Seppur brevemente non potevo esimermi dal commentare ed introdurre questo nuovo raffinato studio del prof. Antonio Ziino, giornalista e ricercatore purosangue (sicuramente noto alla stragrande maggioranza degli stabiesi, per le sue innumerevoli pubblicazioni), che quest’oggi onora liberoricercatore.it di un’esclusiva importante: “La vita di Ciro Denza” inquadrata magistralmente nel tempo in cui egli è vissuto. Al di là dell’ardua ricerca (di per sé meritevole), con la quale quest’oggi viene a colmarsi una grossa lacuna storiografica (poco si era scritto sul Denza, pittore stabiese), ciò che del prof. Ziino, mi colpisce particolarmente, è la minuzia espressiva con la quale: fotografa, colora e arricchisce di suggestione, le sbiadite pagine di uno spaccato di vita stabiese ormai dimenticata.
Maurizio Cuomo
Ciro Denza e il suo tempo. L’opera Artistica e sociale
articolo del prof. Antonio Ziino
Due date ricordano quest’anno la singolare figura di Ciro Denza “Artista pittore”, barone del Regno, Console della Repubblica del Paraguay, benemerito della salute pubblica, direttore proprietario dell’“Hotel Grande Brettagne et Pension Anglaise”, economo del Ristoro per poveri, incarico deliberato dal Municipio di Castellammare di Stabia, fratello del più noto Luigi, musicista di livello internazionale, autore di numerose opere nonché della celeberrima Funiculì Funiculà che si canta in tutto il mondo.
Ciro Denza nacque a Castellammare di Stabia l’otto febbraio 1844 dove morì il dieci febbraio del 1915. Sono passati, dunque, 170 anni dalla nascita e 130 anni dalla nomina a economo del Municipio per le opere di beneficenza. Fu questo un periodo difficilissimo per la Città di fine Ottocento, afflitta, tra l’altro, verso il 1888 da una nuova diffusissima epidemia di colera, iniziata in modo latente già anni prima, che provocò numerosi morti e vide l’impegno tangibile anche della Chiesa locale col suo vescovo, monsignor Vincenzo Maria Sarnelli, che meritò, tra gli altri elogi, la Medaglia d’Oro al valor civile per i soccorsi prestati alla stremata popolazione.
La famiglia Denza, di agiate condizioni finanziarie, insignita della “Corona di Barone” (con stemma cerchiato di oro rabescato a “fogliami smaltati” policromi…) era originaria di Napoli: il padre di Ciro, Giuseppe, abitava in Via Chiatamone (poi si trasferì a Castellammare di Stabia). Ma i Denza, con parentele soprattutto a Castellammare di Stabia e a Palermo, nel 1899 sono ancora presenti in Napoli con nobildonne e baroni: Adele, Eduardo, Elena, Emma, Francesco, Gennaro, Ida, Maria, Raffaele di Ed., Raffaele di Fr., Vincenzo.
Don Giuseppe Denza, cultore e competente di musica, amico di molti cantanti lirici e musicisti, tra cui Rossini, ritornato da Londra, dove curava una parte dei suoi affari (era, tra l’altro, “Azionista della Regia Cab. de’ Sali, Tabacchi e polveri da Spari”, rilevava, insieme con “Don Giuseppe Viet” , albergatore, con esercizi in importanti città, la gestione del “Grande Albergo di Londra e trattoria” di proprietà di Vincenzo Vingiani che funzionava, sin dal 1832, in Via Marina, oggi Via Mazzini, ribattezzato dal Denza nel 1842 “Albergo della Gran Brettagna”. Nel 1843 “Sua Eccellenza Don Giuseppe Denza”, quando aveva 48 anni, sposò la diciottenne pronipote Giuseppa Savoca, di Palermo, figlia di Carmelo e Rosa Denza. Dall’unione nacquero Ciro, Luigi e Catello, poi defunto. Ciro che si sposa il 27 novembre 1863 con Annunziata Bezzi, ebbe due figli: Giuseppe e Giuseppina (nomi imposti, secondo una consolidata tradizione in alcune famiglie locali dei tempi passati, forse per ragioni di eredità), dopo le nozze, continuò a collaborare nella conduzione dell’albergo, sempre coadiuvato dalla cognata Maria Savoca (che erediterà mille ducati per il lavoro svolto) anche quando l’attività fu trasferita nel 1849 nella Strada Quisisana con il nome di “Grand Hotel Quisisana” (è da notare che alcuni gestori si alternavano nella conduzione di esercizi pur non conservando la stessa ragione sociale o viceversa).
