Archivi autore: Giuseppe Zingone

Informazioni su Giuseppe Zingone

Collaboratore di Redazione Insegna a Roma, vive a Ladispoli, nutre molti interessi, come: la storia religiosa, l'arte, la fotografia e l'amore per la sua Castellammare di Stabia.

Come una volta…

Come una volta…

di Libera Coppola

Salita I Marchese de Turris (foto V. Cesarano)

Introduzione e brevi note sull’autrice
Mi chiamo Libera Coppola sono nata a Castellammare nel 1955 nel vico delle Mammane in via I de Turris (proprio a fianco al grande vico S. Catello), dopo aver vissuto lì l’infanzia e anche parte dell’adolescenza, mi sono trasferita con la famiglia in viale Europa precisamente zona (Summuzzariello), poi ventenne, sono andata a vivere a Sorrento dove attualmente vivo. Non ho mai dimenticato di essere stabiese e grazie a Dio ho buoni motivi per venirci spesso e viverne con piacere i miglioramenti.
Oggi, nel tempo libero scrivo di Castellammare e questo mi diverte molto, a volte scrivo e rido ripensando al passato e a certi personaggi, venditori di cose che non esistono più, come “il pane con la zuffritta di zia Carulina” con cui a volte facevamo colazione la mattina, “Carulina” che era anche una cognata di mia nonna, posizionava il suo carrettino davanti alla porta della sua bottega proprio tra il vico S. Catello e il vico delle Mammane, in 15 mq aveva un supermercato con la differenza che cambiava spesso merce a seconda degli affari che trovava quando si recava a Napoli e ovviamente a seconda delle stagioni. Ritornando al racconto che vi ho spedito è la vera storia di una mia prozia: Teresa Esposito di Gennaro, nata intorno al 1903 da giovane aveva “‘o puosto” di frutta e verdura al mercatino di S. Vincenzo poi lo cedette per darsi alla riffa, lavoro certamente più redditizio e movimentato. La storia è scritta di mio pugno è fa parte di una raccolta di altri scritti sulla vita che si svolgeva a Castellammare negli anni cinquanta / sessanta (alcuni dei quali sono ancora da terminare).
Questo è un regalo che voglio lasciare alle mie figlie che nonostante siano nate sorrentine, frequentano Castellammare assiduamente e “per forza di cosa”, sono anche figlie del progresso.

…Inalando i fumi dell’acqua calda aromatizzata dai fuscelli di malvarosa, menta, finocchio ed altre erbe secche che aleggiavano dal catino di ferro preparato per il bagnetto, poggiai il mento sul bordo e con le mani agitavo l’acqua che diveniva sempre più giallina, poi chiudendo gli occhi sospirai; avrei voluto rimanere così per sempre.
Era nato mio fratello da pochi giorni, ma solo oggi mi avevano permesso di tornare a casa per vederlo. La settimana prima fui spedita a casa della giovane zia Gina ancora senza figli.
Non mi ero annoiata, tutt’altro, ma avrei preferito rimanere a casa con mia madre, assistere all’arrivo del fratello ed essere io a cantargli la prima ninna nanna. Vedendolo adesso, adagiato come un principe in mezzo al grande letto dei miei genitori, mi lasciava smarrita. Mi sentivo un’estranea in quella stanza che fino a qualche giorno prima era stato il mio regno saltando e facendo capriole su quel letto che adesso era vestito a festa come una chiesa prima di una cerimonia. Mi invase un senso di tristezza.
Timida mi avvicinai e con delicatezza accarezzai il ricamo del lenzuolo nuovo, intravedevo il suo colore azzurrino dai trafori della coperta di filo bianco.
Era bello. Affondai il faccino nel profumo di bucato fresco del cuscino. La stanza aveva anche un nuovo odore: sapeva un po’di caglio e un po’ di canfora.
Poggiai le mani sul comodino e spingendosi sulle punte dei piedi guardai i tanti oggetti nuovi: il biberon, le forbicine, il contagocce, varie bottigliette contenenti liquidi colorati e pastigliette. Le fascette di garza e di stoffa erano di un bianco immacolato, però, mancavano le caramelle all’anice che la mamma da un po’ di tempo scioglieva in bocca prima di dormire.
La mamma era pallida e parlava piano, non aveva più il pancione caldo e rotondo accanto al quale la sera mi addormentavo stringendo a lato la mano di mio padre: “Per non lasciarlo solo” mi sussurrava mamma, come un segreto, in un orecchio.
Mentre osservavo indisturbata, varcò la soglia della porta una donna dall’aspetto giunonico, ma fine. Portava un cappello azzurro dalla falda larga decorata con grossi fiori primaverili di organza e seta. Era la levatrice Anna Consalvo, per tutti “comare Consalvo”, era lei che dava inizio al rito del primo bagno di Faustino; così i miei genitori avevano deciso di chiamare mio fratello: Fausto, come il giorno in cui era nato.
Nei giorni che seguirono ritornò spesso la comare Consalvo: nessuno la chiamava Anna forse per il rispetto e per l’autorità che l’investiva. Il suono del suo nome mi rievocava immagini di atti gloriosi che avesse compiuto: le “guerre” vinte col diavolo che tentava di rubarle ogni volta i suoi bambini.

