Vicissitudini di un marinaio stabiese più volte scampato alla morte
di Antonio Cimmino
Uomini semplici spesso sono stati protagonisti inconsci di avvenimenti storici di enorme importanza ed hanno descritto le esperienze vissute, con naturalezza, senza enfasi e senza dare giudizi di sorta. Uno zio di mia moglie, marinaio della Regia Marina, mi ha raccontato la sua storia, articolata in ben otto anni di servizio militare, in pace ed in guerra. Ha rischiato la vita diverse volte riuscendo, quasi per miracolo, a sopravvivere. Pescatore prima e dopo, non ha mai ricevuto medaglie e/o riconoscimenti di sorta e, solo nel 2006, a 90 anni d’età, presomi in simpatia perché anch’io avevo prestato servizio militare in Marina, si decise a raccontarmi gli episodi che seguono, per lui tutti fatalisticamente inevitabili secondo il suo modo di vedere la vita. Così ebbi modo di sapere cosa gli aveva procurato quella grossa cicatrice che aveva sotto il mento. Quando, dopo i primi incontri, gli portai un quadretto con la fotografia dell’incrociatore Pola, Zi’ Ciccione l’accarezzò e si mise a piangere. Con lo stesso tono di voce, le medesime parole e i ringraziamenti alla Madonna di Pompei per essersi salvato, egli mi ha ripetuto la sua storia diverse volte, contento finalmente di trovare un attento ed interessato ascoltatore. Zi’ Ciccione è morto il 5 maggio 2012.
Antonio Cimmino
Mi chiamo Catello Maresca, sono nato il 14 dicembre classe 1916, ma tutti fin da piccolo, mi hanno sempre chiamato Ciccione.
Sono analfabeta e ho sempre fatto il pescatore e, in estate, ho lavorato alla Cirio.
Nel 1936 sono partito per il servizio militare di leva nella Regia Marina e sono tornato a casa solamente nel 1945.
A Taranto mi assegnarono la categoria di “Marò servizi vari” con la matricola 28496; non sapevo né leggere né scrivere, altrimenti mi avrebbero dato la categoria di nocchiere perché facevo il marinaio già da piccolo.
Dopo alcuni anni trascorsi tra Taranto e Bari, fui imbarcato sull’incrociatore Giovanni dalle Bande Nere, nave che già conoscevo perché da ragazzo assistetti al suo varo, davanti al regio cantiere di Castellammare, su un “vuzzariello” di un amico di mio padre(1).
Nella primavera del 1939 con l’incrociatore ed altre navi, andammo in Albania per sbarcare a Durazzo. Arrivati nel porto, fummo bombardati da una batteria che sparava da una montagna a ridosso del porto. Il comandante fece mettere la prua verso il mare e sparò con i cannoni della torre di poppa, facendo cessare il fuoco nemico(2).
Scesi successivamente a terra e, uscito a curiosare nel paese, affacciandomi ad un buco in un muro, fui ferito al collo dalla punta di una baionetta di un ribelle che era ancora nascosto. Lo stesso fu ucciso dai nostri soldati.
Per fortuna il colpo era superficiale e non toccò nessun punto vitale, ma la ferita fece una brutta infezione. Ho ancora la cicatrice. Mi portarono in ospedale a Porto Lagos nell’isola greca di Lero. I dottori dissero che ero stato fortunato perché per pochi millimetri la lama non mi aveva tagliato una vena importante della gola e sarei morto dissanguato.
Durante la degenza i malati furono visitati dal governatore delle isole greche, il generale De Vecchi, un personaggio molto importante perché amico di Mussolini(3). Il generale mi diede un attestato a nome del duce. Non mi ricordo cosa ci fosse scritto perché sono analfabeta, ma tutti mi dissero di conservarlo con cura perché mi poteva servire alla fine della guerra. Era un bel foglio con lo stemma del fascio e la firma di Mussolini. Dimesso dall’ospedale, rimasi a Lero destinato ad una batteria antinave sopra Porto Lagos. Qui non rimasi che pochi mesi, trasferito a Taranto al centro sportivo, fui subito imbarcato sull’incrociatore Pola, una bella nave più grande del Giovanni dalle Bande Nere. Mi ricordo che il comandante della nave si chiamava De Pisa.
