Archivi autore: Giuseppe Zingone

Informazioni su Giuseppe Zingone

Collaboratore di Redazione Insegna a Roma, vive a Ladispoli, nutre molti interessi, come: la storia religiosa, l'arte, la fotografia e l'amore per la sua Castellammare di Stabia.

Racconti, cantilene

Antica cantilena stabiese

Antica cantilena stabiese

di Enrico Discolo

Racconti, cantilene

Caro Maurizio, ho letto con piacere la filastrocca segnalata dalla gentile signora Clara Renzo (rif.: rubrica “Cantilene e Filastrocche“) e devo dirti che anche la mia nonna materna, Assunta Donnarumma, mi cantava e ci istruiva a fare il gioco infantile che veniva accompagnato dalla suddetta cantilena.
Lei, soprattutto, cantava questa filastrocca nel suo forno di via Bonito vicino (‘o pertuso d’‘o Cugnulo). Quel forno era molto famoso nella Castellammare dell’800 e ‘900 perché suo padre, il mio bisnonno, Peppino Donnarumma, faceva il saporitissimo pane cosiddetto “Pane e Sarravolle”. Infatti da tutta Castellammare e dai paesini confinanti arrivavano a Via Bonito col Tram per comprare questo tipo di pane. La giovanetta Assunta Donnarumma, alle prime ore del mattino, poi, riempiva le ceste con le “Vascottelle di pane fragrante di Sarravolla” e le portava sul porto dalla signora Carmela che le rivendeva a sua volta (con le melanzane sott’olio, coi pomodori freschi e origano, con la “suffritta”, con le alici, con le “renghe” ecc.) ai paranzellari che partivano per la pesca e agli uomini di fatica dell’antico mercato. Prima di continuare, il flusso dei ricordi è come un fiume in piena, devo rivelarti un’altra curiosità, uno dei fratelli del padre di mia nonna si chiamava anch’egli Giuseppe e la spiegazione che mi è stata data da piccolo è stata molto semplice: i genitori dei due fratelli non sapevano che Peppino e Giuseppe in effetti era lo stesso nome… e mia nonna si divertiva molto quando cercava di spiegarmi che molte volte le carte legali dell’uno erano dirette all’altro e così viceversa. Ritornando alla filastrocca che mi è stata tramandata da nonna Assunta il gioco consisteva nel riunire nel retro del forno, dopo la giornata di lavoro, i bambini più piccoli della famiglia. Essi mettevano le mani sul tavolo, col dorso all’insù, formando quasi un cerchio. Quindi La giovane Assuntina con la sua mano girava intorno alle manine dei ragazzini pizzicandole al ritmo della seguente cantilena, che molto si avvicina a quella riportata dalla Signora Clara:

Pizzi, pizzi trangole,
La morte de Santrangole,
Santrangole e Pipine,
La morte ‘e Sarracine.
Sarracine faceva lu pane.
Tutte ‘e mosche s”o mangiavene.
Palla d’oro, palla d’ò’,
Chi è meglio esce fore.
Esce fore al mio giardine,
Pizza doce ‘e tagliuline.

Quando terminava la filastrocca veniva messo fuori gioco il bambino sulla cui mano veniva dato l’ultimo pizzicotto nel momento in cui veniva pronunciata la parola “tagliuline”. Poi si ricominciava da capo fino a quando l’ultimo bambino rimasto era costretto a fare una penitenza.
Tanto ti dovevo solo per la verità storica del testo. Cari saluti anche alla Signora Renzo che mi ha dato questa opportunità.

 

Lo strillone

‘O Strillone

‘O Strillone

di Michelangelo Gargiulo

Lo strillone

Lo strillone, immagine reperita dal Web

Nella storia contemporanea della vita di Castellammare, forse può starci anche questo breve racconto.