Madonna di Portosalvo a Castellammare di Stabia

Madonna di Portosalvo a Castellammare di Stabia

Pensavo ad una Madonna, quella di Porto Salvo e nella mia fantasia come le Madonne la colmavo d’immortalità. Dilungavo la sua vita nel tempo, mamma di tutte le mamme, aveva fatto nascere tanti bambini, un fiume di bambini, mio fratello, me, prima ancora le mie cugine grandi, e sicuramente aveva fatto nascere pure mia mamma, mia nonna, la madre di mia nonna e così di seguito, pensavo alla familiarità che avesse col Padre Eterno per quanto riguardava il mistero della creazione dei bambini.
Quando la sentivo arrivare le correvo incontro, le prendevo la mano guidandola fino alla poltrona e poi le sedevo in grembo. La comare Consalvo, aveva sempre storie da raccontare, storie di battaglie o di guerre, di donne “COMBATTENTI” che avevano partorito e bambini venuti alla luce per opera santa, o ancora le difficoltà di chi ancora naufrago in acque verdi e cordoni stretti al collo, stavano incontrando.
Nel raccontare, ella mi sistemava i capelli riccioluti dietro le orecchie, insistendo anche con quelli ribelli che azzeccati alla pelle dal sudore, proprio non ne volevano sapere di rientrare nelle file. Poi mi baciava la tempia calda e mi accarezzava: “La mia stellina”, mi diceva: ”La mia numero uno”.
Ed io privilegiata dalla posizione non volevo perdere neanche una parola delle storie che raccontava, anche se non sempre le capivo, infatti, spesso chiedevo: “E perché?…E perché?…”. Nessuna risposta mi veniva data e per me queste grandi avventure tra la vita e la morte diventavano ancora più misteriose e affascinanti, specialmente quando qualche lacrima rigava la sua guancia.
Fattami più grande, varie volte mi è capitato di correre a casa sua, distanziava solo alcuni portoni dalla mia. La chiamavo ansimante dal fondo del cortile: “Comare Consalvo; comare Consalvo! Mia madre dice che dovete venire subito!”, e lei: “Chi sei? A chi sei figlia?” Rispondendo dalla sua loggetta piena di piante, “Sono Angelina la figlia di Maria”, “Va bene, arrivo subito, ma fai preparare dei fiaschi di acqua calda!”
Io correvo e riferivo, ma la comare era già dietro di me con la sua grande borsa scura da dottore piena di aggeggi strani. In queste circostanze mi facevo prendere dall’eccitazione e insieme a i miei cugini, cominciavo a fasciare con le pezze da cucina qualsiasi oggetto somigliante vagamente ad un bambino, poi, con una vecchia borsa di cuoio imitavo la giunonica comare Consalvo. Gli altri cugini strillavano in coro cercando di imitare il nascituro che in altre occasioni avevano sentito piangere, facevamo insieme un casino tale che qualcuno buscava pure. Purtroppo sul più bello, quando le donne adulte di casa che aiutavano la comare, sudate e stravolte, uscivano e poi rientravano veloci nella stanza della partoriente, portando i primi fiaschi di acqua calda e gli svariati asciugamani riscaldati sopra lo scaldino del braciere, a noi bambini ci mettevano alla porta senza sentir ragione. La nostra nuova postazione diventava il grande terrazzo dall’asfalto nero.
La comare Consalvo occupata vicino alla partoriente per il tempo necessario, a volte anche lungo, riappariva solo a nascituro lavato, fasciato e addormentato in mezzo al grande letto, il suo aspetto non era più lo stesso di quando era arrivata, sul suo viso si leggevano i segni della dura battaglia.
Veloci come grilli io e i miei cugini saltavamo sul letto per far la conoscenza e dar il benvenuto al nuovo membro della banda; le donne accorrevano proteggendo il neonato dall’invasione un po’ barbarica: “Fate attenzione è delicato, guardatelo senza toccare, guardate quanto è bello!”
Ma a me non sembrava poi così bello e vedendo le dolci attenzioni rivolte al piccolino, mi prendeva un po’ la gelosia e per dispetto attaccavo coi perché dei miei dubbi: “Per dove era passata la cicogna visto che dal terrazzo avevo setacciato ogni centimetro di cielo?” e poi ribadivo che di nascosto, all’arrivo della comare Consalvo, le avevo controllato i tasconi della borsa, ma li avevo trovati pieni di tutt’altre cose.
La volta che successe di partorire alla zia Gina, ero diventata così curiosa che mi nascosi sotto il suo letto e dallo specchio dell’armadio che si trovava proprio di fronte al letto vidi tutto lo spettacolo.
Quando le donne se ne accorsero e mi tirarono fuori con la forza, ero svenuta dalla paura; loro mi fecero prima annusare l’aceto di vino, poi quando mi ero rinvenuta rossa dalla vergogna, mi fecero bere un bicchierone d’acqua zuccherata.
Non ho mai fatto parola con nessuno di questo mio segreto, ai cugini e ai fratellini ho sempre raccontato che nel frattempo che aspettavo mi ero addormentata e mi ero persa l’occasione di scoprire la magia con la quale la comare aveva tirato fuori il bambino dalla borsa di cuoio.
Infine la comare concludeva le sue visite il giorno prima del battesimo e se il nascituro era femmina le effettuava la foratura dei lobi delle orecchie usando un piccolo ago e un po’ di cotone bianco.
Quando sentii piangere l’ultima delle mie sorelle per il dolore, mi sentii male, ma oggi sono contenta di avere la possibilità di indossare le belle toppe d’oro che la nonna mi ha lasciato.

