( ricordo della sig.ra Assunta Carrese )
Poiché i ricordi affiorano all’improvviso nel nostro cervello, ecco alcuni ritardatari della mia Castellammare anni ’40. Nel vecchio quartiere di piazza Pace, Santa Caterina, Licerta e Cognulo, c’era anche il cinema teatro “Verdi”; questo locale era frequentato nella maggior parte da ragazzi adolescenti e pochi adulti. Un anno, nel periodo natalizio, anche io con tre mie sorelle e due fratelli andammo a vedere “La cantata dei pastori”. Ripensandoci la platea sembrava quella dell’attuale film “Cinema Paradiso”.
L’argomento trattava della nascita di Gesù Bambino e quindi dell’adorazione dei pastori, degli angeli e dei re magi. Non mancavano i diavoli disturbatori.
Due personaggi che rappresentavano la fame, avendo rubato ad un taverniere una scodella di maccheroni e un fiasco di vino, mangiavano a chi più poteva con le mani; si chiamavano Razzullo e Sarchiapone. La stessa scena la vediamo spesso nel film di Totò “Miseria e nobiltà”. Risate e schiamazzo da parte dei ragazzi.
Quando poi nella scena c’erano i diavoli, la platea si divideva nei più piccoli che avevano paura e nei più grandi che fischiavano. Ad un tratto comparivano tra le fiamme dei diavoli la Madonna con Gesù Bambino e San Giuseppe tra uno splendore di luci e suoni celestiali; i diavoli, folgorati, cadevano a faccia a terra e Belzebù che era il principe dei diavoli, faceva una verticale a testa in giù battendo le corna sul pavimento. Era la caduta del diavolo.
A questo punto nella platea era un terremoto di fischi, grida e battimani, i diavoli erano stati sconfitti tra la soddisfazione degli spettatori.
Tra i ricordi sono apparsi tre personaggi di rilievo che involontariamente avevo trascurato: Donna Sciurella (Fiorella), don Ettore il farmacista e zia Concetta Riccardi.
Donna Sciurella era molto devota di Sant’Antonio di Padova e in casa sua aveva un altarino con il quadro del Santo. Tutto il giorno si svolgevano preghiere e si raccoglievano viveri e soldi per i poveri da parte di persone bisognose di grazie che si affidavano alle sue preghiere ritenendola molto meritevole. Alla sua morte il quadro fu trasferito alla Chiesa dello Spirito Santo dove si trova tuttora. In quella Chiesa c’era il parroco don Antonio che aveva fama di essere esorcista. Anche da don Antonio accorreva molta gente fino a pochi anni fa, quando poi fu trasferito a Pianura.
Don Ettore Pontecorvo, <<il farmacista>>, aveva la farmacia nell’angolo di fronte alla piazzetta Gelso dove il fratello aveva il laboratorio di analisi. La figura di don Ettore è indimenticabile, sia fisicamente che professionalmente. Longilineo, con impeccabile camice bianco, occhiali d’oro, sempre attento a preparare bevande, pomate e cartine con il bilancino di precisione. Il fratello si vedeva poco perché era sempre chiuso nel suo laboratorio tra fiale, storte ed alambicchi.
Don Ettore era sempre disponibile con tutti quelli che gli chiedevano consigli e rimedi prima di rivolgersi al medico. A seconda della circostanza parlava in italiano o in dialetto napoletano. Questo è uno degli aneddoti in cui ci voleva il napoletano:
si presentò a lui una donna del popolino chiedendogli un rimedio per il figlio, “Dottò, tengo ‘o piccirillo mio cu’ ‘na faccia chiena ‘e bolle, che ce pozze mettere?” Il dottore le preparò una pomata e la donna andò via. Ritornò dopo alcuni giorni dicendo: ”Dottò ‘e bolle r’‘o piccirillo mio non si sono tolte!”, “Portalo qua che lo voglio vedere”. Tornò la donna con il piccirillo, alto un metro e settanta e di 80 kg di peso. Con gli occhi fuori dalle orbite don Ettore gridò: “E questo sarebbe il piccirillo? Ma vire addò ja jere! A questo ci vuole altro che pomata, ci vuole… …Avete capito, vero? Se non avete capito chiedetelo a Luciana Litizzetto.
A me, personalmente, don Ettore guarì una brutta otite purulenta vecchia di quasi due anni.
Il terzo personaggio era Concetta Riccardi.
Per noi di famiglia era zia Concetta, perché cugina della mia nonna paterna, Anna Riccardi.
Come nacquero i biscotti di Castellammare “Riccardi”.
Il padre di zia Concetta, Francesco, e il padre di mia nonna Anna, Giovanni, erano fratelli e di professione “Gallettai”. Facevano le gallette per i marinai che affrontavano lunghi viaggi con i bastimenti, trasportando merci in terre lontane. Le gallette dalla forma sferica e molto dure erano fatte con acqua, sale e farina, erano talmente dure che ancora oggi, su internet, tra i vari proverbi ci sono “‘A galletta ‘e Castiellammare nun se spogne manco int’‘all’acqua ‘e mare“, oppure riferito ad una persona “E’ ‘na galletta ‘e Castiellammare ca nun se spogne”, con riferimento ad un individuo avaro, restio ad ammorbidirsi e ad elargire.
Con il passare del tempo i fratelli Riccardi pensarono bene di aggiungere altri ingredienti a quelli delle gallette, e aggiunsero lievito madre, zucchero, burro e aromi, e vennero fuori i biscotti dalle tre forme: lunghi, tarallini e freselle. Zia Concetta portò avanti la tradizione fino alla morte e, dopo di lei, Anna Riccardi Carrese.
A loro un doveroso omaggio post mortem. Pace all’anima loro.