Ciro alla morte del padre, divenne l’unico gestore dell’albergo, coltivando, però intensamente, la sua passione per la pittura, “arte ritenuta nobile attività”, anche se “poco popolare”, “ma ben inserito anche nel circuito espositivo internazionale”, ebbe prestigiosi riconoscimenti in Italia (dove un suo quadro, dietro consiglio dei consulenti di Casa Reale, fu acquistato dal re d’Italia) e all’estero, specialmente a Nizza (un suo paesaggio, di proprietà dell’ambasciatore di Germania, W. Rendel, fu molto apprezzato all’Esposizione Internazionale, e un altro quadro, intitolato “Porto di Castellammare di Stabia, fu premiato alla Mostra Internazionale di Liverpool. Diversi suoi quadri figurano anche in importanti rassegne del 1879, 1885, 1886, 1888.
Questo, il giudizio sintetizzato dai titolari della libreria Alfonso e Luigi Canzanella, nota particolarmente come centro di cultura, nel “Diario della vita di Scuola”, 1926: “Ciro Denza nacque a Castellammare di Stabia nel 1844. Pittore di sicura fama, predilesse il paesaggio. Nei quadri Presso il burrone, acquistato da Re Umberto, Paesaggio di Napoli, Distruzione, Reliquerunt omnia, L’ultimo raggio, egli seppe sposare… il paese alla figura dando al primo le tinte, i riflessi, le note malinconiche o allegre che più convengono all’animo dei personaggi rappresentativi.
Il Denza fu celebre specialmente per le sue marine: Da Porto Salvo, Porto e Arsenale, Paesaggio fantastico, Il mattino, ecc. sono quadri ammiratissimi…”.
La nota fu scritta una decina di anni dopo la morte del Pittore, testimone, insieme con i Canzanella, di uno squarcio di vita stabiese di fine secolo, ricca di avvenimenti mondani, come i cronisti locali si compiacciono di ricordare e sottolineare, ma anche di diffusa miseria che coinvolgeva la fascia di un vasto sottoproletariato che praticamente viveva ai margini, materiali e psicologici, di una classe più agiata cui appartenevano i pochi professionisti, alcuni industriali, commercianti e proprietari di terreni, che spesso vivendo altrove, ma con dimore, anche lussuose, sulla fascia collinare, si avvalevano delle prestazioni di contadini locali.
“I signori, non tutti, per non perdere la manovalanza pagata con irrisori compensi”, ostacolavano, quando e come potevano (la “servitù” era remunerata, si fa per dire, solo concedendo vitto e alloggio), quel tanto auspicato processo evolutivo da più parti invocato, che avrebbe certamente migliorato le condizioni socio-economiche di Castellammare di Stabia e del comprensorio.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il Paese, a seguito del plebiscito approvato si avviò verso l’unità d’Italia, poi Napoli non fu più capitale e la storia continuò il suo cammino.
Anche dopo l’Unità, però, non era cambiato nulla come è dimostrato dai fatti e lo sguardo sugli avvenimenti deve essere di carattere “panoramico” e non scandito da date o singoli episodi. Si nota così che neanche con la suddivisione delle terre ai contadini, i grandi latifondisti continuavano a dettare legge a scapito dei contadini che a stenti riuscivano a sopravvivere: infatti le terre demaniali, cioè comunali, utilizzate dall’antichità per il pascolo e per la raccolta della legna, il potere centrale decise di dividere le terre in piccoli lotti da affittare a basso canone per favorire i contadini poveri: sarebbe nato così un sistema produttivo di piccoli proprietari. Senonché il compito della lottizzazione fu affidato alle amministrazioni comunali, composte di proprietari terrieri, i quali forti dei loro privilegi e poteri usurparono le terre ai contadini, togliendogli i diritti di pascolo e di legna non solo, ma fu reso anche obbligatorio il servizio militare per i giovani (coscrizione della durata di tre anni) molto odiato dai contadini perché sottraeva dalle campagne le forze più idonee per i lavori nei campi.
L’aspetto, del malessere sociale, è un problema che quasi mai viene ricordato dai memorialisti locali che scelgono di presentare una città fastosamente elevata – e ciò non è vero – e piena di ricchezze e bellezze naturali – ed è vero – però mai adeguatamente valorizzate.
Come si sa, però, le classi meno abbienti, hanno fatto sempre fatica a procacciarsi il necessario per vivere e ciò è stata la loro principale, costante preoccupazione.
Infatti, quanti dicono che tutti lavoravano, che non esistevano disoccupati e che, magari si viveva bene, tranquillamente e che si gioiva, evidentemente non hanno avuto mai occasione di approfondire il tenore di vita della comunità locale (che, comunque, va inquadrata sempre nel contesto delle vicende nazionali), si tratta di una visione falsata, “inquinata” da fatti narrati o descrizioni errate, adatte più per la stesura di una guida turistica che per descrivere la reale situazione. Inoltre, bisogna tener presente che quando si parla di villeggiatura, di presenza di signorie gente altolocata, è utile ricordare che il periodo di villeggiatura estivo si esauriva nell’arco di una sessantina di giorni anche perché trattandosi di persone appartenenti a caste ricche o ambienti politici, avevano necessità di ritornare a Napoli per essere presenti alle riunioni e conversazioni nei centri di potere che per lo più si svolgevano in determinati salotti.