“‘O Matino, ‘o Matino ‘e Napule”. E’ così che “Ciccio ‘o giurnalista” strillava per le strade di Castellammare. Intorno agli anni 45/50, nei pressi di Piazza Monumento, appoggiati ad un piccolo banchetto, c’erano i quotidiani che Ciccio vendeva a gran voce, poi fu la volta di un grosso carretto, arricchito con svariate riviste; infine, visto che le cose andavano bene, impiantò un chiosco proprio vicino al negozio di De Meo. Ma Ciccio, che aveva un gran cuore, non strillava solo ‘O Matino, nel periodo dedicato alla Madonna, la mattina, di buon’ora girava per le strade di Quisisana (Fratte, Botteghelle, Sanità, ecc. ) per annunciare la buona novella: “Fratielle e surelle, ‘o Rusario ‘a Madonna”. Con quel che segue. Mi piace ricordare che forse zio Ciccio è stato l’unico “Strillone” di Castellammare.

Grazie per avermi letto. Miki

 

Villa Comunale

Giardino di luci

Giardino di luci

di Enrico Discolo

Villa Comunale

Villa Comunale

Questa mattina nell’osservare il cielo intravedo delle nuvolette rosa che vagano lente sul ponte azzurro. Così definisco l’arco della volta celeste che unisce idealmente la vetta del monte Faito a sud e la punta del triangolo del Vesuvio a nord. La brezza di mare increspa appena il golfo e fa oscillare gli alberi del litorale e della collina di Quisisana.
L’ampio seno di mare riverbera il prodigio dei colori di Castellammare. Il giro del sole ravviva il profilo montuoso di Pozzano e la linea d’orizzonte del Tirreno. La giornata estiva spande intorno fragranze di mare, fiori e lavande.
Nelle borgate delle falde l’atavico lavoro dei contadini segna il ritmo delle ore e la corsa dei giorni.

Questa natura stabiese, così affascinante e suggestiva, mi fa immaginare la terra delle mie radici in un tempo antico e tanto distante dal mio quotidiano.
Desidererei vivere la quiete e la meraviglia, l’ambiente e i luoghi primordiali di una estate così remota. Il fantastico viaggio nel tempo mi farebbe comprendere l’essenza momentanea di quella fase stagionale e i personaggi e le trame di tante storie lontane.
Sono sicuro che il mondo di oggi, così comodo, ma carente di sentimenti e di valori, non sarà mai vagheggiato!
Purtroppo certe volte, ma da poco tempo, la bella stagione delle vacanze se ne va anonima tra le bizze climatiche del tempo e senza lasciare alcuna traccia. Da qualche decennio le stagioni sembrano stravolte nel loro ciclo naturale. Sovente, in primavera, nel mese di aprile, abbiamo visto il Vesuvio col cappuccio bianco di neve e la nostra montagna, il Monte Faito, con la vetta innevata. E’ pur vero che la primavera è la figlia dell’inverno! Ma nel secolo scorso, almeno fino agli anni settanta, ogni stagione era tale e non subiva né anticipi né posticipi delle altre e addirittura non capitava che l’inverno fosse caldo come l’estate. Già l’estate! Appena ieri le temperature sfioravano i quaranta gradi e oggi a pochi giorni dell’avvento autunnale il freddo anomalo ci fa abbandonare le spiagge e costringe a modificare con anticipo il cambio stagionale del nostro abbigliamento.
Mi affascina quindi l’idea fantastica di vivere una di quelle stagioni nella terra arcaica di Stabiae. Mi sentirei altresì appagato se mi ritrovassi tra le ville romane antiche in una splendida mattina di luglio generata nel giardino di luci tra le colline e il mare di Castellammare di Stabia.

