Chiesa di San Michele al Monte Aureo - Alvino (stampa d'epoca coll. G. Fontana).

Storia documentata della chiesa di San Michele al Faito

LA STORIA DOCUMENTATA DELLA CHIESA DI SAN MICHELE ARCANGELO SUL FAITO

di Michele Palumbo

( trascrizione a cura di Maurizio Cuomo )

Chiesa di San Michele al Monte Aureo - Alvino (stampa d'epoca coll. G. Fontana).

Chiesa di San Michele al Monte Aureo – Alvino (stampa d’epoca coll. G. Fontana).

La prima cappella che, come è facile intuire, fu una baracca in legno, sostituita da «soda fabbrica»1 in pietra viva – materiale a portata di mano sulla montagna – rimonta al secolo nono. Ce ne dà notizia il Rev.mo Capitolo della Cattedrale Stabiese. Il quale, privato della sua parte di proprietà del Faito, toltagli da Giuseppe Napoleone nel 18072, pur senza aver mai smesso di reclamare i suoi diritti, col ritorno dei Borboni a Napoli3 prese vieppiù ad insistere per rientrarne in possesso.
La risposta data al Sottointendente di Castellammare di Stabia, il 2 novembre 1822, alla nota n. 69 del 12 ottobre, si apre così: «Essendo stato costruito nel 9° secolo dal Santo Vescovo e Protettore di questa Città San Catello, un tempio in onore del Gloriosissimo Arcangelo San Michele sulla sommità del Monte Aureo, da alcuni detto Gauro, o Gaudo, e da altri Monte S. Angelo a tre Pizzi, rimase fin d’allora addetto a questa Chiesa Cattedrale il lodato tempio, con tutte le sue pertinenze, fondi e rendite, cioè con i boschi e selve da cui detta montagna è coronata».
Non ritengo sia questa la sede per un esame critico a proposito dell’epoca enunciata dal Rev.mo Capitolo con esplicita affermazione. Ma non posso non rilevare che il Capitolo avrebbe avuto tutto l’interesse a dichiarare il possesso retroattivo della proprietà – ai secoli VI o VII, come vorrebbero alcuni scrittori – perché la maggiore antichità sarebbe stato motivo più valido a sostenere la richiesta. Il partire dal secolo IX va ritenuta genuina espressione di verità che i Canonici del tempo, per sacerdotale dovere di coscienza, non potevano alterare.
La notizia è confortata da altra importante documentazione: un atto del Consiglio di Intendenza, chiamato dalle Autorità superiori, in sede fiscale, a giudicare sulle ripetute istanze del Capitolo. Difatti la I parte di detta memoria, relativa alla zona montana, redatta dall’Organo competente, comincia così: «Possiede il Capitolo di Castellammare, fin dal nono secolo, il monte detto S. Angelo o Aureo o Gauro, con vari boschi e selve, che lo circondano»; e la II, riferita alla chiesetta: «Il Capitolo della Cattedrale di Castellammare di Stabia, possiede sin dal nono secolo la Badia della Chiesa di S. Angelo a tre pizzi sul Monte Gauro, o Aureo in tenimento di Castellammare, con vari boschi e selve, che lo circondano».
Il Capitolo insiste ancora con l’istanza del 22 luglio 1826 indirizzata al Re, firmata dall’Arcidiacono V. B.4 Francesco Saverio Buonocore e dal Canonico don Salvatore Dattilo: «Il Capitolo della Cattedrale di Castellammare di Stabia umilmente rassegna alla M. V. che possedendo fin dal nono secolo la Badia della Chiesa di S. Angelo a tre pizzi sul Monte Gauro o Aureo in tenimento di Castellammare con i Boschi, e le Selve da cui detta Montagna è coperta … ecc.».
Tale istanza figura registrata nel protocollo della locale Sottointendenza al n. 1297, in data 24 luglio 1826.
E’ ovvio che, trattandosi di decisione da gravare sull’Amministrazione dei Beni di Casa Reale e sul Regio Erario, il Consiglio d’Intendenza dovette esperire le più accurate indagini se vi impiegò i quattro anni intercorsi fra l’accennata richiesta Capitolare e le conclusioni dell’istruttoria.

