Capitani di ventura a Castellammare
di Giuseppe Zingone
Quando Braccio e Muzio Attendolo calpestavano le nostre terre con migliaia di uomini, al proprio seguito, mietevano vittime e saccheggiavano le città, erano uno contro l’altro, ma quella era la vita nel Quattrocento. Forse mai avrebbero immaginato di entrare nella storia d’Italia, mai i cittadini stabiesi avrebbero appreso che questi due campioni giunsero nella nostra città insieme ai loro armigeri, capeggiando migliaia di uomini a cavallo.1
Queste le parole di Ercole Ricotti sui nostri protagonisti:”Stranieri furono i primi capi, straniero il nerbo delle prime compagnie di ventura; posciachè quei signori, che avevano spento ne’ Comuni libertà e milizia, verun’altra milizia nazionale non vi avevano surrogato. Solo alcuni individui, non so se più vili od audaci, or qua or là alla spicciolata trovavano modo di frammettersi alla soldatesca d’oltremonti, e sotto straniere insegne lacerare la propria patria.
Durò così l’altrui baldanza e la nostra oppressione per quasi mezzo un secolo. Finalmente un gentiluomo della Romagna ebbe cuore di rizzare una sua propria insegna, e bentosto, se non la fortuna, almeno l’onore dell’Italia da condottieri italiani fu rilevato.
Il generoso proposito d’Alberico da Barbiano, seguitato dal Broglia, da’ Michelotti, dal Brandolino, venne a compimento per opera di Braccio da Montone e di Sforza Attendolo. Le costoro scuole possedettero l’Italia per quasi un secolo; e in quell’intervallo essendo ne’ condottieri cresciute al paro della fama le forze ed i desiderii, videsi per man loro smembrata or questa or quella contrada, usurpata ora questa ora quella città, ed uno di essi cingersi la corona ducale della Lombardia”.2
Nelle varie letture delle ricerche su Giovanna D’Angiò e Alfonso d’Aragona, che trattavano della storia del Regno di Napoli e del nostro passato dunque, mi ero imbattuto in due Capitani di ventura del 1400. Andrea Fortebraccio detto da Montone, e Jacopo (Muzio) Attendolo detto Sforza, i quali con i loro eserciti e le loro gesta, al soldo di papi e re, segnavano le sorti di uno stato e ancor più la tragica fine di migliaia di uomini e donne che in quei difficili secoli vivevano la loro, spesso troppo, breve vita.
Ma è con vivo stupore che sono riuscito, in un approfondimento, a trovare un inedito spaccato di quegli anni, in cui si parla di Castellammare di Stabia, di una notte tragica, del saccheggio della nostra Città.
Prima di passare al testo riportato così come ripreso dal libro è necessario avere una sintesi della vita di questi due grandi personaggi nati a distanza di un anno l’uno dall’altro e morti nello stesso anno a distanza di pochi mesi.
Jacopo Attendolo detto Sforza3 “Narra il Corio, che del Mese di Giugno del presente anno (1369 n.d.r.) nascesse Sforza Attendolo, e che Cotignuola fù sua Patria Padre di Francesco Sforza primo duca di Milano di quella famiglia, huomo del mestier dell’armi famosissimo e concorrente di Braccio Fortebracci detto da montone: al Battesimo fù nominato Giacomo secondo il Corio, ma secondo altri, Mutio, & poscia Mutiolo, & ultimamente Sforza dal Valore (penso io) & forza; è oppinione quasi universale, ch’egli fosse di bassa, & vile conditione, ma perché il Corio, parlando di lui, asserisce, che due sue sorelle fossero maritate, una ad un Gentiluomo Napolitano di casa Caraviola, & l’altra al Conte Ugolino di Centone, non si può verosimilmente credere, h’egli fosse ignobile, ma nobile, ancorche dal Giovio si dica della vita di lui discorrendo, che già la famiglia Attendoli se non fù nobile, fù almeno honesta & honorata; suo padre si chiamò Govanni, & e sua madre Elisa, dal cui Matrimonio nacquero XXI. figliuoli maschi, & tre femine, & fu tale nell’armi, che giuntamenti con Braccio sopradetto si acquistò il nome del più valorosa soldato, & Capitano dell’età sua, à quali avvenne, che non solo in vita, ma settant’anni dopò la morte d’amendue, ch’in uno stesso anno morirono, durò il nome frà soldati della militia Sforzesca, & Aracesca, dell’una delle quali dopò la morte loro pigliò la protettione Nicolò Piccinino Perugino, & dell’altra Francesco figliuolo di Sforza, da’ quali hò avuto augumento di gloria la casa Sforzesca, & Santafiore”.4 Morì il Il 3 Gennaio 1424 nel fiume Pescara mentre cercava di salvare un paggio, (Cotignola, 28 maggio 1369 – Pescara, 4 gennaio 1424).