Gita Scolastica III A

L’Istituto Tecnico Industriale Leonardo Fea

L’Istituto Tecnico Industriale Leonardo Fea di Castellammare di Stabia

a cura di Luigi Totaro, ex alunno

Visita d’istruzione alla Pirelli, 2 Anno di Corso, 1964

Per qualificare le Maestranze dei Regi Cantieri Navali di Castellammare di Stabia, fu sentita l’esigenza di istituire una scuola specifica, che nacque, probabilmente, nel “Trentennio”. L’edificio si trovò, all’inizio, al centro del Cantiere Navale. Giuridicamente era una scuola professionale, di durata triennale. Fu frequentata tra gli altri, dai fratelli Cuomo Vincenzo e Antonio, di Gragnano, figli del fu Alfonso, già fabbro ferraio nei Cantieri Navali, defunto nel 1932 e dai fratelli Salvatore e Ciro Serrapica, ora defunti, e figli del Capo squadra Catello, questi ultimi della frazione Messigno di Pompei. In un secondo momento la Scuola divenne Istituto Tecnico Industriale di durata quinquennale e assunse, credo, allora, la denominazione di “Leonardo Fea”. Essa non dipendeva dal Ministero della Pubblica Istruzione, ma dall’Ente IRI Naval Meccanica, ed ebbe la sede posta all’entrata del Cantiere Navale. Il fabbricato oggi è occupato dai terremotati. A volere quest’Istituzione fu il suo fondatore, il Prof. Luigi Greco che fu anche l’anima della Scuola stessa. Noi alunni, in perfetta tuta blu, abbottonata fino al collo e con la targhetta in alluminio sul taschino con la scritta “I.T.I. L. Fea”, disciplinati e corretti, entravamo nelle aule per le lezioni antimeridiane, previa “rivista” del Preside che, se la tuta non era in ordine o era sbottonata… “domani vieni accompagnato” diceva il Preside… “Preside, ma io…”, “..un giorno di sospensione”, “ io volevo solo dire…..”, “…allora due giorni di sospensione” ; il ciuffo dei capelli era un po’ troppo evidente,…un taglio con le forbici da parte del Preside e tutto era sistemato! Chi non resisteva a quella disciplina o era bocciato entro i primi tre anni, abbandonava la Scuola per un’ altra; si poteva ripetere una sola volta o il quarto o il quinto anno. Dopo la didattica mattutina, si andava a mangiare alla mensa aziendale verso le 13,30. “Il cibo non è di mio gradimento, non mi piace il minestrone!” e il Preside che vigilava con i suoi assistenti, faceva mettere nel piatto un’altra porzione… Dopo la pausa pranzo e un po’ di ricreazione, vicino al mare, le lezioni riprendevano nei reparti del Cantiere stesso: Fucina al 1° anno, Macchine Utensili nel 2° e 3° Corso, e, negli ultimi due anni, l’esperienza diretta nella grande Sala “a tracciare”, dove sulle lamiere si disegnavano parti delle sagome delle fiancate delle navi in scala 1:1, che poi passavano al taglio con la fiamma e successivamente montate sullo “scafo” sorrette dalle gru e opportunamente saldate. Severità, autorevolezza…, non credo,… con il passare del tempo avevamo imparato a cogliere, in quello stile di vita del nostro Preside, la finalità educativa e didattica ( mi sto esprimendo, ora, con la deformazione professionale di trent’anni di insegnamento di matematica e scienze nelle scuole medie) e, quando eravamo giunti alle soglie del Diploma, diventava sempre più trasparente l’affetto di padre che il Prof. Luigi Greco nutriva per noi; infatti, non solo avevamo imparato a mangiare il minestrone della mensa, ma a lui ci affidavamo per lenire il patema dell’Esame di Stato, in cui si portavano tutte le discipline e un po’ anche del programma del triennio. Durante l’anno si eseguivano visite d’istruzione in alcuni stabilimenti. Finito l’anno scolastico tutti andavano in gita a Torregaveta e si pranzava alla “Casina Rossa”.

Gita Scolastica III A

Gita scolastica a Torregaveta: 3° Anno, 1965: la mia classe 3 “A” attorno al Preside Greco, staccato con gli occhiali il Prof. Cacace di Matematica.

Il gruppo con il docente di Inglese Professor Tarallo

Il gruppo con il docente di Inglese Professor Tarallo

Il gruppo con la docente di Italiano la Professoressa Mangia Rosetta.