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Quanto tempo rimase in piedi la prima chiesa in muratura? Ci mancano dati precisi. Però qui è bene notare che, a parte la durata della sua staticità, mai mancano i Brevi dei Pontefici, seguiti da rispettivi exequatur dei Sovrani, attraverso i quali, e con sentenze di Vescovi e diplomi di Principi, trascritti nell’apposito Bollario, fu sempre riconosciuta la giurisdizione della Chiesa Madre di Stabia e di Castellammare di Stabia sul tempio del Faito e sulle proprietà annesse. Comunque alla lunga lacuna documentaria, a partire dai ricordi che ancora vanno sotto il nome di – tradizione -, fino al tempo del Vescovo Monsignor Coppola, possiamo sopperire sia tenendo presente che le riparazioni fatte nel 1690 per «allargare» il tempietto dopo la caduta del fulmine, e poi quelle del 1694, ne conservarono la staticità (confortati in proposito anche dal silenzio del Milante almeno fino al 1749); sia annotando che Monsignor Coppola, resa transitabile la strada, e apportate varie «decorazioni» alla chiesa e all’altare, il «28 settembre 1762 la consacrò come si ravvisa dalla … iscrizione» di cui abbiamo notizia dal DE STABIIS, nella biografia di quel Vescovo.

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Dobbiamo arrivare al 1818 per rimetterci nel filone documentato della storia, di cui ai felici esiti delle mie ricerche.
L’Architetto dell’Amministrazione Giuseppe Zecchetelli, incaricato, con foglio n. 625 del 28 febbraio di quell’anno, di riferire sulle richieste del Capitolo, avendo proceduto ad apposito sopralluogo, nel suo rapporto del 30 dicembre – rapporto richiamato nella sua successiva relazione del 30 marzo 1820 (con la quale inoltrava al suo Direttore il ricorso del Capitolo Stabiano – estensore l’avvocato don Mercurio Santaniello – diretto a S.M. il Re) – scriveva: «Vi era una Cappella sotto il titolo di S. Michele Arcangiolo, nel luogo detto Monte Gauro; della quale vedonsi le sole mura essendo stata abbattuta la volta da un fulmine, e non esiste altro che un sol cordone quasi diruto».
Qui occorre affidarci agli atti amministrativi del Capitolo, relativi ai lavori di cui da quel tempo la cappella fu oggetto.
Nel 1814 dai capimastri muratori (gli imprenditori edili di oggi) Pasquale e Lorenzo Anaclerio (zio e nipote) di Agerola, e sotto la direzione dell’Architetto Michele Iennaco, si procedette a sostanziali riparazioni per ducati 736 e grani 23, attestati con nota di spese del 6 novembre; rimanendo preventivati altri lavori, per ducati 175 circa, da farsi improrogabilmente nel maggio 1815: lavori che furono effettivamente portati a termine e quietanzati il 10 agosto. Le due note di spese, redatte e firmate dal Direttore dei lavori, sono controfirmate dal Canonico Cantore don Giacinto d’Avitaja, Deputato dal Capitolo a soprintendere alla chiesa del Faito. Il quale, per giunta, in difetto di disponibilità finanziaria della Cassa Capitolare, per soddisfare gli impegni presi coi capimastri, contrasse «in proprio nome» due debiti: per «ducati 200» ad interesse del «sette per cento» con don Vincenzo Donnarumma di Pimonte, e per altri 200 «alli otto per cento» col Capitano don Guglielmo Arazas (o Mazas) di Napoli.
La «riedificazione della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, sul Monte Gauro» fu ultimata parecchi anni dopo, sempre sotto la direzione dell’Architetto Iennaco, dal capomastro muratore Felice Limauro di Pimonte. E furono lavori per i quali il Capitolo ne dovette superare di difficoltà se nella sua risposta del 2 novembre 1822, innanzi citata, affidandosi alla «bontà e religione» del Sottointendente in carica, lo pregava di «interporre» i suoi «valevoli uffici» a che gli venisse corrisposta dall’Amministrazione dei Beni di Casa Reale la promessa indennità di 400 ducati a tacitazione dell’incameramento dei boschi e selve del Faito, «massime in un momento nel quale questo Collegio sta erogando delle somme vistose per la ricostruzione del lodato Sagro Tempio di San Michele, da un incendio sfortunatamente distrutto, onde restituirlo al pubblico Culto, e alla venerazione di questa, e delle altre, anche lontane Popolazioni, che son solite recarvisi in folle a venerare quel rinomato, ed Augusto Santuario». Per questi lavori al capomastro Limauro furono versati ducati 1157,97 in acconto, e a saldo ducati 2750,64 e 59/64. Nel corrispondente «certificato» redatto e firmato dall’Architetto il 5 settembre 1825, su foglio bollato di grani 12, avallato dalla firma dei Deputati del Capitolo: Canonico Cantore don Giacinto d’Avitaja e Canonico don Giovanni Iovino, e registrato presso il competente Ufficio di Castellammare di Stabia il 9 settembre, l’Architetto ci ha lasciato dei ragguagli di particolare importanza per la storia che stiamo trattando.