Braccio Fortebraccio da Montone5 “Illustre Capitano della famig. di Fortebracci da Peruggia, dopo aver fatto apparire il suo coraggio in varie occasioni fu eletto nel 1406. Generale da’ Fiorentini, che erano del partito di Lodovico II. Duca d’Angiò contro Ladislao Re di Nap. Nel 1414. Gio. XXIII. andando nel Concilio di Costanza lo dichiarò Generale delle sue truppe e Governadore di Bologna. In tal incontro ristabilì egli i Nobili in Perugia donne n’erano stati cacciati dalla Plebe. In appresso fe guerra con Martino V. che si accordò con lui, e lo inviò a Bologna per rendersi padrone di quella Città che si era rivolta; e ridotti quelli ribelli all’ubbedienza commandò l’armata di Giovanna II. Regina di Nap. e di Alfonzo Re di Aragona contro Ludovico Duca d’Angiò, e diede una rotta al Generale Sforza, che sosteneva le parti di Lodovico. Dopo questa vittoria la Rrgina Giovanna gli diede il Principato di Capua e lo fece G. Connestabile del Reame. Ma la sua ambizione lo portò ad aspirare anche al Reame di Nap. e prese l’ armi contro Giovanna. Lodovico Duca d’Angiò, e il Generale Sforza riconciliato con questa Regina, portò I’assedio aII’Aquila; ma ferito in una battaglia, e fatto prigioniero morì di dolore nel 1424. Egli si era reso padrone di una gran parte della Marca d’Angona, di tutta l’Umbria, e di molte Città della Toscana , e del’ Regno di Nap”. Braccio da Montone, moriva, per le ferite riportate in battaglia, il 5 Giugno 1424, 4 mesi dopo la morte di Muzio (Perugia, 1 luglio 1368 – L’Aquila, 5 giugno 1424).6
Giovan Antonio Campano7
“Si fecero dunque grandissimi apparecchi & furono ordinate più grosse provisioni à soldati & ne furono condotti da più lontani paesi, che per l’adietro non si era fatto. Braccio mentre si faceuano queste provisioni dal Papa, per indurre i vicini à ribellarsi prima, che tante genti de’ nemici si raunassero insieme, fece venire in campo gli Spagnuoli, e Balestrieri del Re, con intentione di tentare con tutte le forze di mettere in rotta il nemico, non ancor ben fortificato di genti, & munito. Hanando dunque su la mezza notte condotto l’esercito a Castello à mare, trouò le sentinelle a dormir sopra le mura, alle quali hauendo i soldati ascostate le scale, saltaron dentro la Terra, & Spezzate le porte, & ammazzate le guardie diedero nelle trombe. I Terrazzani per lo gran romor de’ soldati, desti dal sonno, quando videro i nemici dentro le mura, impauriti cominciarono tacitamente fuggendo a cercar di nascondersi, & a portar seco insieme con le Done, le cose più pretiose, & quando più si credeuano d’esser salvi, all’hora si dauan nelle mani de’ nemici. Tutte le robbe andaron a sacco, & i soldati, parte entrarono con diligenza a cercar le più secrete parti delle case, & parte preoccupate le nauicelle, & le barchette, corsero al porto, & ivi tolsero quante botti, & barili, ch’intorno al lito nuotauano, &, finalmente hauendo fatta la guerra, per terra, fecero la preda per mare, la quale portata tutta all’alba del giorno a Napoli, riempì tutto ‘l porto, &, tutto quel lito. Dicesi che furono poco meno di ventimila botti8di vino. Le saline ancora furono di non picciol momento alla preda. Ma la Rocca essendo proueduta d’un gagliardo presidio, ancorche fossè molti giorni combattuta, non si poté per niuna via pigliare, & parea già che la cosa si riducesse all’assedio, il che fu cagione, cbe li Sforzeschi s’affrettassero di venir tanto più tosto per liberarla, & hauendo statuito il