Ricordi impolverati, liquoei anni '40 e '50. Immagine tratta dal web

Sessantadue anni di Festival di Sanremo

Sessantadue anni di Festival di Sanremo

di Catello Nastro

A fine gennaio del 1951 abitavo ancora a Castellammare di Stabia, mio paese natìo, in provincia di Napoli, in vicolo Mantiello, una strada popolare ma graziosa che confluiva “ammiezz‘o Llargo ‘e Fusco”, una piazza bellissima perché a quel tempo piena di fervore di attività artigianali, commerciali, tra cui molti ambulanti, ma innanzitutto piena di vita e di contatti umani. La televisione, naturalmente non esisteva ancora, ed il “Festival della Canzone Italiana” o “Festival di Sanremo”, si poteva ascoltare solo per radio. Una nostra vicina di casa, ricordo, aveva una grandissima radio provvista anche di grammofono nella parte superiore e mobile bar, costellato di specchietti, nella parte centrale. Dentro al mobile si trovavano una dozzina di bottiglie di liquore, senza liquore ma riempite di acqua colorata secondo il colore del liquore che avrebbe dovuto contenere. Solo per far vedere, insomma!!!

Ricordi impolverati, liquoei anni '40 e '50. Immagine tratta dal web

Ricordi impolverati, liquori anni ’40 e ’50. Immagine tratta dal web

La serata di primavera era piacevole e la buona donna per permettere anche agli altri abitanti della via di ascoltare il primo festival della canzone italiana di Sanremo, abitando al piano terra, in un basso, in napoletano “’O vascio”, come la famosa canzone lanciata dal compianto Mario Merola, faceva spostare la radio sul marciapiedi, un filo di antenna che andava fino al balcone del primo piano dove era attaccato alla ringhiera per una migliore ricezione e “scannetielli”, panche e “siggiulelle” per permettere agli amici in parte, invitati, proprio per l’evento radiofonico che, come si dice oggi, aveva una notevole “audience”. C’era chi divorava lo sfilatino con la frittata o i pomodori, chi stuzzicava lo stomaco con noci, nocelle, arachidi, chi un mezzo piatto di pasta e fagioli rimasto dal pranzo. Dovete sapere, a proposito, che quando le massaie cucinavano a pranzo la pasta e fagioli, abbondavano per proporla come menù unico anche per la sera o magari il giorno dopo. “’A pasta scarfata” non era altro che il bis del primo piatto riscaldato, avanzato dal giorno prima. Altro che partita di calcio… I commenti non finivano mai. Il tifo per questo o quel cantante, sia maschio che femmina, non terminava nemmeno a tarda sera e si protraeva anche per alcuni giorni. La prima edizione del Festival di Sanremo la vinse Nilla Pizzi, con la famosa canzone “Grazie dei fiori”. Il giorno dopo per tutta la giornata, dai bassi, dai balconi e dalle finestre al primo piano ed oltre, si sentiva la canzone che, anche in seguito ebbe enorme successo. Non è che si sentiva perché era stata registrata. A quei tempi un registratore a bobina costava quasi quanto un’auto. E la radio non si trovava in tutte le case. Il 21 ottobre di quello stesso anno mi trasferivo con la famiglia ad Agropoli. Ricordo che Nilla Pizzi vinse anche la seconda edizione, quella del 1952, con la canzone “Vola colomba”. Di questo evento non ricordo nulla. Sono passati sessanta anni: sia al Festival di Sanremo che per Catello Nastro. Nel 1968 mi trasferisco a Torino e nel 1973 vengo chiamato nella Giurìa di “Stampa Sera” nel salone del famoso quotidiano Piemontese. Questa volta seduto comodamente in poltroncina con piano scrittoio per gli appunti, cena, visita dello stabilimento e la prima copia de “La Stampa” appena sfornata dalle gigantesche rotative. Era già passata l’una di notte. L’articolo sulla “Stampa” appena