Il gruppo con la docente di Italiano la Professoressa Mangia Rosetta

Alcuni allievi della III A

Alcuni allievi della III “A”: Gargiulo Giovanni di Piano di Sorrento; Persia Alessandro, Barba Mario, Nocera Raffaele, Russo Antonio, Legno Alfredo tutti di Castellammare di Stabia; al centro Luigi Totaro di Gragnano e infine Porpora Vittorio e Vingiani Salvatore di Castellammare

Per la festa del Mak pi 100

Biglietto d’invito, il Preside che ci salvava dalla Commissione esaminatrice

Per la festa del Mak Π 100, solevamo, sul biglietto d’invito, porre sempre lo stesso tema grafico.

Nell’anno 1967 quando mi diplomai, gli alunni delle sole due quinte “A” e “B” mi affidarono il bozzetto che qui riporto.

All’interno del biglietto noi diplomandi del “Fea” aggiungemmo:

Or che trepidando in quest’attesa
ci prepariam per la fervente ascesa
volgiam la testa in sù
mirando il capo bianco
che per un lustro o forse più,
ha detto no alle nostre virtù:
chiome accorciate, scarpette fidate,
libri venerati, divertimenti scordati.
Angoscie e delusioni, provette sospensioni,
abbiam di che riempire i muri di un salone,
abbiam di che creare una gran confusione
che tutti quanti investa
nel corso della festa.

Si andava al “Mak Pi” in abito scuro e con damigelle “pescate” tra le sorelle o cugine giacché l’Istituto era solo maschile.
Conseguito il Diploma, l’inserimento era facile, la Commissione Esaminatrice (composta anche da membri dirigenziali dei più grandi Cantieri navali italiani) e il Preside indirizzavano i diplomati nelle industrie cantieristiche.
Io stesso ebbi l’invito nei primi d’agosto del 1967 a recarmi a Monfalcone (Trieste) come disegnatore navale. Non accettai perché mi scrissi a Scienze Naturali conseguendo la Laurea nel 1972.
Dopo il 5° anno c’erano due Corsi di Perfezionamento: in Costruzioni Navali Metalliche e in Macchine Termiche. Gli allievi che si arricchivano di queste successive conoscenze, erano pagati, come mi racconta il Prof. Dott. Albertino Sabatino di Messigno, ora in pensione, che frequentò anche il sesto anno e, in merito, riceveva, verso la fine degli anni cinquanta, lire 50 mila mensili. I Corsi finivano con una gita gratuita a Corinto in Grecia.
Il Diploma era abilitante ed era, se non erro, l’unico abilitante per l’insegnamento delle discipline tecnico-pratiche nei Professionali.
Dopo la Laurea ho qualche volta scritto al Preside che non solo mi ha risposto, ma ha rivelato la sua gioia di aver visto tanti suoi “figli” realizzati.
In una sua risposta, di cui accludo la missiva, si può leggere:

“Carissimo prof. Totaro, con infiniti Auguri per te ed anche per i tuoi cari, rispondo alla tua lettera giunta il 30/6 (per il S. Luigi del 1980). Grazie di cuore per le tue parole affettuose che paternamente ricambio come sempre a tutti gli allievi del “FEA” che ricordano ancora il preside padre. A te, sempre tantissimi Auguri per il tuo avvenire. Luigi Greco”.

Il mio avvenire”, che mi era stato augurato, è dipeso anche da quelle prove, da quei piccoli, ma importanti sacrifici a cui ci ha abituato l’amato Preside Greco…
Noi alunni del “FEA”, forgiati dal carisma del suo fondatore, e dagli insegnamenti di ingegneri, a volte, superlativi, non siamo stati più fortunati degli altri, ma abbiamo imparato a superare gli ostacoli con più facilità e con l’aiuto di Dio. Se oggi, tranquillamente, con i capelli grigi viviamo gli albori del terzo millennio, dobbiamo essere riconoscenti anche a coloro che, come il Preside Luigi Greco, negli anni trascorsi al “Leonardo Fea” hanno saputo plasmare i nostri animi al bene, lavorando e insegnando con onore, senza medaglie, ma con in mano il cuore.