La storia, si sa, la scrivono i ricchi e i vincitori, quelli che perdono e i poveri, che non “hanno voce in capitolo” sono destinati a rimanere nell’oblio.
Anzi, Cicerone diceva che la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità.
Naturalmente questo è il mio punto di vista, anche se suffragato da autorevoli testimonianze, ma, ovviamente, ripeto ancora una volta che vanno rispettate tutte le opinioni e ognuno è libero di vedere le cose come vuole e descriverle come meglio crede.
Questo scritto anche se vuole essere e rimanere un semplice articolo, intende non rinunciare alla descrizione molto sommaria riguardante la vita di alcune passate generazioni.
E’ il periodo, circa l’ultimo quarto di secolo, in cui si profila, si delinea e si identifica in tutta la sua gravità quella situazione che è stata denominata “Questione Meridionale” (la definizione venne usata per la prima volta nel 1873, dopo molti studi, ricerche, sopralluoghi di politici, studiosi, medici, anche nelle zone e paesini più sperduti raggiunti a volte anche su dorso di asini) per sottolineare la disastrosa situazione economica nel Mezzogiorno rispetto alle altre regioni dell’Italia unificata, che ha interessato, come si sa, regioni, città, comuni grandi e piccoli, analizzata e descritta da coloro che poi, direttamente o indirettamente, hanno tracciato nel bene e nel male, crediamo in buona fede, le strade dello sviluppo, ma determinando anche il fenomeno di un sottosviluppo, provocando in modo “irreparabile” le divaricazioni tra il nord e il Sud del Paese.
Riporto brevemente, per rinfrescare le idee di qualche giovane, il pensiero dell’illustre concittadino, “storico del nostro Mezzogiorno”, professor Gabriele De Rosa (la famiglia aveva alberghi tra Castellammare di Stabia e Gragnano e una villa a Varano): “Le malattie endemiche sono solo la manifestazione più visibile di una malattia ancora più profonda, che rende affannoso il cammino del Sud: la debolezza organica di una classe dirigente che ha accettato la staticità sociale del Mezzogiorno come premessa ineluttabile e necessaria per garantire una gestione protetta e paternalistica del potere locale”. Egli immaginava un diverso percorso storico, che non fu: il corso di una storia di terre produttive senza latifondo ed assenteismo padronale, con una borghesia non avvocatesca e formalistica, ma intelligente e coraggiosa, colta e responsabile, con una città non parassitaria e non disordinata ma al servizio di uno sviluppo nazionale ed omogeneo del contado, con un’industria in armonia con il paesaggio agrario.
Sempre nella seconda metà dell’Ottocento, emersero anche federazioni di famiglie organizzate su base regionale, che sarebbero poi diventate: Cosa Nostra in Sicilia, la Camorra in Campania, la Sacra corona unita in Puglia e la ‘Ndrangheta in Calabria. La presenza di tali organizzazioni criminali incide fortemente in modo negativo sullo sviluppo socio-economico del territorio meridionale.
Ed è l’epoca in cui fioriva, anche qui, il brigantaggio nefasto fenomeno così ben descritto dal professor Antonio Barone nel suo libero “I briganti dei Monti Lattari”, ricco di documenti e narrazioni.
Antonio Barone ricorda vari episodi che turbavano la vita in quei tristi anni. Di fronte la crisi economica dilagante, il lavoro stagnava e, sia per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, sia per le forti imposizioni fiscali, serpeggiava sempre di più il malcontento anche nelle classi borghesi e anche “il cantiere navale era in procinto di smobilitare del tutto…”.
Un altro studioso, il professor Franco Ferrarotti, titolare della prima cattedra di sociologia istituita in Italia, è venuto a Castellammare di Stabia negli ultimi anni del 1950, insieme con un gruppo di sociologi ed ha svolto una profonda, dettagliata indagine, poi pubblicata, anche attraverso numerose interviste, per conoscere dal “vero” le condizioni di vita degli stabiesi nati verso la fine del secolo e ancora viventi durante l’indagine. Il lavoro di Ferrarotti, intitolato “La Piccola Città” è una pubblicazione di straordinaria importanza che tutti dovrebbero leggere per conoscere, seppure indirettamente, la vita dell’Ottocento e di fine Novecento.
Ferrarotti, dopo aver descritto la situazione ambientale, politica e socio-economica, raccoglie dal “vivo” una serie di importanti testimonianze.