giorno nel quale s’havessero à trouar tutti al fiume Sarno si ridussero insieme dodicimila tra caualli, & fanti. Esercito veramente assai grande in que’ tempi, & tale che non solamente haverebbe potuto stare à fronte al nemico, ma etiandio coglierlo in mezzo; di che Braccio certificatosi dalle spie, dubitando di non esser colto in quella strettezza di Paese, & di non essere in uno stesso tempo necessitato à combattere in tre luoghi, con la Rocca, co’ Terrazzani, & col nuouo esercito, si deliberò d’abbandonar la Terra, & d’accostarsi al nemico discorrendo, che molto più ageuol cosa gli farebbe il combattere vnitamente con tutte le genti in vn luogo, che con l’essercito in più parti diuiso. Hauendo dunque mosso il campo alla volta del Sarno, si fermò sulla riua del fume, non molto dal nemico lontano, il qual s’era parimente all’altra ripa accostato, & non era altro in mezzo tra i due esserciti, che il letto del fiume, onde essendosi ciascuno accampato dalla banda sua, stettero diciotto giorni in quella guisa“.9
Altro capitano di ventura al soldo di Papa Martino V, fu Angelo Broglio detto Tartaglia (Lavello, 1370 – Aversa, 1421), servì vari potentati tra cui la Repubblica Fiorentina. Scopo delle compagnie di ventura era quella di arricchirsi il più possibile, grandi condottieri come Sforza più volte dovettero fare gran fatica per far restituire il maltolto alle proprie truppe, in virtù di rinnovate alleanze; l’avidità e l’audacia, spesso la violenza, erano le caratteristiche più evidenti di queste armate. Tra Tartaglia e Braccio vi era un’antica amicizia e si sospetta che questi, rivale e alleato dello Sforza, inviasse a Fortebraccio dei suoi emissari per avvisarlo dei piani dell nemico. Quando Papa Martino assoldò il Tartaglia, questi si ritrovò di nuovo a fianco del suo antico rivale Sforza, il papa per rafforzare il legame tra i due condottieri propose il matrimonio di Giovanni figlio illegittimo di Sforza con Lavinia figlia di Tartaglia, ma Sforza come vedremo non tollerò la simpatia tra Tartaglia e Braccio e consapevole di essere stato tradito, fece arrestare nel sonno il Tartaglia, lo torturò, estorcendogli una confessione ed infine lo fece decapitare nella piazza del mercato di Aversa.10
“Ma il fiume, percioche molto grosso non era, si poteva quasi per tutto passare a guazzo, onde i soldati trapassandolo, facevano spesso qualche leggiera scaramuccia, & Braccio, per debilitare il nemico, studiosamente si tratteneua.
Venero in tanto nel suo campo due mila Napoletani, & con essi alcuni pochi balestrieri, ma il Re, perche sapeua il grosso numero de’ nemici gli scrisse, che non volesse tentar la fortuna della battaglia.
Braccio ancorche si reputasse à vergogna, che si fossero indarno tutte le genti del Regno raunate in un luogo, benché i soldati già accresciuti di forze (come che non fossero uguali à nemici) facessero instanza di venire à giornata, nondimeno tenendo per qualche conto de gli auersari, non volea mettersi à caso à combattere, & dissimulando la cagione, accioche non paresse, che per paura restasse di venirvi, allegava l’ordine venutogli dal Re, oltra che i nemici non gli ne davano una grande occasione. Le vettovaglie non mancano ne all’uno, ne all’altro essercito, ancorche Braccio n’havesse maggiore abbondanza; à Sforzeschi ne prouedeuano Cerra, Nocera, & Aversa, & a Bracceschi le Terre della Riviera del Mare talche l’abbondanza delle vettovagli havea generato la negligenza del combattere.