Sul Pola mi misero in cucina. Nel mese di marzo del ‘41 la nave prese il mare assieme ad altre. A bordo si diceva che andavamo a dare una lezione agli inglesi nelle acque greche. Effettivamente il 28 marzo ci scontrammo con la flotta inglese ma prima subimmo un attacco da parte di un aerosilurante; un suo siluro colpì la nave in corrispondenza dell’apparato motore, mancò la corrente a bordo e ci fermammo in mezzo al mare mentre attorno infuriava la battaglia. Io mi trovavo in coperta in corrispondenza del fumaiolo.
La nave imbarcava acqua e molti si gettarono in acqua ed io tra questi. Subito mi allontanai a nuoto per timore di essere risucchiato nel vortice che si crea quando una grossa nave affonda del tutto, così come avevo sentito a bordo da marinai anziani. Ma il Pola, sebbene danneggiato e con lingue di fumo e fiamme, rimase immobile mentre si sparava da tutte le parti(4).
Il mare tutto attorno era brulicante di fiammelle accese, come in un cimitero; erano palline di nafta che bruciavano. Nuotando “a cagnolino”, con le mani scostavo le palline infuocate e mi appoggiai ad un sacco di farina.
Avevo addosso solo il corpetto e per non affondare, mi tolsi le scarpe e mi sfilai i pantaloni a pattina, dopo aver messo in salvo, in un apposito taschino delle mutandine, alcune banconote che costituivano il mio capitale.
Dopo qualche ora, mentre attorno c’erano morti e materiale vario, trovai una grossa cassa di legno che galleggiava. Con enormi sforzi mi issai al suo interno scorticandomi sui bordi. Dentro c’era un palmo d’acqua calda, mentre il mare era ghiacciato nonostante fossimo a marzo.
Subito si aggrapparono cinque marini e due soldati. Tutti volevano sistemarsi nella cassa, ma io glielo impedii dicendo loro che la cassa non poteva reggere il loro peso ed era più sicuro per tutti, che si tenessero aggrappati. I due soldati si lamentavano che le loro divise, inzuppate d’acqua, li trascinavano verso il fondo. Io spiegai loro che dovevano sfilarsi i pantaloni dopo essersi tolti gli scarponi.
Tutta la giornata di sabato rimanemmo in quella posizione.
Loro avevano paura degli squali, ma io dissi loro che con tutti i morti che galleggiavano, gli squali, se c’erano, non avrebbero attaccato persone vive. Ad un tratto sentii la voce di un mio compagno e compaesano imbarcato su nave Zara. Si chiamava Mario, figlio di Gelsomina del rione spiaggia ove io abitavo. Mario mi chiamava: “Ciccione, Ciccione, aiutami…” Io non riuscii ad individuarlo nell’oscurità. La sua voce diventava sempre più fioca e lontana, finché non la sentii più. Il poveretto, forse ferito, era andato a fondo, come buona parte dei naufraghi.
A fine guerra, seppi che Mario, prima di partire, aveva fatto quasi la dichiarazione alla mia attuale moglie Antonietta e le aveva scritto una lettera. La domenica successiva, alle prime luci dell’alba, mentre galleggiavamo in quella triste posizione, vedemmo le luci di un piroscafo che si avvicinava. Era la nave ospedale Gradisca che recuperava i superstiti e, dopo aver tolto loro la piastrina di riconoscimento, affidava al mare, opportunamente zavorrati, i corpi dei morti che ancora galleggiavano sull’acqua. Era il 31 marzo (5).
A bordo ci dettero latte caldo e biscotti. Fummo sbarcati a Catania e ricoverati nel locale ospedale. All’arrivo in porto, mi ricordo che molte donne ci chiedevano notizie dei loro congiunti. Rammento che molti si chiamavano Turiddu. Seppi che, assieme al Pola erano stati affondati gli incrociatori Fiume e Zara ed i cacciatorpediniere Alfieri e Carducci, con un totale di 2023 marinai morti.
Trascorsa la Pasqua a Catania, fui inviato nell’isola di S. Andrea davanti a Gallipoli.
Nell’isola c’era una batteria con alcuni cannoni navali da 120 mm, quattro cannoni antiaerei da 70/76 mm e due mitragliere. In virtù della mia precedente esperienza, fui destinato in cucina. La postazione era composta da circa 50 marinai, qualche sottufficiale ed un ufficiale.