Lo studioso individuava, nel quadro di una rigida semplicità della stratificazione sociale locale, la presenza di cinque livelli marcatamente distinti (classe superiore, media, lavoratrice – operai + piccoli commercianti -, contadini e sottoproletariato), secondo Ferrarotti “questo” è lo standard tipico della classe lavoratrice e di una buona parte della classe media. I due estremi della scala si discostano da questo standard: l’estremo superiore in quanto tende a differenziarsi assimilando modi di vita più moderni e spregiudicati, l’estremo inferiore in quanto l’alto grado di miseria disgrega il nucleo familiare o almeno non permette che una debole coesione tra i suoi membri, singolarmente autonomi e dediti – in un forzato egoismo – a procacciarsi i mezzi di sopravvivenza”
La vita di alcune passate generazioni, come si può notare, era difficile. Il lavoro costava “poco” (nel senso che era pagato poco). Gli strozzini facevano affari d’oro (d’altro canto, anche oggi “campano” bene…Parola di cronista!).
La giornata di lavoro di un contadino, per esempio, era pagata il corrispondente odierno di 3 € (15-20 Grana di allora), quella degli operai generici valeva in media 5 € che salivano a 6,50 € per quelli specializzati (dai 20 ai 40 grana); per quanto riguarda i costi dei vari prodotti, va notato che un rotolo di pane (800 grammi) costava 6 grana (1 €), un equivalente di maccheroni 8 grana (1,30 €), di carne bovina 16 grana (2,5 €), un litro di vino 3 grana (0.50 €), tre pizze 2 grana (0,32 €).
Si tenga anche presente che su mille lavoratori oltre novecento erano non qualificati, come operai generici, manovali, inservienti retribuiti con irrisori compensi.
E ciò, si evince da commenti vari. Verso la metà e la fine del secolo, diversi marinai trasportavano merce in Sicilia ma per alcuni mesi non guadagnavano… la vita si svolgeva nella più squallida miseria… a dieci anni spesso si cominciava a lavorare dove si costruivano navigli in legno, la giornata di lavoro veniva pagata quattro soldi: si incominciava a lavorare alle sei del mattino e a volte si finiva alle 21 di sera. Le famiglie erano numerose e povere “i nostri padri (è stato dichiarato), impartivano l’educazione a suon di legnate e poiché i figli erano molti, qualche genitore diceva: “Meno male che la morte mi è venuta incontro… (!)”; verso la fine del secolo le cose peggiorarono per molti e padri di famiglia, avviliti per le ristrettezze economiche, si ubriacavano spendendo i pochi soldi guadagnati a scapito di moglie e figli.
In quei tempi, la città contava una trentina di migliaia di abitanti, e il numero dei “ricchi” era molto limitato, infatti, non per caso, erano in attività numerosi enti caritatevoli, orfanotrofi, congreghe i cui statuti prevedevano interventi assistenziali.
Molti si “arrangiavano” alla meglio: erano i venditori ambulanti, i vetturini, i pescatori che giravano con le loro spaselle sotto il braccio, con alici e pochi altri pesci, mentre con una mano reggevano un secchio con cozze, vongole e cannolicchi. Questi ultimi erano seguiti da altri strani venditori che in un catino portavano rane, le poche anguille che a quei tempi era ancora possibile raccogliere “con l’ombrello”, sulle rive del fiume Sarno, molti erano scaricanti portuali, bastonati se non correvano da un lato all’altro con sacchi sulle spalle per caricare e scaricare nel minor tempo possibile, i garzoni, sottoposti a lavori anche molto pesanti e per molte ore al giorno, rappresentavano, purtroppo, un altro aspetto negativo della gran parte della popolazione in quanto il lavoro minorile costituiva una fonte di reddito spesso essenziale per le famiglie povere, ma spesso causava un difetto dell’istruzione, determinando una sorta di circolo vizioso della povertà.