Braccio poi che s’avide, che i nemici (ancorche fossero in maggior numero, & meno abbondanti di vettovaglie) si stavano ne’ loro alloggiamenti, non havendo ardir di combattergli con tutte le forze nelle trincee, ogni di maggiormente si discostava con le sue genti dalla riva per tirargli di la dal fiume nel piano, ò per dare occasione ò di far qualche leggiera scaramuccia, non lasciando à dietro cosa, onde ò parte di esso almeno invitasse ò scaramucciare. I nemici non ricusavano la battaglia, & ben che i molti capi, che haueuano fossero tutti vinti dall’astutia di Braccio solo, s’erano nondimeno risoluti di sopportare ogni cosa, affine ò chè l nemico (ancorche molto più di loro abbondante) dalla fame venisse meno, ò come troppo avido di combattere, passasse all’altra ripa del fiume. Chiara cosa è che Braccio in niuno altro luogo patì mai il maggior disagio, che in questa guerra, perciòche molti giorni non si levò mai l’armi da dosso, & dicesi, che cauandosi il corsaletto vi rimanevano attaccati i pezzi delle vesti, che gli s’erano infracidate sotto dalla rugine, & dal sudore, percioche egli infin dà primi anni più di tutti gli altri huomini s’era assuefatto à patire, non tanto nel mangiare, & nel dormire, quanto etiandio in tutte l’altre fatiche della guerra.
Quivi perche un capitano portava troppo delicatamente coperte le braccia, & le mani, il cassò, & anco perche un soldato mentre pioveva (coperto il capo) oscì d’ordinanza, cacciandolo dal Campo, gli fece por giù le calze, ch’egli con la sua divisa portava, & in niuno altro luogo volse mai, che più rigorosamente s’osservassero gl’ordini della militia.
Auedutosi dunque di non poter in alcun modo tirare il nemico à combattere, ne farlo dal fiume dilungare, per disunire cosi gran massa di gente, pensò di servirsi d’uno strattagemma militare, & perche spesse volte leggiermente si combatteva, qualunque volta aueniua, che si facesse prigione qualche soldato di Sforza, subito condennandolo al remo, lo mandaua alle Galee del Re, ma se glie ne capitavano di quei del Tartaglia, oltra il rimandargli honoratamente in campo, facendo loro offerte, & parole cortesi, convenimenti alla memoria dell’antica amicitia, hauta col lor Capitano, donaua loro armi, cavalli, & tutte le altre cose, che per ragion di guerra erano perdute, il che essendogli molte volte accaduto, nacque grandissima diffidanza fra i due Capitani, & cominciarono ad entrare in diversi pensieri, ne l’un conversava con l’altro, & i soldati, ch’erano co’ doni stati rimandati, accrescevano magiormente la gara, & inalzando tuttavia Braccio infino al Cielo, prouocando Sforza a maggiore sdegno, di maniera che tuto l’essercito era in discordia e s’erano fatti due campi, fortificandosi ciascuno de’ capitani dalla banda sua con argini, & con bastioni, talmente, che da quella parte ch’erano i nemici, furono cominciate con più negligenza a farsi le guardie, che da quella che confinava insieme tra loro, & i soldati non l’intendevano punto meglio. La cosa andò finalmente tant’oltre che dubitando essi, che se nasceva qualche tutmulto nel campo, l’astuto avversario non gli assalisse, l’uno si dilungò dall’altro, il Tartaglia andò ad Aversa, & Sforza à Nocera, con animo più tosto di nuocersi, che altrimente. Braccio essendo stato di ciò dalle spie avvertito, senza perdere punto di tempo passò il fiume, & fatta la strada per lo Territorio d’Anuersa, trascorso in fretta, & predato il Contado d’Atella, ridusse l’esercito à Capua.11Et Volendo il Tartaglia impedirgli il passo, i suoi soldati non lo vollero ubidire, anzi usciti fuora in battaglia, parte fingendo il fuggire, ritornarono nella Città, & parte veramente temendo, tornati dètro à ripari, non volsero ne dar dentro ne aspettar la furia de’ soldati di Braccio”. Fine del Quinto Libro.12
Articolo terminato il 23 Maggio 2017
Note:
- Giovan Antonio Summonte, Historia della Città e del Regno di Napoli, Parte Seconda, Libro IV, pag. 593, MDCI. “Braccio Cavalcò con l’esercito per ricouerar Castello à mare di Stabia. e la pose a sacco“. ↩
- Ercole Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1847, pag. XIV.XV. ↩
- Leone d’oro rampante che regge un ramo di cotogno verde in campo azzurro. Il tutto sormontato da un elmo con cimiero a forma di drago crestato con testa umana.
