descritto come semplice genio, a volte come divinità femminile. Info tratta da Wikipedia.
Torino immagine tratta dal Web

I miei anni a Torino

I miei anni a Torino

di Gioacchino Ruocco

Torino immagine tratta dal Web

Torino immagine tratta dal Web

Gentile signor Nocera, approfittando della sua risposta (rif.: rubrica “Lettere alla Redazione” – 30 agosto 2009), vorrei portare alla luce alcuni aspetti della vita che, negli anni della mia permanenza a Torino, conducevano i nostri compaesani meno abbienti, mentre noi, più fortunati, avevamo la nostra isola, quieta e rassicurante, sulla quale vivere e consolare la nostra emigrazione.
Perché mi trovavo a Torino: avevo smesso di navigare e cercavo un posto a terra quando alcuni colleghi mi parlarono di un ente di diritto pubblico che assumeva personale per lo svolgimento dei compiti ispettivi di natura tecnica. Fra i tanti riuscii a spuntare come destinazione Torino che avevo conosciuto letterariamente attraverso i libri di Cesare Pavese. M’innamorai perdutamente di questa città e del Piemonte: il lavoro mi permetteva di girare in lungo e in largo e visitare tanti paesi che fino ad allora per me non erano mai esistiti. Mi innamorai così del Canavese e delle Langhe. Arrivavo per il mio lavoro fino a Ceresole reale nel parco del Gran Paradiso lontano dalle nebbie e dalle diatribe della pianura, ma tra le tante esperienze mi capitò di incontrare anche nostri paesani. Inizialmente pensavo che a Torino, di Castellammare, ci fossero soltanto il sottoscritto e il compagno d’avventura Fortunato Setale, impegnato nello stesso lavoro fino a quando non mi capitò di recarmi, per motivi di lavoro, in un palazzo di via Cibrario, dove per poco non andavo al manicomio. Varcando il portone d’ingresso, come a volte capita, mi trovai in una realtà diversa da quella che mi ero lasciato alle spalle soltanto qualche metro prima. Le voci che percepivo, e non una, ma tante, si rincorrevano all’interno di quella realtà, erano di gente che parlavano il mio dialetto, quello di Castellammare e quando il portiere che mi stava aspettando si rese conto che io ero un suo paesano, dal centro del cortile grido a tutti: “L’ispettore è paisano nuosto. E’ de Scanzano!” Le voci che prima interloquivano in maniera evidente e rumorosa zittirono di colpo e i volti appesi alle ringhiere, assieme ai panni messi ad asciugare, diventarono tanti. Odori di sugo, di verdure, di fritti. Dopo lo stupore, mille domande: come mi chiamavo, a chi appartenevo, fino a quando non spuntò uno di loro che, colpo di scena, mi conosceva. Mi guardò con occhi sorridenti e increduli, come per dirmi: “Ma non mi riconosci?” Poi quando mi disse il suo cognome Sorrentino, mi sembrò impossibile di aver ritrovato Carlo e la sua chitarra, con quale avevo composto qualche canzone giù al Centro sociale INA CASA del San Marco. Durante il servizio militare l’avevo perso di vista, anche se lui attraverso la radio privata dove lavora mi aveva cercato per propormi come autore e collaboratore. Dovetti accettare per forza un invito a pranzo e promettere di ritornare con mia moglie a far loro visita. Cosa che avvenne regolarmente per qualche tempo e mi toccò, per riconoscenza, dare una mano a chi me la chiedeva. Da quel momento i miei compaesani saltavano fuori da ogni dunque facendomi scoprire nuove isole, nuove assembramenti in cerca della sopravvivenza. Erano come i girasoli della cicoria in mezzo ai campi, ne cercavi uno e, dopo un attimo ne trovavi cento: a Nichelino, a Favria, a Moncalieri. A Ciriè, mi dicevano, c’erano più gragnanesi che piemontesi e non mancavano presenze in altre località. Molti amavano mimetizzarsi, poi, al dunque, si manifestavano con tutta la loro natura appena percepivano la voce di un loro paesano. Ho conosciuto molti piemontesi innamorati del nostro paese. Se ne erano innamorati sentendone parlare. Dopo due anni a Torino andai a vivere a Settimo Torinese per permettere a mia moglie di stare vicino alla scuola che aveva scelto come sede definitiva ed anche lì apparvero altri compaesani, ma di diversa estrazione e con pretese di sistemazione, con retribuzioni stratosferiche, senza vergognarsi di dirmi in faccia che, secondo loro, tutti ex marittimi, conducevo una vita modesta. Certe volte non sapevo se era meglio negarmi o accettare comunque questi rapporti, per rendere meno pesante la vita dei miei compaesani nei primi approcci con Torino e le problematiche che come “terroni” affrontavano per trovare una casa, per farsi capire, ecc. ecc.
Io non ho mai rinunciato al mio dialetto, anzi la mia biblioteca era abituata da anni ad ospitare Pavese accanto a Pasquale Ruocco, Fenoglio accanto a Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Chiurazzi, Di Giacomo, Galdieri, scrittori italiani accanto a scrittori russi, americani, spagnoli, ecc.
Anche io avevo la mia isola paesana. Mia moglie aveva dei parenti in Piemonte che erano arrivati per altre strade di lavoro, ed ogni settimana era un obbligo riunirsi a turno presso uno di noi per il pranzo della domenica e per raccontarsi vita, morte e miracoli di parenti, amici, conoscenti e per sentire la voce dei genitori, ma mia moglie pensava sempre di ritornare. Le riunioni acuivano questo desiderio e la mancanza del paese diventava più forte nei giorni di nebbia e di freddo, anche se intorno a lei crescevano la stima e la simpatia, i favori dei locali che apprezzavano il suo impegno professionale.
Io, invece, a dire il vero, mi stavo integrando anche se il cuore desiderava il contrario. Vivere di malinconia non mi è mai piaciuto, ma essendo stabiese nell’animo e nella mente non potevo venir meno alla mia individualità ed indipendenza per cui nel 1972 lasciai Torino per Roma. Al di là delle mie peripezie, sento che chi è stabiese non può vivere altrove perché non sa o non vuole dimenticare l’appartenenza alle proprie origini tanto da fargli rispondere sempre e comunque allo stesso modo, a chi gli chiede: “Sei di Napoli?” – “No, so’ ‘e Castiellammare”, che resta l’unico teatro possibile delle rappresentazioni delle sue gesta.