Era un mondo povero e fantasmagorico dove pullulavano, specie nel centro antico, centinaia di “spicciafaccende” che sbrigavano qualche pratica burocratica o operavano nei pressi di qualche ufficio pubblico; acquafrescai che giravano anche con mummere, brocche e caraffe, con qualche mezzo limone, innumerevoli volte spremuto, per “disinfettare” l’orlo del recipiente per bere; sui marciapiedi qualcuno, nelle settimane prossime all’inverno, aggiustava gli ombrelli, di quelli che possedevano un ombrello diventato vecchio, sempre in qualche angolo di strada un altro personaggio aggiustava vasi, tianelle (da Teano) di terracotta e vazzee, si aggiravano molti venditori e raccoglitori di cianfrusaglie e “panni vecchi”, mentre sempre ai margini delle strade su piccoli slarghi o brevi marciapiedi, improvvisati “commercianti” allestivano cento altre bancarelle con mucchi di noci sgusciate, spighe, brioches, maritozzi, kraphens in concorrenza con le pochissime pasticcerie, nella quali si entrava raramente e solo in alcune domeniche, a Pasqua, Natale e in qualche altra ricorrenza o circostanza, già, perché, tanto per dirne solo qualcuna, i compleanni non si festeggiavano sempre, si festeggiava solo l’onomastico, con la “passata” di “pastarelle” e qualche bicchierino di rosolio (i familiari e i pochi invitati, si disponevano su filari di sedie lungo le pareti e venivano serviti da qualche volenterosa di casa che per l’occasione indossava il vestito buono), quasi mai con un buffet. I banchetti dei matrimoni si “consumavano” nelle case solo con dolci e rustici, ma il più delle volte le famiglie, parliamo sempre di chi aveva qualche “soldo” disponibile, facevano il pranzo e, caso rarissimo, in qualche bettola o trattoria.
Tralascio il fenomeno dell’emigrazione forzata, altra grande piaga!
Non crederanno queste cose soprattutto i giovani, perché vivendo oggi nell’“agiatezza”, quelli che possono godere di tale privilegio, grazie ai sacrifici degli adulti, non riescono ad immaginare un mondo così povero e depresso, ma popolato di gente che affrontava la vita con tanta “rassegnazione”, facendo la “volontà di Dio”, così si diceva e si tirava a campare.
Qualche testimonianza delle condizioni di povertà la si può cogliere anche attraverso i quadri dei pittori di Posillipo, di Resina, come la veduta del porto, il mercato a Quisisana e in tanti altri dipinti dove sono visibili scene povere (i contrasti si notano anche nelle raffigurazioni dei vari dove sono presenti personaggi riccamente abbigliati) con donne, uomini e ragazzini con abiti logori se non coperti da cenci (erano pittori, alcuni diventati notissimi, che dipingevano all’aria aperta, anche in varie località, quadri e quadretti che vendevano soprattutto ai turisti).
Mi sono soffermato su questo periodo perché comprende gli anni in cui Ciro Denza comincia realmente ad affermarsi e trovare spazi in vari ambienti e clienti grazie anche ai buoni uffici di amici e conoscenti (incontrati anche nel suo albergo, come accadeva a Enrico Gaeta (figlio di Francesco Gaeta, proprietario dell’Hotel Stabia), anche non lontani da ambienti aristocratici, che certamente gli agevolarono, in qualche caso, il cammino sulla strada inflazionata e “chiusa” da galleristi e organizzatori di esposizioni che non guardavano troppo alle reali capacità artistiche ma alla collocazione di opere presso privati e collezionisti.
Questo suo status è riscontrabile anche nella produzione artistica con la scelta di personaggi quasi sempre appartenenti all’alta borghesia.
Intanto, Denza abita nella sua villa di Quisisana, acquistata contraendo debiti e mutui, 0, sua figlia Giuseppina (che frequenterà importanti salotti letterari di Napoli), a 25 anni sposa Ugo Cafiero, di 23 anni, insegnante (D’Annunzio interviene più volte presso il ministero per fargli assegnare una cattedra), scrittore, poi assessore al Comune di Castellammare di Stabia, gestore di una tipografia a Tripoli, la sua famiglia si incrocia con i destini dei principi de’ Sangro, D’Annunzio ed altri, in qualche periodo della sua vita ha anche dovuto affrontare serie difficoltà economiche (il padre “per sue particolari vedute” mise in vendita “a prezzi discreti” prima l’arredamento poi il suo albergo), in seguito le finanze della famiglia migliorarono grazie anche agli introiti provenienti dalla vendita di moltissimi quadri in varie parti d’Italia. Superflue, considerato lo scopo di questa nota a carattere prettamente divulgativo, le descrizioni delle varie complesse vicende della famiglia certamente non del tutto fortunata.
L’Artista, oramai, coglie i frutti del suo impegno sociale e artistico. Partecipa ad alcune prestigiose rassegne in Italia e all’estero e i suoi quadri vengono apprezzati e “discretamente quotati”.
Di Denza pittore, è stato dato un accenno alla sua arte, riportato all’inizio di questo “pezzo”, ma voglio cogliere l’occasione per mettere un po’ in risalto le sue doti di disegnatore – sempre trascurate – nei rari accenni biografici inseriti nei cataloghi di mostre alle quali l’Artista partecipava.
Secondo qualche ricordo tramandato, egli si sarebbe esercitato molto col disegno e avrebbe studiato artisti antichi acquisendo cognizioni e basi tecniche indispensabili per l’esecuzione di elaborati grafico-pittorici.