1) «Nell’assetto interno dei muri che chiudono la predetta Chiesa si son ricacciati i pilastri di ordine ionico coroso al S° di sedici col corrispondente fregio e cornicione, e frà (sic) i loro intervalli si è riportata una semplice divisione di quadri con finimenti di fasce, e controfasce. Dippiù all’intorno della nicchia, che rimane di spall’all’altare maggiore, si è combinato un proporzionato remenato. In oltre a destra, e a sinistra della detta Chiesa sonosi ricacciate altre due nicchie con simili cornici con mensa, e platella di faggio. Quali descritti semplici ornamenti si sono coverti di stucco …».
2) Ai pilastri furono attaccati dodici medaglioni di marmo giallo venato «per depositarvi le reliquie dei Santi, quando avrà luogo la consacrazione della medesima, ciascuno di diametro palmi uno con al centro l’incavo del rispettivo sepolcro compito di tega di lamine di latta, e di proporzionata lapide colorata di copertura».
3) «La balaustra di faggio su di uno scalino dello stesso legname, e due confessionili», sempre di faggio, «a due uditori». Più interessanti ancora sono le notizie che l’Architetto ci dà, a giustificazione delle spese, sulla statua di marmo dell’Arcangelo, rivoluzionando quanto finora ci è stato tramandato.
4) «La Statua di S. Michele siccome in tempo, che stiede esposta nel Vescovado soffrì del danno nel braccio destro, e in altre parti della testa, e della veste, così dallo statuario don Raffaele De Martines si è dovuto far riaccomodare, e vi ha impiegato sul Monte la fatica di dieci giorni continui, quale fatica venne convenuta per il limitato prezzo di ducati 36.
Per potersi detta Statua fissare nella nicchia di spall’all’altare maggiore, si è dal marmoraro squadratore Saverio di Maio composto frà detta nicchia un basamento di marmo retto da due tronchi rimasti delle vecchie colonne5, dietro l’incendio, che rovinò l’antica Chiesa nel 1818, ed ornavano il fronte della antica distrutta nicchia ove era la stessa statua, e per tale basamento vi ha impiegata la fatica di giorni otto, che venne con venuto pel prezzo di ducati otto».
Provvidero gli stessi statuario De Martines e marmoraro di Maio «in trasportare in sul Monte la detta Statua, e altri pezzi di marmo …. spesa ducati 15,30».
I cenni qui riportati dei due Architetti non ammettono contestazioni. Solo è da notare che lo Zecchetelli attribuisce alla caduta del fulmine i ruderi avvistati nel suo sopralluogo del 30 dicembre 1818; mentre è giusto accettare quanto, pienamente concordando, dicono il suo collega Iennaco e i Canonici della Cattedrale: che cioè i danni cagionati e visti da Zecchetelli provengono dall’incendio verificatosi nello stesso anno 1818. Il fulmine del 1689 sfondò, sì, «la lamia» della chiesa, ma lasciò inviolata la statua di marmo dell’Arcangelo, la quale non fu danneggiata sul monte. Se questa fu portata giù in quell’occasione o successivamente, ed esposta nel «Vescovado», dove subì i guasti notati dall’Architetto Iennaco, fu certamente buona misura cautelare per metterla al sicuro, mancando sul monte una custodia adatta.
Altra conclusione, a cui ci è facile pervenire, è che alla statua fu fatto fare diverse volte il viaggio fra il piano e il monte. Sbarcata a Stabia, portata da San Catello al suo ritorno da Roma (secondo la tradizione), fu trasferita sulla vetta e collocata nel primo tempio in muratura; riportata giù, tornò sul monte nel 1825, come or ora abbiamo appreso, a cura degli artigiani De Martines e di Maio; ed infine, ridiscesa, ha avuto la sua definitiva sistemazione in Cattedrale a partire dal 20 dicembre 1862, secondo quanto ci ha lasciato scritto Monsignor Di Capua a pag. 96 del suo SAN CATELLO E I SUOI TEMPI.