Arme del comune di Cotignola adottata dal capostipite Muzio Attendolo Sforza all’inizio del Sec.XV. Venne ripreso dai vari rami degli Sforza, fatta eccezione per i duchi di Milano, che adottarono quello dei Visconti. In http://ducatocesarini.it/stemma-degli-attendoli-sforza/ ↩ - Pompeo Pellini, Dell’Historia di Perugia, Parte Prima Libro Ottavo, pag. 1050-1051, Venetia MDCLXIV. ↩
- Lo stemma, secondo gli schemi dettati dalla blasonatura, è composto da uno scudo a forma tedesca (a tacca), integralmente di color giallo oro. Al centro vi è un ariete, simbolo di Montone, luogo di nascita della famiglia di Braccio Fortebracci.
Sopra, nella parte più alta, rappresentante il grado nobiliare, è situato un elmo. E’ d’argento, bordato alla base con foglie auree; posto di profilo verso destra, ha la forma a becco di passero e presenta uno svolazzo (lambrecchino) fatto con foglie d’acanto.
Queste foglie avevano un preciso valore simbolico nell’arte greca, successivamente, in quella romana. Al di sopra del “cercine” (utilizzato per fissare il “lambrecchino” all’elmo) campeggia un leopardo dorato. L’animale, simbolo della Signoria di Braccio Fortebracci, sta ad indicare la combattività, la potenza militare e politica del Capitano di Ventura. In http://www.perugia1416.com/it/stemma-di-braccio-fortebracci/ ↩ - Giangiuseppe Origlia, Dizionario Storico nella storia, sacra e profana, antica e moderna d’Italia, opera che serve di supplemento al dizionario, Tomo I, Napoli MDCCLVI, pag. 92-93. ↩
- Antonii Campani episcopi Aprutini, De vita e gestis Andreae Brachij Perusini, Libri VI, Basileae, MDXLV, Liber V, 317-319. Noto anche con lo pseudonimo di Campanus, fu eletto (Cavelle, provincia di Caserta 27 febbraio 1429 – Siena, 15 luglio 1477), vescovo di Crotone in Calabria, il 20 ottobre 1462, da Pio II. Il Campano donò l’opera agli eredi di Braccio i quali apprezzarono enormemente il lavoro. Quando il testo arrivò nelle mani degli eredi Sforza questi chiesero al Campano di scrivere un libro sul loro congiunto Jacopo Attendolo, ma il Campano non corrispose le richieste degli Sforza. ↩
- Il numero di botti di vino, nascoste in mare dagli stabiesi può sembrare inverosimile per una città di non grandissime dimensioni, ma bisogna ricordare che nei tempi passati l’arte di costruire botti era vivissima in Castellammare tanto che i Bottari costituirono una loro confraternita facendo erigere la chiesa dello Spirito Santo nel 1577 (Vedi: Giovanni Celoro Parascandolo, Castellammare di Stabia, ed. Cortese 1965, pag.195-196). Inoltre Francesco Alvino afferma che “nel 1836 la città di Castellammare aveva prodotto 70000 botti di vino che ora è ancora di molto aumentato”; Francesco Alvino, La Penisola di Sorrento, Napoli 1842, pag. 22. ↩
- Giovan Antonio Campano, L’Historie et Vite di Braccio Fortebracci detto da Montone et Nicolo Piccinino Perugini, Venetia 1572, pag. 116 e succ. Vedi anche: L’Historie et vite di Braccio Fortebracci detto da Montone et di Nicolo Piccinino, di Giovan Antonio Campano e scritte in volgare da Pompeo Pellini, Venetia 1621, pag. 203. Ricordiamo che l’opera del Campano è una biografia (penso che il Campano avesse una certa simpatia per Braccio) quasi coeva del protagonista Braccio da Montone. In altri testi storici non risulta che questi due capitani si siano soffermati sul fiume Sarno per 18 giorni, anzi molti scrivono che Braccio si diresse a Napoli, il di Costanzo aggiunge: “passando per Torre del Greco” (Angelo di Costanzo, Historia del Regno di Napoli, Napoli MDCCX, pag. 336-337.). I dettagli sul faccia a faccia tra Sforza e Braccio però non ci sembrano frutto di fantasia dell’autore. ↩
- Ercole Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1847, pag. 272 e successivi. ↩
- Sullo stesso argomento vedi: Abate Don Placido Troyli, Istoria Generale del Reame di Napoli, Tomo IV, parte III, numero XXXVI, Napoli MDCCLI, pag. 340. ↩
- Pompeo Pellini, L’Historie et vite di Braccio Fortebracci detto da Montone, Venetia 1621, pag. 246. ↩