Lì conobbi un marinaio anziano di Taranto che si chiamava Basile, anch’egli pescatore come me. Insieme ci dedicammo alla pesca con delle reti che si era procurato, aiutati anche dal marinaio Gargiulo di Sorrento.
Una volta pescammo circa un quintale e ottanta di pesci ed il Capo ci fece portare una parte al Comando Marittimo di Gallipoli. Io, Basile, Gargiulo ed un altro remammo fino a Gallipoli e, dopo la consegna, fummo rimorchiati, perché stanchi, a S. Andrea da don Antonio, un vecchio pescatore designato da un ufficiale del Comando Marina.
A Sant’Andrea mi fidanzai con Boeriza Maria figlia di un pescatore.
Finalmente stavo trascorrendo un bel periodo dopo il naufragio, facevo il pescatore e avevo una fidanzata; la guerra appariva lontana.
Ma tutte le cose belle durano poco. A metà del 1942 fui destinato, imbarcandomi a Brindisi, sul cacciatorpediniere Camicia Nera come marinaio di coperta.
La nave dopo aver scortato un convoglio di mercantili diretto in Libia, lasciò il convoglio assieme ad un altro cacciatorpediniere di cui non ricordo il nome e fece rotta per la Grecia (6)
Mentre stavamo lentamente attraversando l’Istmo di Corinto, trainato da una pilotina, il Camicia Nera fu colpito a poppa da una bomba di un aerosilurante inglese mentre si trovava all’uscita del canale. Nello scoppio morirono 15 marinai e la nave si appoppò, adagiandosi sul fondo in corrispondenza della banchina. Seppi che fu trainata a Corfù per le necessarie riparazioni.
Mi ricordo che il Comandante in seconda si chiamava Armando Pugnoletto
Ferito leggermente fui ricoverato di nuovo nell’ospedale di Porto Lagos nell’isola di Lero.
Dimesso, fui inviato nella batteria PL 8 ove trovai un altro compaesano di nome De Grosso, era un maresciallo, capo cannoniere di 3° classe. Nell’isola c’erano più di venti batterie armate con cannoni navali e mitragliatrici antiaeree Breda 37/54.
Durante la permanenza a Lero mi fidanzai con una ragazza che portava il latte in cucina.
Tutti la chiamavano Carmela, storpiando il suo vero nome che suonava Mamela o qualcosa del genere. La ragazza parlava abbastanza bene italiano perché portava il latte da molti anni alle cucine italiane. In cucina trovai un certo Mancuso di Sorrento con il quale mi recavo spesso a prendere uova e formaggio nella masseria della ragazza.
Alla notizia che i tedeschi erano diventati nostri nemici, dopo l’8 settembre 1943 ed avevano iniziato ad uccidere ed a deportare in Germania gli italiani, Carmela mi diede abiti borghesi e mi nascose in un pagliaio nella zona dove aveva a pascolo le mucche. Intanto erano sbarcati molti inglesi per aiutare gli italiani a combattere contro i tedeschi. Prima di sbarcare in forza a Lero, i tedeschi bombardarono numerosissime volte le nostre postazioni e mitragliarono con gli Stukas militari e civili (7). Seppi che durante quelle tristi giornate, i tedeschi uccisero alcuni marinai e soldati che li contrastarono con le armi. Quando i militari si arresero, fucilarono solo gli ufficiali e deportarono in Polonia e Germania tutti gli altri (8).
Sono stato nascosto molto tempo e la ragazza o suo fratello, ogni tanto mi portavano da mangiare. Nell’isola si combattevano tra loro tedeschi ed inglesi fino al 1945.
Passato il pericolo, mi presentai al Comando e indossai di nuovo la divisa ritornando a Taranto.
Finalmente alla fine del 1945 mi congedai e rientrai a Castellammare. Venuto a sapere che in città molti marinai non erano tornati, mi recai a piedi a ringraziare la Madonna di Pompei che mi aveva salvato diverse volte. La mia unica ricchezza dopo otto anni di guerra, era il documento firmato da Mussolini per essere stato ferito alla gola.
Tutti mi dissero che avevo diritto ad un posto statale. Nel cantiere navale dove lavorava mio padre Alfonso, non era possibile perché lo stabilimento già da quando ero ragazzo non era più governativo e si chiamava Navalmeccanica; rimaneva sola la Corderia della Marina.