Una festa a villa Antonietta

Una festa a villa Antonietta

di Giuseppe Zingone

Era il 16 settembre del 2007, quando il professor Giuseppe D’Angelo, rispondeva ad un lettore che gli poneva domande sulla Villa Antonietta, nella rubrica di Liberoricercatore: “Lo storico risponde“.

Riporto quello che ho scritto nel mio libro: I luoghi della memoria.1: Questa villa, nel tempo, ha avuto vari nomi, legati tutti a quelli dei proprietari: villa Lieven, villa Moliterno o Antonietta, villa Pagliara, villa Petrella. Il principe don Alessandro di Lieven, ministro plenipotenziario (ambasciatore) russo nel Regno delle Due Sicilie, d’estate soleva frequentare la reggia di Quisisana, un po’ come tutti i diplomatici accreditati presso la Corte borbonica. I luoghi, con l’andar del tempo, dovettero piacergli particolarmente tanto da spingerlo ad edificarvi la propria villa.

Villa Moliterno

Villa Moliterno

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  1. Giuseppe D’Angelo, I luoghi della memoria, Nicola Longobardi editore, 1990.

Una bella Mostra Estiva

Una bella Mostra Estiva

di Giuseppe Zingone

È l’estate del 1938, Castellammare si prepara ad una bella mostra di pittura, voluta da alcuni stabiesi, il cui unico interesse è il bene della città delle Acque; l’anno d’esordio di queste gare di pittura risale a quattro anni prima, era il 1934.

Gennaro Villani, Il Castello

Spesso ci siamo chiesti come mai la notorietà di Castellammare si sia spenta tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso (potremmo fermarci al terremoto). Una città sempre indaffarata così la descrive Giuseppe Marotta, tanto turistica, quanto industriale, dove queste due anime in antitesi tra loro, convivevano serenamente. Con mio padre abbiamo spesso affrontato l’argomento, gli mancava il fiato quando parlava della vecchia città, delle serate estive, della musica sulla Cassarmonica, la bella Villa con i suoi platani, le terme, l’acqua minerale, il vero oro della Città.

Non voglio mentire, ma credo che Castellammare non avrà mai più tempi migliori, non ha la gente giusta, né tra i cittadini, né tra i presenti ed i futuri amministratori, è in ginocchio, abbandonata, violentata quotidianamente. Eternamente in bilico tra chi chiude gli occhi per non vedere e chi continua a viverla come se non ci fosse un domani.

E allora perché continuare a scrivere su Castellammare, a fare ricerca? Voglio continuare a credere, sperare, forse ad illudermi, che la gente del posto più bello del mondo dove sono nato, ha ancora tante cose da raccontare, al di là dei propri problemi e limiti. In fondo, in fondo le mie radici sono profonde.

L’illustrazione italiana, 1938, pag. VIII

Estate 1938

Una bella Mostra estiva è stata organizzata, sotto gli auspici del Commissario del Comune, a Castellammare di Stabia.
Nessun luogo può dirsi, invero, adatto ad accogliere i migliori rappresentanti della giovane
arte napoletana, più di questo, da cui Giacinto Gigante trasse tante ispirazioni alla sua arte luminosa e anticipatrice.
Partecipano alla Mostra con opere varie e pregevoli i pittori Brancaccio, Casciaro junior, Ciardo, Cortiello, Chiancone, D’Angelo, Girosi, Striccoli, Viti, Verdecchia, Girace e lo scultore Tizzano. Eccellenti nomi, come si vede, e tra i migliori, si ripete, dell’odierna scuola napoletana“.1

Articolo terminato il 22 maggio 2024


 

  1. L’Illustrazione Italiana, Anno LXV, numero 37, dell’11 Settembre 1938, XVI, pag. VIII.