edita recitava:” La giuria di “Stampa sera” ha votato Milva, la “pantera” di Goro cantante e diva cresciuta a Torino, al secondo posto Peppino di Capri ed al terzo Umberto Balsamo. La giuria Torinese era composta da venti persone (cinque impiegate, quattro impiegati, tre casalinghe, due studentesse, un agente di commercio, un operaio, un autista, un geometra, un ragioniere, un critico d’arte, cioè il sottoscritto). Erano appena cinque anni che stavo ad insegnare in Piemonte e la mia passione per l’arte mi occupava tutto il tempo libero. Avevo già pubblicato alcuni libri d’arte e sull’elenco telefonico risultava anche questa qualifica, peraltro da me richiesta. Milva, che ammiravo moltissimo, della quale avevo molti dischi, abitava allora a Leinì, confinante con San Francesco al Campo, proprio sotto la pista di decollo dell’aeroporto di Caselle dove ho sempre insegnato nei tre lustri di permanenza a Torino. Da allora, cioè dalla prima edizione del 1951, sono trascorsi più di sessanta anni. Dall’edizione del marzo 1973 circa quaranta anni. L’edizione del 2012, penso, la vedrò con un altro spirito. Le polemiche già iniziate, il gossip e la pomposità eccessiva, non la tollero volentieri. I testi e la musica delle canzoni passano in secondo piano. Sul palco le luci, le riprese, i colpi di scena, donne scollacciate, battute piccanti se non addirittura volgari, scenografie dinamiche e colpi di scena, fanno passare in secondo piano le canzoni. Ma una notizie lieta, che mi terrà inchiodato davanti alla TV, è il nobile gesto di Adriano Celentano, grande artista, che ha deciso di devolvere in beneficenza tutto il suo compenso. Bravo Adriano, dal centro storico di Agropoli, nel Cilento, in provincia di Salerno, ti arriverà un lungo applauso per il tuo gesto, nobile, bellissimo, degno della massima ammirazione, che lascia ancora sperare per il futuro.
Catello Nastro

Ritratto Carla Caccioppoli

Carla Caccioppoli Imparato

Carla Caccioppoli Imparato

di Gioia Bozzaotre

Ritratto Carla Caccioppoli

Ritratto Carla Caccioppoli

Caro Maurizio, guardando le foto che ti ha inviato la signora D’Orsi, relative al teatro degli anni ‘30, ho riconosciuto, nella 2° foto, mia nonna. La donna col foulard in testa è la signora Carla Caccioppoli Imparato, “la mitica”, purtroppo deceduta l’anno scorso, all’età di 93 anni (era del 1914). Mia nonna era pianista, organista, cantante, attrice e autrice.

Sposata con Francesco Imparato – don Ciccio, decano dei fotografi stabiesi e accompagnatore della Juve Stabia, figlio del Dott. Comm. Salvatore Imparato (da te citato nei personaggi illustri stabiesi), era madre di 5 figli, nonna, bisnonna e trisavola di 50 nipoti, molti di loro musicisti, ospiti l’anno scorso della trasmissione Festa Italiana. A pianoforte la nonna poteva suonare per ore perché aveva un repertorio così vasto, che spaziava dalla canzone napoletana alle operette, dalla musica leggera a quella lirica. Organista di tutte le chiese di Castellammare, ma soprattutto di quella di Scanzano e della Sanità. Con le sue Ave Maria, ha animato il rito del matrimonio della maggior parte delle coppie stabiesi dagli anni ‘30 agli anni ‘90. A Scanzano era per tutti la sig.ra Carla che animava la dodicina all’Immacolata aspettando “Fratielle e surelle”, la novena a Gesù Bambino e la Messa di mezzanotte. Con quei canti antichi e bellissimi, che così bene sapeva suonare e cantare, dava un fascino particolare al Natale.
Dicevo che la nonna era attrice, ebbene sì, è stata attrice di quel teatro antico stabiese e si gloriava nel dire che era stata la “Mirandolina” della Locandiera di Goldoni.