E qui, un breve preambolo. Il disegno, che considero alla base di una primordiale comunicazione sociale in quanto finanche l’uomo delle caverne, ha avvertito la necessità di trasmettere suoi messaggi, come prima manifestazione di espressione visiva, incidendo sulla nuda roccia graffiti illustranti animali e scene di caccia anche per rituali propiziatori. Sappiamo così che decine di migliaia di anni fa l’uomo disponeva di archi, frecce ed altri arnesi sia per difendersi dalle belve sia per cacciare animali per alimentarsi.
Inoltre, nel corso dei tempi, il disegno (vero linguaggio universale di immediata interpretazione, in bianco e nero o colorato, per rendere l’immagine più evocativa) ci ha consentito di vedere qual era l’abbigliamento, semplice o più accurato di gente del popolo, re, principi, cortigiane, come era l’acconciatura dei capelli, come pure abbiamo testimonianza chiara che le donne indossavano costumi a due pezzi (bikini) almeno 3500 anni fa.
Si hanno, inoltre, illustrazioni di decorazioni di ambienti, disegni di piante floreali antiche, di animali nel tempo estinti, di paesaggi cancellati o deturpati dall’inclemenza dei tempi o dalla mano dell’uomo.
Come si può notare, sin dai tempi remoti, l’uomo si è espresso attraverso il “disegno” che, aggiungo, ancora, è un fatto artistico e umano, contemporaneamente; è la manifestazione umana ed artistica di un fatto, come è stato detto molte volte, interpretata da una persona (il disegnatore o l’artista).
Così, nel corso dei secoli, ricordo che mi rivolgo soprattutto ai giovani ai quali qualche notizia in più e da approfondire, fa sempre bene…, differenti manifestazioni della civiltà umana hanno avuto il loro disegno: rupestre, primitivo, orientale, egizio, ellenico, romano, bizantino, medioevale, classico, barocco, neoclassico, accademico, romantico, realistico, impressionista, divisionista, simbolista, espressionista, geometrizzante, e via dicendo.
Comunque sia, rimane ferma la mia convinzione, per quel che può valere, considerate le enormi, interessate, propagandistiche valutazioni, appunto di carattere speculativo,l’attività grafica di una persona si esprime attraverso il “disegno” che è, o dovrebbe essere, alla base della preparazione artistica di qualunque bravo e serio pittore, il mezzo linguistico più semplice utilizzato abitualmente dall’artista per prendere possesso della realtà per rendere oggettiva un’immagine.
Prima idea e quindi lo schizzo o, altrimenti, studio preparatorio per un successivo elaborato pittorico o, ancora, elaborato grafico finito, fine a sé stesso.
Ciò detto, appare ovvio che Denza, precocemente, avvertì la necessità di porre il disegno alla base del suo percorso artistico. Perciò, sin da giovinetto comincia a disegnare -poi passerà alle esperienze della pittura- non frequenta scuole d’arte, né studi di maestri.
La sua scuola, anzi le sue scuole, sembrano essere state lo studio della figura umana e il paesaggio: Quisisana, i boschi, il mare, il porto, il cantiere navale: intanto si guarda intorno, incontra Enrico Gaeta (che aderirà alla scuola di Resina), Giovan Battista Filosa, Ettore Tito, comincia a guardare, studiare, apprezzare, la produzione dei protagonisti della Scuola di Resina, sopraggiunta alla Scuola di Posillipo legata, grosso modo, di più al verismo-naturalismo, nel senso che si mirava a riprodurre il reale senza soggettive intenzioni interpretative, in poche parole, gli artisti che si potevano individuare in tale filone artistico, tendevano a riprodurre la natura così come appare dalla diretta osservazione senza interventi passionali o idealizzanti. Ma l’arte è bella soprattutto perché invoglia alla creatività, all’osservazione del bello, a guardare le cose con senso critico. Poi, come si dice, ognuno fa quel che vuole e anche ciò è bello, o lo ritiene tale, perché è frutto di libertà (da tralasciare tutti i discorsi sull’estetica).
Vorremmo che nessuno si scandalizzasse dicendo che la gran parte degli artisti, di tutti i tempi, tranne rare eccezioni, si è lasciata affascinare inizialmente dalla pittura tradizionale anche per semplice svago, per “ritrarre le cose dal vero, così come sono”.
Denza è in continuo movimento: gira, frequenta gallerie e rassegne d’arte, ammira De Nittis già sulla scia dei macchiaioli. Non solo, si sofferma a guardare le opere (citati un po’ alla rinfusa), di: Palizzi, Toma, Ciardi, Carcano, Mancini, Michetti, Uva, Lega, Carelli.