Mi recai lì e trovai Capo De Grosso, quello di Lero, che al principio non mi riconobbe. Mi feci riconoscere e gli consegnai il documento. Il sottufficiale, dopo averlo letto, lo bruciò sulla fiammella di una candela dicendomi che Mussolini non c’era più. Chiamò un carabiniere che stava di piantone e mi fece rinchiudere in camera di sicurezza. Di lì uscii dopo due giorni per l’intercessione di don Attilio Imperato, un maresciallo della Guardia di Finanza in pensione. A questi si era rivolto mio padre, essendo suo amico, non vedendomi rientrare a casa. Il nipote di don Attilio con il suo stesso nome, ora ha una salumeria a via Napoli cioè via Raiola come l’hanno chiamata dopo la guerra, prima della “loggia”.
Uscito dalla cella di sicurezza, non ebbi più nessun posto statale e ho continuato a fare il pescatore fino a qualche anno fa, lavorando saltuariamente nella Cirio di Castellammare, Pontecagnano e, in trasferta, a Verona. Questa è la mia storia, l’ho voluta raccontare a te che sei stato marinaio, seppur in tempo di pace. Grazie per la fotografia del Pola, ho fatto fare un quadretto e ogni sera prego per i miei compagni morti in mare.
Piccole note esplicative sugli avvenimenti descritti:
- Incrociatore leggero varato nel regio cantiere di Castellammare di Stabia il 27 aprile 1930.Fu affondato il 9 aprile 1942 al largo di Stromboli dal sommergibile inglese Urge. Morirono 381 uomini dell’equipaggio su 507.
- Nella prima decade di aprile del 1939 una imponente squadra navale formata oltre dal Giovanni dalle Bande Nere, da altri incrociatori, da due corazzate, da decine di cacciatorpediniere ed altro naviglio sottile, appoggiati dall’aviazione ed in contemporanea con un Corpo di spedizione del Regio Esercito, occuparono la piccola ed in difesa Albania costringendo re Zog all’esilio.
- Cesare Maria De Vecchi partecipò alla Marcia su Roma e fino al 1940 governò con durezza le isole del Dodecaneso.
- Il 26 marzo 1941 una flotta italiana, composta da una corazzata, sei incrociatori pesanti tra cui il Pola, due incrociatori leggeri e tredici cacciatorpediniere si mossero verso Creta. Intercettata dagli inglesi, il Pola fu danneggiato da un siluro e poi colata a picco; le altre navi furono attaccate ed affondate a Capo Matapan. I morti furono 2318 e le navi perdute: Pola, Fiume, Zara, Vittorio Alfieri e Giosuè Carducci.
- L’ammiraglio inglese Cunningham comunicò agli italiani le coordinate dello scontro affinché fossero inviate soccorsi per i numerosi naufraghi. La nave ospedale Gradisca salpò da Taranto il 29 marzo e in 6 giorni raccolse ancora in vita, solo 160 naufraghi. Nave lenta e poco adatta alla ricerca e raccolta naufraghi dispersi in un largo raggio di mare.
- Il cacciatorpediniere Camicia Nera il 4 ottobre 1942, salpato da Brindisi con altre navi di scorta ad un convoglio di rifornimento diretto in Libia, il 6 unitamente al ct Zeno si distaccò dal convoglio per dirigersi verso Novarino nel Peloponneso. Dopo l’attacco aereo a Corinto fu velocemente riparato a Corfù.
- Dagli inizi di ottobre del ’43 e fino al loro sbarco su Lero il 12 novembre, i tedeschi ogni giorno effettuarono massicci bombardamenti su inglesi ed italiani. Durante le 180 incursioni aeree, molti Stukas furono abbattuti dalla contraerea con mitraglie Breda 37 perché gli aerei dovevano abbassarsi quasi a volo radente, per sganciare le bombe e, nella ripresa quota, venivano colpiti nella pancia delle carlinghe.
- Dopo la resa italo-inglese, alcuni ufficiali italiani furono fucilati e gli altri militari portati in terraferma e poi nei campi di concentramento polacchi e tedeschi. Non si ebbe l’eccidio come Cefalonia, per il clamore che aveva suscitato l’orrendo episodio. Essi escogitarono un altro stratagemma, vecchie navi cariche di prigionieri italiani, furono fatte affondare portandole su campi minati.