Foto di scena

Foto di scena

È stata anche autrice di molte canzoni e poesie, tra queste Quisisana.

Quisisana

Quisisana

 Ma la nonna è stata soprattutto, per ben sessant’anni, una donna innamorata di suo marito, il suo  bel comandante…

Francesco Imparato

Francesco Imparato

 …a cui dedicò tante canzoni e che non voleva la lasciasse nemmeno un momento, tant’è che guarda un po’ che fu capace di fare in tempo di guerra: Ascolta il commento

Intestazione

Intestazione

Giornale 1

Giornale 1

Giornale 2

Giornale 2

…e il superiore mandò in licenza mio nonno con un messaggio privato per la nonna: “Cara signora Carla, visto che ha tanto freddo, le mandiamo la “fornacella” per potersi riscaldare”.

 

Carla Caccioppoli Imparato

Carla Caccioppoli Imparato

Concludendo, la nonna era mitica, non vorrei esagerare era unica, con la sua musica esprimeva tutto il suo amore per Dio, per la vita e per l’amore. Per ricordare la signora Carla Caccioppoli Imparato.

Sua nipote Gioia.

 

 

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Ll’acquaiuolo

Ll’acquaiuolo

Si ringrazia Margherita Barbato, autrice del presente lavoro, per la gentilissima fattiva collaborazione

acquaiuolo

Ll’acquaiuolo, Ciro Lo Schiavo e il suo fedele Barone

Mi chiamo Ciro Lo Schiavo e sono nato a Castellammare di Stabia il 21 Marzo del 1924. Per tutti però sono sempre stato “Giritiello ll’acquaiuolo”, soprannome che mi è stato attribuito in virtù del particolare mestiere di venditore ambulante di acque minerali da me svolto per circa 30 anni.
La vita all’epoca era molto difficile e il lavoro dipendente di carpentiere non mi consentiva di mantenere una famiglia molto numerosa, composta di 9 persone.
Da qui l’esigenza, verso la fine degli anni ’60 di inventarmi un lavoro indipendente effettuando un investimento minimo, che mi permettesse di far fronte alle esigenze della mia famiglia.
Per intraprendere questo lavoro, comprai un carretto a mano con delle damigiane da 20 litri .
Il lavoro iniziò a rendere da subito e ciò mi consentì di investire ulteriormente, facendomi costruire un carretto più grande, comprai un cavallo, degli attrezzi adeguati per la manutenzione del carretto e cosa più importante, acquistai damigiane di diversa capacità: da 35, da 10, da 5 litri oltre alle bottiglie di vetro.
La mia giornata di lavoro iniziava prestissimo, alle 4 del mattino; a quell’ora mi recavo nella stalla di Vico Cantore, un vicolo cieco di Via De Turris, dove avevo il cavallo, il carretto e le damigiane.

Le mie prime attenzioni erano rivolte al cavallo “Barone”, anche se nel corso degli anni si sono susseguiti diversi cavalli perché il lavoro era tale da richiedere forza ed energia.
Al mattino gli davo le cure di cui necessitava, per iniziare insieme con me una dura giornata di lavoro; gli davo da mangiare biada, fieno o paglia e strigliavo il pelo del suo mantello per renderlo lucido e liscio.
Una volta attaccato il cavallo al carretto e caricate le damigiane vuote, iniziava il mio giro. La prima tappa era alla fonte dell’acqua della madonna, dove riempivo le damigiane più grandi da 50 litri ; proseguivo fino al giardinetto, dove riempivo l’acqua acidula. Infine mi recavo alle terme, che all’epoca aprivano alle 6.00 del mattino, dove riempivo le damigiane da 35 litri .

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La stalla di Vico Cantore

Per questa operazione, mi avvalevo della collaborazione di mio figlio Franco, che sebbene fosse un ragazzo, aveva la responsabilità di alzarsi così presto al mattino e offrirmi il suo aiuto.