Sono queste considerazioni apparentemente vacue per chi non sa che artisti di altissimo livello, entrati di recente nella storia dell’arte, dopo varie esperienze e sperimentazioni anche ardite, sono ritornati al figurativo, naturalmente improntato ad una moderna interpretazione, trattandosi di una tecnica universale che permette di accedere all’immediata lettura delle opere (quante volte in musei e gallerie d’arte, ho assistito a discussioni di gruppetti di “signori e signore” che, vantando presunte, illusorie chiavi culturali, scoronavano davanti a un quadro irripetibili corbellerie!).
Denza, dunque, col passare dei mesi, degli anni, intensifica lo studio del disegno, prepara una quantità enorme di bozzetti, figure di paesaggi che poi, com’è un po’ l’abitudine dei pittori, trasformerà in dipinti ad olio o ad acquerello, tecnica che gli consente di dare freschezza e trasparenze alle sue composizioni: gli esempi sono numerosi: i più significativi, il disegno del castello e il conseguente dipinto oppure il cantiere o il porto.
Intanto, guarda all’impressionismo e ne rimane attratto; ma non si lascia imbrigliare negli schemi a volte considerati anche accademici (come osservanza di regole, in senso puro, perché significa, come si sa, semplicemente eseguire delle opere soprattutto dal vero in modo magari perfetto, ma senza originalità, come vogliono sostenere alcuni.
Accademismo, quindi, è la pittura di coloro che dipingono secondo regole formali e scolastiche di disegno fedele al vero, rispettando lo studio e regole della prospettiva, della teoria delle ombre, del chiaroscuro, le intensità dei colori, ecco perché nelle accademie, ai fini dell’acquisizione di un bagaglio culturale, si studiano letteratura, matematica, storia dell’arte chimica (per la composizione dei colori), anatomia, fisica, scienze, eccetera. Però sempre nelle accademie, si sperimentano nuove tecniche, si studiano nuove soluzioni ecco perché da tempo sia nella pittura, sia nella scultura, c’è la spinta tendenziale a esprimersi in forme nuove geometriche e non geometriche in piena libertà evitando ciò che è vero figurativo e di ciò ne sono testimone diretto.
Denza, a mano, a mano, grazie a questa sua intensa attività, divenne fertilissimo ed eccellente disegnatore perché non esegue le opere secondo schemi accademici, cioè non è lo studio in senso accademico e nemmeno la semplice profilatura dei contorni, che pure avevano fatto la fortuna di tanti “disegnatori storici”, per lui il disegno ha tanto più valore espressivo quanto più si avvicina, in certi casi, all’abbozzo, quanto più cioè suggerisce con mezzi grafici le infinite varietà della natura per cui si pone l’obiettivo di disgrossare, cioè abbozzare le sue figure, senza ricorrere, sistematicamente, a dettagliate rifiniture. Sono abbozzi che costituiscono la prima forma a volte incompleta del quadro, ma già elaborata in modo da suggerire il completamento dell’elaborato, sia che trattasi di disegno, sia di pittura.
Devo dire che non ho avuto occasione di vedere frettolosi schizzi, nel senso vero della parola, per una sommaria valutazione almeno come impressione di una prima idea da sviluppare.
La raccolta di disegni, più conosciuta, pubblicata col titolo “Castellammare di Stabia, Golfo di Napoli, Proprietà Municipale, 1894, Lit. Turcio“, presenta 13 tavole di paesaggi e personaggi, uno schema sulle acque minerali, una planimetria e un paginone con cinque ottimi disegni di panorami e alberghi prospetticamente anche bene inquadrati.
Si tratta di disegni molto belli, stilisticamente differenti, come si riscontra anche nella produzione di pitture, ma eseguiti con sicurezza e delicatezza di tratto.
In alcuni elaborati, di splendida esecuzione, appaiono evidenti suggestioni romantiche con una precisione e una pulizia del segno grafico davvero notevoli.
Tentare di attribuire alle opere di Denza uno “stile” o appartenenza ad un filone artistico o ad una definita “corrente” è compito veramente arduo. D’altro canto non si può chiedere ad un artista una impronta caratterizzante, uno “stile” costante, continuativo, di rimanere in un rigido filone artistico se è “costretto” ad eseguire “una gran quantità di quadri”, senza avere probabilmente neanche il tempo per poterli contemplare, riesaminare, eventualmente apportare ritocchi, perché assillato dalla necessità di realizzare guadagni. Pur tuttavia, la sua produzione rimane di ragguardevole livello artistico degno di essere collocato accanto ai più noti ed esperti artisti del suo tempo.
In questi disegni l’Artista si sofferma a descrivere con delicata sensibilità gli effetti di luce naturale sulle figure e sui paesaggi senza tralasciare il cielo che emana soffusi fasci di luci che illuminano l’insieme delle composizioni. E’ un mondo che viene tracciato con tratto leggero e delicato, a volte finanche lezioso (fiori, lumache, rondini, persone). Anzi, proprio sulle persone si sofferma per raffigurare personaggi vicini all’aristocrazia e ai luoghi frequentati dall’alta borghesia.