l'Antichissima statua di san Michele (foto Maurizio Cuomo)

l’Antichissima statua di san Michele (foto Maurizio Cuomo)

Quindi non essendovi stata causa né di fulmine né di incendio, è legittimo ammettere:
a) che il motivo dell’ultima rimozione della statua fu per sottrarla sia all’azione dei geli e disgeli, sia alla nefasta opera del brigantaggio che a quel tempo infestava la montagna;
b) che la statua non dovette subire altri danni oltre quelli ricordati dall’Architetto
Iennaco, eccetto le macchie di fuoco, nell’incendio del 1818, notate da Monsignor Di Capua6; e conseguentemente non occorsero altre rappezzature al di fuori di quelle apportatevi, sia pur con poca arte, dallo statuario De Martines.

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Procediamo nella successione storica.
Su una lapide di marmo, a ricordo, si leggeva la seguente epigrafe, che qui viene riportata tradotta dal latino:

QUESTO TEMPIO
RIFATTO A SPESE DEL REV.MO CAPITOLO
IL VESCOVO STABIESE ANGELO MARIA SCANZANO
IL 29 LUGLIO 1843
CONSACRO’ SOLENNEMENTE
ASSEGNANDO L’ANNUALE FESTA DELLA DEDICAZIONE
AL GIORNO 1 AGOSTO

Ferma restando la data del 29 luglio 1843 che ricorda la consacrazione del tempio ricostruito, notiamo che la data – 1 agosto – per la festa liturgica della dedicazione era stata già decretata dal Vescovo don Giuseppe Coppola quando, riattata la strada, il 28 settembre 1762, «dopo varie decorazioni fatte nella chiesa, e nell’Altare del Santo», la consacrò. Del che è documento l’epigrafe riportata nello stesso DE STABIIS. Tomo II, pag. 161. Quindi con la consacrazione del 1843 fu confermata la data per celebrare liturgicamente l’annuale ricorrenza.