Le acque che offrivo ai miei clienti, per vari usi, ma in particolare per uso terapeutico e curativo, erano varie e per caratteristiche diverse:
Acqua Sulfurea Carbonica
Acqua Sulfurea
Acqua Magnesia
Acqua del Muraglione
Acqua Acidula
Acqua Media
Acqua S. Vincenzo
Acqua Ferrata
Acqua Stabia
Acqua Sulfurea Ferrata
L’acqua San Vincenzo, Media e della Madonna erano gradite per le loro proprietà dissetanti e rinfrescanti.
Le altre erano richieste dai miei clienti per prevenire e curare diverse malattie.
Mi contattavano persone provenienti da diverse località limitrofe, ma anche dal nord e turisti. In un certo senso facevo anche concorrenza alle stesse terme, per quelle persone che non potevano permettersi le cure termali. Quindi per tanti anni ho offerto un servizio pubblico molto importante. Poi dopo tanti anni, i clienti per me erano diventati tanti cari amici, di cui sentivo la responsabilità dell’acqua che offrivo loro per curarsi. Anche per questo motivo ero sempre a loro disposizione.
Complemento delle giare di vetro, che offrivo piene d’acqua fresca ai clienti, era rappresentato dai limoni, che utilizzavo come disinfettante.
Nel percorso giornaliero, attraversavo tutta la città dal centro storico al rione San Marco, dove facevo una sosta fissa davanti al cancello di Villa Gabola.
All’inizio della mia carriera una bottiglia d’acqua costava 20 lire, mentre un bicchiere 5 lire.
Negli anni ’80 il costo della bottiglia d’acqua era passato a 500 lire e quello del bicchiere a 200 lire. Questo fu anche il periodo in cui introdussi il monouso, per una questione di igiene. Fu una cosa che i miei clienti gradirono moltissimo, tanto che le mie vendite incrementarono ulteriormente.
Sicuramente il periodo di lavoro più redditizio era quello estivo.
Per garantire ai miei clienti che l’acqua fosse sempre fresca, compravo delle bacchette di ghiaccio, nell’antica ghiacciera di Via Denza, che tagliavo a pezzi, i quali venivano poi adagiati su dei sacchi di iuta, che a loro volta avvolgevano le damigiane.

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Giritiello ll’acquaiuolo e il suo caratteristico carretto dell’acqua

Durante l’estate, le persone si affollavano per bere le mie acque, tanto che c’erano giornate in cui non riuscivo a completare il giro, ma dovevo ritornare alle terme, all’orario di riapertura pomeridiana, per ricaricare le damigiane e ritornare così nel pomeriggio, nelle strade in cui mi ero assentato di mattino.
È stato sicuramente un lavoro molto faticoso, infatti generalmente la mia giornata lavorativa terminava alle 14:00 e solo nelle calde giornate d’estate, uscivo a vendere anche di pomeriggio.
Ma nel contempo mi ha riempito la vita di soddisfazioni fino alla decisione nel 1996, di porre fine alla mia carriera di acquaiuolo, alla veneranda età di 74 anni.

 

La Funivia

Faito

Faito

di Giuseppe Zingone

Notturno dal Faito (foto Maurizio Cuomo)

Notturno dal Faito (foto Maurizio Cuomo)

Passeggiando sul lungomare della Villa Comunale in direzione Hotel Miramare, non puoi evitare di notare che sullo sfondo di questo suggestivo panorama, oltre il mare si erge fiero il Vesuvio, questa montagna fumante, per usare un termine moderno oggi in “Stand by”, è per il cittadino stabiese (e dell’area vesuviana in genere) causa di turbamento e di continua preoccupazione, a motivo del suo passato funestato di vittime e degli interrogativi che suscita in tal senso il suo futuro e di conseguenza anche il nostro. L’eruzione del 79 d.C. raccontata da Plinio il Giovane è provvista di molte notizie riguardanti i moti viscerali della sua eruzione, gli scavi di Stabia sono invece i testimoni illustri e ancora viventi (anche se in cattivo stato e dimenticati) di tale avvenimento; secondo Giuseppe Marotta nel suo libro “L’oro di Napoli”, la morte rimane la più antica cittadina delle nostre terre e io aggiungo il “Vesuvio è stato spesso la sua falce”; penso che qualche anziano ricorderà sicuramente ancora la sua ultima passionale eruzione del 1944, la quale ci fa proferire senza ombra di dubbio che il Vesuvio è proprio napoletano… sa quando tacere e quando farsi ascoltare, il suo torpore non deve ingannare e ricorda proprio la gente di questa calda e burrascosa terra, che quando vuol farsi sentire ha bisogno di gridare la propria disperazione dal profondo dell’anima.