Anno 2004 alcuni anni dopo riuniti grazie all’interesse di Aiello Andrea

Anno 2004 alcuni anni dopo riuniti grazie all’interesse di Aiello Andrea1

Anno 2004 – alcuni anni dopo riuniti grazie all’interesse di Aiello Andrea2

Anno 2004 – alcuni anni dopo riuniti grazie all’interesse di Aiello Andrea3

Scoglio di Rovigliano

Panorama

Panorama

di Enrico Discolo

Scoglio di Rovigliano foto Giuseppe Zingone

Scoglio di Rovigliano foto Giuseppe Zingone

Nelle mattinate fredde e terse di tramontana, dietro i vetri della veranda sul mare, mi piaceva spaziare con lo sguardo nella piccola baia di Porto Salvo.
C’era molto da esplorare: le gru imponenti del cantiere navale, la marina di Via Duilio, i Magazzini Generali, il lungomare, il campanile della basilica di Pompei svettante nella pianura del Sarno, Torre Annunziata e il Vesuvio che come un saggio e vecchio nostromo battagliero aveva smesso persino di fumare.

Seguivo le onde spumeggianti del mare provenienti dall’isolotto di Rovigliano. Esse, mulinate dalla furia del vento, diventavano senza interruzione più alte e massicce fino a frangersi come fuochi d’artificio contro le murate del porto, la torre e il faro della punta del molo superandoli con smisurate cascate vaporose di schiuma.
Quel brindisi tra la mareggiata e la solitaria lanterna sommersa da nuvole di merletti effervescenti era per me effettivamente uno spettacolo avvincente.
I cavalloni che superavano il muraglione avanzavano per l’ultimo approdo fino ai ponti verdi dei “silos”: tre compassi mastodontici adibiti al carico e scarico delle navi mercantili. Nelle mie fantasticherie essi assumevano la sagoma di un veliero pronto a sfidare il mare nelle giornate di tempesta.
Il passaggio del treno per il quartiere “Acqua della Madonna” appariva inusuale, ma per noi residenti era diventata una cosa normale, addirittura faceva parte itinerante del paesaggio. Il treno merci che trasporta ancora oggi materiali di metallo per le navi in costruzione, attraversa il lungomare di tutta la città, dalle ferrovie dello Stato fino al cantiere navale. La vaporiera lanciava dense nuvolette di fumo bianco che, per la temperatura rigida, si condensavano istantaneamente, assumendo le forme più strane e bizzarre. Figure di gnomi e oggetti volavano in ordine sparso dalla marina di via Duilio fino alla cupola della chiesa di Porto Salvo e scomparivano oltre il campanile in una corsa pazza verso il cielo.
Nella piazzetta dell’Acqua della Madonna potevo osservare dal terrazzino della mia casa la geometria degli alberi disadorni che s’incrociava con i tavolini e le sedie allineati. Tutto restava in disuso nell’attesa di tempi migliori ovvero di giornate e serate più lunghe, ma generose di vita.
Quel clima invernale solitamente freddo, nonostante la convinzione di un Sud dal clima più mite, mi procurava una malinconia a dir poco strana che riuscivo a respingere ricreandomi nella mente i suoni dei posteggiatori che si avvicendavano nel boschetto durante i periodi estivi pieni di residenti e villeggianti che affollavano il borgo marinaro detto anche, da alcuni forestieri, la Santa Lucia di Castellammare di Stabia.
Immagini e pensieri di un giorno invernale emersi nel ricordo di quella terrazza. Un panorama di vedute care, di tante emozioni vissute, da rivivere con nostalgia, conservare e tramandare agli altri. Era la mia casa che un tempo stava li, in un palazzo che oggi non esiste più.