Alla frase «Questo tempio – rifatto a spese del Rev.mo Capitolo» fu data una errata interpretazione ritenendo che il tempio consacrato da Monsignor Scanzano fu ricostruito nel 1843. In proposito disponiamo di un documento che non ammette dubbi. Si tratta di una planimetria su «scala di palmi 40 napoletani», disegnata e firmata nel recto dall’Architetto Michele Iennaco, che nel verso porta, con la data 14 ottobre 1842, la controfirma di Andrea Pisacane, Deputato Capitolare.
Manoscritto dall’Architetto, a margine della planimetria, si legge: «Pianta della Chiesa esistente sul monte Gauro in onore dell’Arcangelo San Michele, e dell’altre fabbriche attaccate alla medesima, di dominio dell’Ill.mo, e Rev.mo Capitolo della Cattedrale di questa Città di Castellammare di Stabia».
Il manoscritto continua:
«La delineata Chiesa, e l’altre fabbriche ad essa unite, restan piantate alla sommità di una roccia, che si osserva quasi a picco elevata sul riferito monte, del limitato spazio, che si vede in figura. Quindi la maggior parte delle fabbriche piantate su tal roccia, han molto sofferto verso i lati, che si oppongono a Levante, e a Mezzogiorno per la trascurat’annuale manutenzione secondo la natura del locale».
Quell’- esistente – e quel ripetuto – restan piantate – dicono esplicitamente che a metà ottobre 1842 la chiesetta, sulla vetta a quota 14437, era in piena staticità, abbisognevole solo di ritocchi, ai quali tempestivamente provvide il Capitolo, a sue spese, così che tutto potette essere pronto per il rito officiato dal Vescovo Scanzano il 29 luglio 1843, e per la festa che, col consueto concorso di popolo, si svolse il 31 e 1 agosto successivi, come risulta dalle cronache archiviate di quell’anno. Tanto ci spinge a ritenere che la chiesa consacrata da Mons. Scanzano fu quella «riedificata» in previsione della consacrazione, segnalata nella petizione in data 2 novembre 1822 del Capitolo Cattedrale al Sottointendente di Castellammare, e nel certificato redatto il 5 settembre 1825 dall’Architetto Iennaco, con l’analitica descrizione dei lavori eseguiti (Cfr. documenti riportati nelle pagine avanti).
E possiamo aggiungere che il suggerimento dell’Architetto, sulla necessità di una «annuale manutenzione» fu in qualche modo tenuto presente dal Rev.mo Capitolo, in quanto fra gli atti amministrativi si trovano registrate spese per lavori fatti nel 1848 dal maestro muratore Pierpaolo Rispoli per ducati 84,21 e nel 1859 per ducati 77,22.

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Passiamo a tempi più vicini a noi, quando dal 1860 al 1865 il brigantaggio, purtroppo, si diffuse anche in tutto il meridione d’Italia, capitanato dal capobanda Crocco.
Dalla – Guida illustrata di Castellammare di Stabia – di Michele Salvati apprendiamo che a causa del brigantaggio che infestò i nostri monti, la chiesetta fu abbandonata e «divenne un mucchio di macerie. Ma il Conte Giusso, proprietario della montagna, con nobile pensiero ne ordinava la riedificazione nel 1899 su disegno dell’Ingegnere Francesco Eligio Vanacore».
Approfondiamo la notizia.
Con una lettera in data 7 settembre 1882 il Vescovo Mons. Sarnelli informava il Capitolo Cattedrale che il Conte Giusso, indirizzandosi personalmente a lui, quale Ordinario Diocesano, al fine di arrivare a un pacifico accordo8, lo aggiornava d’aver rivendicato «dal Governo i due tratti che vanno col nome di Acqua Santa e Castellone» avendo «dimostrato che facevano parte dell’antico feudo dei Ravaschieri di Vico» da lui acquistato; e di aver «comprato dal Demanio per lire tremila quel tratto ove trovasi la chiesa diruta di San Michele».
Il Conte faceva offerta di «un compenso» da «servire per la fabbrica della Cattedrale e ricostruire a sue spese la chiesa di San Michele». Che si sia pervenuti all’accordo è da intuirlo, perché il Conte effettivamente fece preparare dall’Ing. Francesco Eligio Vanacore il progetto del Tempio che, peraltro, non fu realizzato. La planimetria, su scala 1 / 100, che porta la data del 30 luglio 1899, è rimasta solo a ricordo del «nobile pensiero» del Conte Giusso.