Le sue signore sono belle e aristocratiche, la veste all’ultima moda (qualche volta con giacchino, o tipo di quello che oggi si chiama smanicato) è lunga, rigonfiata con sellino e accartocciata in basso, il collo rigorosamente alto, in mano regge l’immancabile ombrellino. Il cane, forse del padrone, è sempre presente. Passeggia nei boschi di Quisisana, sulle strade panoramiche, a volte si allunga con la carrozza ai “giardinetti” dell’Acqua Acidula. Gli uomini, non sono da meno: Abito “spezzato”, pantaloni grigio perla o a righe con marsina, cravatta a fiocco, cilindro o bombetta.
Nella pittura, si ripete, è riscontrabile lo stesso lindore: i colori sono mantenuti su un cromatismo tenue, senza pennellate violente, fatta eccezione per alcuni esemplari come la nave sullo scalo che è stata appena passata di minio, mare e cielo sembrano conservare le stesse tonalità, la pennellata, dunque è fluida e sobria frutto di autore di mano esperta e culturalmente elevato. Penso di intravedere in queste pitture, almeno in quelle che ho visto, una trentina di anni fa, qualche accenno più esplicito alle opere di Lega, dei Carelli, ma ritengo che Denza respirerà l’aria delle scuole napoletane che, se anche aperte alle suggestioni straniere, conservano qualcosa di tipicamente locale. E’ bene anche chiarire che, come ho potuto leggere qualche rigo inserito nei cataloghi di mostre, l’Artista viene inquadrato, alla larga, nella foltissima schiera degli impressionisti. Anzi, alcuni autori, sostengono che, chi più e chi di meno, in tutto il secolo è stato attratto dal nuovo fenomeno.
Chiudo con le parole inserite come prefazione nel catalogo ufficiale di quella Mostra dal Chief of fine Arte Departement Mr. T. Carew Martin quale rassegna dell’intera arte italiana, dividendola in varie sezioni e scuole, parole che costituiscono così per la competenza come per l’autorità del giudizio espresso il miglior diploma d’onore che in tal caso si possa ottenere:
The room devoted to the works of Neapolitan Scholl is more than interesting, as here a note of distinct individuality is struck, an individuality indeed which, from the first revival of modern art in Italy, marked the creations of the artists living on the classic stop es of Vesuvius. The neapolitan scholl is well represented by artists Such as Leto, Altamura, Denza (sic).
Cioè, tradotto dal vocabolario, dice che il miglior diploma d’onore che in tal caso si possa ottenere: la sala dedicata alle opere di Scuola napoletana è più che interessante, qui si viene colpiti da una distinta nota di individualità, un’individualità anzi che, a partire dal primo rilancio di arte moderna in Italia, ha segnato le creazioni degli artisti che vivono all’ombra del Vesuvio. La Scuola napoletana è ben rappresentata da artisti come, Leto, Altamura, e Denza (sic).
Antonio Ziino
…CON UN ASSESSORE AL RAMO “CULTURA-SPORT & SPETTACOLO & VARIE” ,PREPARATO-COMPETENTE-CAPACE-RESPONSABILE & LUNGIMIRANTE,AVESSE L’IDEA DI ORGANIZZARE UN “PREMIO CULTURALE-ARTISTICO-SPORTIVO”ALLA MEMORIA DEI TANTISSIMI NS.CONCITTADINI, CHE HANNO PERMESSO A “STABIAE” DI ESSERE COLLOCATA AL POSTO CHE LA STORIA LE HA ASSEGNATO NELLA GRADUATORIA DEL TURISMO D’ELITE MONDIALE…SONO SICURO CHE FORSE…RESTEREBBERO POCHI GIORNI SENZA EVENTI NELLA NS.CARA CITTA’ !!!….FIRMATO SALVATORE ESPOSITO .
Questo non è un commento, quindi non credo che vada pubblicato.
Mi chiamo Claudio Lamberti e sono un ingegnere napoletano appassionato d’arte.
Mi sono imbattuto in Ciro Denza per caso, quando ho acquistato un suo dipinto firmato e datato, di netta impostazione impressionista.
Dopo alcune ricerche sulla persona e sulla sua produzione son riuscito a mettere insieme un gruppetto di dipinti, tra cui anche il Castello da voi pubblicato.
Sono a disposizione, se lo riterrete interessante, a uno scambio di informazioni per tentare di far riafforare questa personalità artistica attualmente quasi del tutto dimenticata.
Buon Anno a tutti
Cordialmente
Claudio Lamberti