articolo del dott. Tullio Pesola
Attualmente viviamo in una società in cui rapidità e velocità la fanno da padrone, dove regna la filosofia dell’usa e getta, dove ciò che è usurato non viene riparato, ma prontamente sostituito; oggi si dispone di internet, di pay TV, di smartphones, si indossano abiti griffati, si segue la moda dei motori, ci si concedono lunghe e costose vacanze, ci si interessa di imbarcazioni, ristoranti stellati e quant’altro, per cui diventa difficile o addirittura impossibile farsi un’idea di come potesse articolarsi la vita anni addietro (anche se non molti) nel Paese e, quindi, nella nostra città.
Gli anni che precedettero l’inatteso boom economico, infatti, furono quelli in cui era indispensabile, per chi non riuscisse a garantirsi un lavoro stabile e senza soluzione di continuità, inventarsi un’attività che gli permettesse, anche se tra alti e bassi, di vivere con dignità, se non addirittura talvolta di sopravvivere alla povertà. Come si può facilmente intuire, si viveva in… presenza di ristrettezze economiche, per cui si cercava di ridurre al minimo gli sprechi e di risparmiare fino all’ultimo centesimo e ciò che era rotto, andava necessariamente ripristinato. E, poiché -come comunemente si dice- “non tutti i mali vengono per nuocere”, anche tale situazione offriva il suo risvolto positivo, quello, cioè, di permettere a tanti di avvalersi di un’ulteriore possibilità per socializzare. Prendevano, così, a consolidarsi sempre più le figure dell’aggiustatore di ombrelli, dell’arrotino, del riparatore di oggetti di creta smaltata, dell’impagliatore di sedie…
Se, ad esempio, per un malaugurato caso, andava fuori uso un ombrello, si attendeva con impazienza l’arrivo dell’ombrellaio, un artigiano ambulante che riparava gli ombrelli che avevano ceduto alle forti raffiche di vento o che si erano consumati in qualche loro parte. Egli rattoppava la tela, sostituiva le stecche, cambiava il manico e… l’ombrello, grazie ai suoi miracoli, tornava a funzionare.
Un ricordo sembra essere rimasto scolpito nella mia mente: ogni lunedì si presentava puntualmente nel nostro quartiere, in via Brin, un’altra figura di rilievo e meritevole di essere menzionata. Era un uomo di statura alta, magro e con una grossa voglia di lampone sulla guancia destra. Non saprei dire da dove provenisse, ma so di certo che arrivava spingendo uno strano macchinario di legno come fosse una carriola. Si fermava nello slargo antistante lo stabilimento dell’acqua Acetosella, dove sistemava il suo marchingegno indispensabile per svolgere le sue mansioni, quelle dell’arrotino. Continua a leggere