Chiesetta di S. Michele sul Monte Faito. Prog. Ing. Vanacore

Chiesetta di S. Michele sul Monte Faito. Prog. Ing. Vanacore

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A mantenere viva la pia tradizione e la devozione all’Arcangelo San Michele, a San Catello e a Sant’Antonino, pensò il salesiano Vescovo Mons. Emanuel, che sedette sul trono stabiano dal 1936 al 1952. L’attivissimo Pastore, a quota 1280, e quindi ai piedi del Molare, volle impiantare il tempio ora esistente, del quale, per devota offerta, fu progettista e direttore dei lavori l’Ingegnere Guglielmo Vanacore. A lui si unirono, in religiosa gara di omaggio, l’imprenditore edile signor Luigi Vanacore e il Comm. Rag. Amilcare Sciarretta. Quest’ultimo, trovandosi a capo della sezione locale del Club Alpino, organizzò un’ascensione al monte di quanti vollero portare un mattone per il più sollecito sviluppo della fabbrica; e successivamente, col contributo dei suoi colleghi di ufficio, potette offrire, a nome del personale della Banca d’Italia, la statua in marmo, fedele riproduzione di quella che la tradizione attribuisce all’epoca di San Catello, intronizzata nel nuovissimo tempio dopo che l’ebbe benedetta di Sua Mano il Papa Pio XII.
I lavori pel sacro edificio cominciarono, in economia, verso la fine del 1937, con la previsione che sarebbero state spese cinquantamila lire, senza la scala nel campanile e la campana, senza l’altare di marmo e senza la croce sul prospetto esterno. Le misure del tempio sono: lunghezza m. 21, larghezza m. 8,50, altezza m. 14, il campanile arriva a m. 18,60.
In un’attestazione in data 6 aprile 1940 l’Ingegnere Vanacore ebbe la soddisfazione di scrivere che la costruzione del grezzo, per un’altezza di m. 2,60 dal piano di campagna, era già stato eseguito per un terzo. Il sopravvenire delle ostilità del 2° conflitto mondiale fece sospendere i lavori, che furono ripresi e portati a termine, a guerra finita, con l’intervento e i fondi a disposizione del Genio Civile di Napoli, in quanto l’interruzione fu giudicata entrare nei danni di guerra.
Il Vescovo Mons. Emanuel, che ne aveva posta la prima pietra il 24 ottobre 1937, potette benedire il tempio, voluto dalla sua tenace azione, la mattina del 13 settembre 1950, presenti l’Arcivescovo di Sorrento e il Vescovo di Campagna.
Il suo Successore, Monsignor Agostino D’Arco, provvide ad ulteriori lavori di protezione della fabbrica dalle intemperie montane, e completò il trio dei Santi con le statue di San Catello e Sant’Antonino, offerte rispettivamente con l’obolo degli stabiesi, raccolto dal signor Catello Greco, e da Mons. Palatucci, Vescovo di Campagna: statue che lo stesso Vescovo D’Arco benedisse l’8 maggio 1955, in piazza Cantiere, durante l’annuale processione nella ricorrenza liturgica del patrocinio del nostro santo Patrono.


Note: 

  1. T. Milante – DE STABIIS. Tomo I, pag. 135.
  2. Ecco il testo del Decreto:
    Art. I. – L’intera Montagna di Faito, consistente nel Demanio di Pimonte, Vico Equense, e Faggio del Capitolo di Castellammare sarà aggregata alla Real Delizia di Quisisana.
    Art. II – Il Consigliere di Stato, incaricato della Generale Intendenza di Nostra Casa, proporrà il compenso da darsi al Capitolo di Castellammare.
    Art. III. – omissis.
    Il Ministro dell’Interno, ed il Consigliere di Stato, incaricato della Generale Intendenza di Nostra Casa, sono incaricati dell’esecuzione del presente Decreto. Napoli, 13 agosto 1807 Giuseppe
    Il Segretario di Stato F. Ricciardi
  3. Anno 1815 – Ferdinando II – re delle Due Sicilie.
  4. Milante, op. cit., Tomo II, pag. 20 chiarisce: V. B. – Virum Bonum Uomo buono.
  5. Sono le colonnine che portò San Catello da Roma?
  6. Cfr. nota (2), pag. 96, op. cit. di Mons. Di Capua.
  7. Il prof. Libero D’Orsi la mette a quota 1456. (Cfr. Come ritrovai l’antica Stabia. Ed. Rinascita artistica. Napoli 1956, pag. 16).
  8. Notare l’ossequio alla Madre Chiesa da parte del Conte, secondo le antiche consuetudini. Egli desiderava sanare l’acquisto di una proprietà già appartenente al Clero, col concordare l’entità dell’omaggio pecuniario da corrispondere, per tranquillità di coscienza.

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