Allo stesso modo però, tornando indietro per quello stesso percorso iniziale, stavolta in direzione banchina ‘e Zì Catiello, non si può non guardare con ammirazione un altro fiero gigante; il Faito, il dirimpettaio naturale del Vesuvio. Il Faito suscita negli stabiesi sentimenti diametralmente opposti allo “Sterminator Vesevo” di leopardiana memoria: luogo ameno di passeggiate, delizia dello sguardo con la sua folta vegetazione che si inerpica sino alla cima, gioia dei fanciulli che ancor oggi con i genitori vi raccolgono le castagne nel periodo autunnale, suolo d’amore e di sfida per gli escursionisti. Anche il serafico Faito comunque ha vissuto le sue tragedie a volte naturali, ma spesso causate dall’incauta mano dell’uomo. Spesso Faito è stato anche lo spicchio di cielo dove i giovani hanno condiviso i loro primi amori, lo è stato per me e spero sia ancora così… Faito paradiso dell’ozio per chi vuol rigenerarsi o luogo di preghiera e di ascesi mistica come insegna la vita del nostro Santo patrono Catello e del suo fratello nella fede Sant’Antonino. Mi spingerei oltre dicendo che il Faito è un sacrario spirituale per l’animo umano, spesso sottovalutato, trascurato e ignorato dai suoi avventori ed amministratori. Aver cura di questa montagna dovrebbe essere un imperativo categorico per tutti, infinita risorsa naturale e perché no, economica di Castellammare di Stabia;

La situazione attuale:

Quisisana, il nostro accesso al Faito

Quisisana, il nostro accesso al Faito

Giungere in località Quisisana, cioè sui Boschi, è ancora agevole e da Castellammare ci si impiega un tempo assai breve sia con i mezzi che a piedi. Bisogna constatare però il cattivo stato in cui versa da anni la strada da Castellammare per il Faito, e quindi la sua non percorribilità con l’automobile, del resto ancora possibile a piedi per i più audaci. Ricordiamo la strada per Vico Equense in macchina o con l’autobus. Ma se davvero si vuole vivere un’emozione unica ed intensa non si può rinunciare alla funivia, solo otto minuti per percorrere un tragitto di quasi tremila metri e portarsi così a quota 1100 m sul livello del mare.

La storia: Sento l’acre odore del sudore mescolarsi a quello cristallino e dolce della montagna… D’estate spesso di Domenica frequentavamo il Faito, i miei genitori si adoperavano in cucina per preparare i cibi che poi infaticabili borsoni avrebbero trasbordato fino alla stazione della Circumvesuviana, a farci compagnia anche i mitici tavolini dal cui interno comparivano miracolosamente le sedie, sedie instabili come un edificio malfermo; avere un piatto (di carta) tra le mani, mangiare, e rimanere saldi su quelle sedute era come rimanere immobili durante un terremoto.

'A Panarella blu

‘A Panarella blu

Ah…. quando dico funivia intendo ‘a panarella blu, proprio quella che al superamento di ogni pilastro ti faceva planare il cuore nelle scarpe. Quella sulla quale mia zia Gina una volta fatta la prima esperienza, fermamente decise di non mettervi più piede, colpa di quei vuoti d’aria di cui ho appena accennato. Pensate che la nostra presenza sul Faito era talmente sistematica che ancora oggi rivedo con piacere una fotografia della Funivia che si trova nella pizzeria del caro amico Gaetano Cesarano e nella quale distintamente si vedono mio padre con mia sorella Annalisa in braccio e mia madre con me e mia sorella maggiore.

La Funivia

La Funvia della ex Pizzeria da Biagio

In genere ci si dava appuntamento alla stazione della Circumvesuviana ognuno col proprio fardello ed in più con la propria nidiata di cuccioli, naturalmente i tempi non coincidevano per tutti, ma avevamo un nostro punto di riferimento sul Faito. Il campo base andava raggiunto velocemente affinché nessuno occupasse il suolo che presumevamo aver ereditato per concessione divina ed al quale si accedeva da quella scala che ancor oggi fiancheggia la stazione a monte della funivia dove prendevamo posto ai piedi di alcuni pini che spesso ci hanno dato una mano a distendere un’amaca per la gioia dei più piccoli. I momenti di libertà che vedevano noi ragazzi gli attori principali della domenica al Faito, era lo spazio che intercorreva tra l’arrivo al punto d’incontro e l’ora sacra del pranzo; e allora via a corse, piccole escursioni, guerre di pigne, alla osservazione degli spazi circostanti, la raccolta di more, fragoline, lilium davidii. Del bar della Funivia ricordo il Juke Box ed alcune interminabili sue canzoni, le prime sperimentazioni dei suoni elettronici; Donatella Rettore di cui ricordo il ritornello Dammi una lametta che mi taglio le vene, Alberto Camerini con Rock’n’Roll Robot, Pupo e il suo Gelato al Cioccolato, le Cicale di Heather Parisi, che veniva eseguita anche da mia cugina Annabella, inoltre una novità che presto avrebbe ingarbugliato le nostre vite, il mondo del virtuale, i primi video games rudimentali, ma che già esercitavano il loro profondo fascino sugli uomini e che oggi silenziosamente ed in maniera impersonale invadono le nostre vite… ricordate il sottofondo di Space Invaders? I genitori hanno verso i propri figli (soprattutto se meridionali) una solerzia alimentare continua; “facimme magnà prime ‘e criature” oppure “n’atu poco a mammà” questa poi è fantastica “l’urdemo muorzo è d”o Rre” ancora oggi fatico a comprendere perché ‘o Rre volesse per forza questo ultimo boccone di qualsivoglia cibo; la famiglia napoletana poi, tende sempre ad ingozzarti come un maialino ripieno tutte le feste finiscono a tavola, sarà che i nostri genitori hanno vissuto momenti di certo meno lieti, ma in questo caso a Faito…non ve n’era bisogno “Sarrà l’aria…” la fame diveniva davvero incontenibile e noi sempre i primi ad apprestarci a divorare tutto e di più, del resto chi legge, anche se non stabiese, avrà capito di certo cosa si ammassava in quegli enormi borsoni. La domanda è puramente retorica… forse non è neanche una domanda… Mancava solamente tutto quello che il Buon Dio non aveva permesso di cucinare a mia madre e alle sue sorelle e cognate, si capisce per ragioni di tempo… dall’antipasto al dolce, passando dalla pizza di pasta con le sue sfumature e sperimentazioni familiari, alla pasta al forno ancora tiepida, alla carne da arrostire successivamente, ‘e pizzelle ‘e mulignane e via discorrendo, senza annoiarvi con ulteriori sapori che potrebbero indurre il lettore a pregustare i cibi suddetti e ad obbligare le proprie inconsapevoli mogli e madri ad adoperarsi per una gita fuori porta nella propria sala da pranzo.

Ho nostalgia di questi momenti di festa, la presenza degli amici dei miei cugini più grandi che rendevano ancor più allegra l’intera brigata, un po’ meno delle interminabili partite a Ramino, Scala 40, Stoppa, nelle quali tutti venivano coinvolti, ragion per cui a dieci anni ero già consapevole della noia mortale che mi avrebbero arrecato quei passatempi e decisi di accantonarli, [passatempi?] che per di più mi distoglievano dalle altre attività ludiche e ricreative proprie degli adolescenti… quanto amavo correre fino alle antenne, le corse poi innalzavano colonne di polvere pronte a coprire tutto come la cenere del Vesuvio, percorrere quegli spazi significava anche osservare da vicino le altre famiglie come noi accampate in anfratti seminascosti quasi a celare agli invadenti occhi degli adolescenti le proprie vettovaglie, l’osservazione in realtà aveva l’unico scopo di scovare una faccia amica e perché no, il volto di una coetanea carina.

Belvedere

Belvedere, cartolina Giuseppe Zingone

Dopo le Antenne ancora di corsa verso il Belvedere, senza pensare neppure per un istante di potersi rompere il collo… per quel sentiero che si trova tra la stazione e l’hotel Faito. Quando il sole ormai stanco anch’esso del nostro girovagare, iniziava a percorrere la strada del riposo e a donare alla natura dei colori più dolci come quel turchese intenso e qualche sfumatura d’arancio che ho impressi nella memoria, i grandi cominciavano a rassettare i contenitori a sistemare le buste da buttare via; si riponeva qualche plaid che inizialmente era servito a delimitare il sacro luogo sul quale avevamo bivaccato, si spegneva con attenzione la cenere di un fuoco che non molte ora prima ci aveva deliziato arrostendo la fumosa carne napoletana (chissà perché da noi, ogni cosa che va arrostita produce un fumo spropositato…!), si nascondevano i sassi per le successive braci; insomma tutto volgeva al termine, qualche richiamo per riportare i più giovani ad un improbabile ordine e di nuovo via di corsa a fare la fila per la discesa nella montagna russa su piano inclinato che appartiene solo agli stabiesi ‘a panarella blu. Oggi a ripensarci quelle giornate mi sembrano delle enormi maratone. Dopo aver salutato e congedato tutti, veloci fino a casa per essere ripuliti della polvere che aveva incrostato ogni centimetro della nostra pelle ancora umida di sudore, ricordo che dovevo sforzarmi continuamente di deglutire poiché il passaggio così veloce da un’altezza ad un’altra mi otturava le orecchie; poi a letto per il meritato riposo, domani è Lunedì si va al mare alla Calce e Cementi a Pozzano.

Caro Faito ci si vede Domenica prossima, e Tu, Gesù, me raccummanno nun fa chiovere…!