Contratto d’Area torrese stabiese (parte V)

di Raffaele Scala

Giovanni Zeno, l’ultimo Segretario Generale della CGIL dell’ex Comprensorio Vesuviano Esterno, la zona sindacale che andava da Torre del Greco a Massalubrense, morì improvvisamente per una ischemia all’età di 54 anni. Fu un grande sindacalista, forse il migliore che abbia mai guidato il sindacato rosso a Castellammare di Stabia. Nel capitolo si ricostruisce la sua vicenda umana e politica, i lati segreti, le ambizioni frustrate, la lotta politico sindacale. Un capitolo avvincente ed emozionante, tutto da leggere (almeno credo e spero).

Come sempre, con affetto e simpatia. Raffaele Scala.

Contratto d'Area Torrese-Stabiese: Il Cantiere navale di Castellammare di Stabia (foto Ferdinando Fontanella)

Il Cantiere navale di Castellammare di Stabia (foto Ferdinando Fontanella)

Storia del Contratto d’Area torrese stabiese. 1991 -1996

La firma del Contratto d’Area

Capitolo Quinto:

La morte di Giovanni Zeno

L’anno si chiuse con l’improvvisa scomparsa di Giovanni Zeno, colpito da un’ischemia nella tarda serata del 21 dicembre. Nei primi di febbraio, l’ex segretario comprensoriale era stato chiamato a Roma, nella Cgil nazionale, per ricoprire l’incarico di Responsabile del dipartimento coesione economica per il Mezzogiorno. Si era trasferito controvoglia, senza metterci nessuna passione, vivendo il trasferimento come un esilio forzato, ma aveva continuato a seguire con puntiglio le questioni legate al contratto d’area. Il 7 maggio era apparso sul settimanale, Metropolis, un suo articolo in cui proponeva un forum per le città interessate al Contratto d’area, poi in luglio il suo nome aveva cominciato a circolare sulla stampa locale quale candidato a Presidente del Miglio d’Oro, il consorzio nato fra quattro comuni della fascia costiera vesuviana, San Giorgio a Cremano, Portici, Ercolano e Torre del Greco, a seguito della costituzione di un Patto territoriale con l’intento di attivare 61 progetti per 1.164 posti di lavoro e un investimento finanziario pari a 267 miliardi. Le indiscrezioni giornalistiche lo fecero andare su tutte le furie, leggendole come un modo per bruciare la sua ennesima candidatura a un ruolo di primo piano fuori dall’organizzazione sindacale. Ancora in ottobre era in lizza con Osvaldo Cammarota, già consigliere comunale e assessore comunista a Napoli sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, Presidente della Lega delle Cooperative Campania e infine assessore al comune di Ercolano, coordinatore del Miglio d’oro, di cui era stato uno dei promotori. Tra i due presunti avversari, a sorpresa, il 18 ottobre emerse la candidatura di Costantino Formica, ex parlamentare del Pci e imprenditore del terziario avanzato, nominato con inusuale rapidità il 20 di quello stesso mese. Il 23 novembre, Giovanni Zeno, rilasciava la sua ultima dichiarazione pubblica sul Corriere del Mezzogiorno, denunciando gli inammissibili ritardi in cui versava il Contratto d’Area torrese stabiese e richiamava le istituzioni centrali e locali a far la loro parte accelerando le conferenze di servizi al fine di definire efficaci percorsi di semplificazioni.

Ma se tutto questo non sarà mantenuto, prenderemo iniziative di mobilitazione. Già entro la prima decade di dicembre organizzeremo iniziative pubbliche a Crotone, Manfredonia e a Torre Annunziata, con la partecipazione delle segreterie nazionali.[1]

Aveva minacciato Zeno senza sapere che il suo destino aveva deciso per lui in altro senso e il conto alla rovescia dei suoi giorni era già inesorabilmente iniziato fermandosi quella tragica domenica, intorno alle 22,30 del 21 dicembre. Aveva soltanto 54 anni.

Quanto egli era conosciuto e, se non amato, sicuramente rispettato, si scoprì nelle due lunghe interminabili giornate di lutto, quando fu preparata la camera ardente nel salone delle riunioni della Cgil di Via Torino, a Napoli. Centinaia di persone sfilarono per tutta la giornata davanti alla sua bara, sempre scortata da un picchetto d’onore formato da semplici operai, militanti e dirigenti della Cgil pronti a darsi il cambio ogni mezz’ora, tanti erano i volontari desiderosi di rendere l’ultimo omaggio al dirigente così prematuramente scomparso. Si videro facce importanti della vita politica campana, deputati e senatori, consiglieri comunali, provinciali e regionali, sindaci e assessori, ma soprattutto delegati sindacali, semplici militanti, tanti operai. Una fiumana di persone, oltre ogni immaginabile previsione, sorprendendo tutti, amici e nemici e forse suscitando qualche rammarico in chi avrebbe potuto offrirgli i riconoscimenti cercati in vita, passò davanti alla bara per consegnare l’ultimo saluto, offrire l’ultimo pensiero al grande dirigente sindacale, all’uomo ambizioso, caparbio e sfortunato. [2]

Chi scrive ricorda una delle tante serate trascorse fino a tarda ora nella Camera del Lavoro, quando, esaurito il via vai degli operai, le riunioni ufficiali e informali, le ultime telefonate e magari dopo aver subito l’ennesimo assalto di delegati e militanti, sempre più infuriati per l’andamento della situazione, si rimaneva ancora un poco con il ristretto, affiatato gruppo che si era andato formando in quegli anni di fuoco e di fiamme. Tra alcuni di noi era nato un rapporto che andava oltre la semplice condivisione di responsabilità politica del territorio, di comunanza di interessi sindacali, di scrivanie divise da stanze dello stesso appartamento che andava formando la Camera del Lavoro stabiese al secondo piano del Viale Europa. Qualcosa di più profondo ci univa, che forse è troppo chiamare amicizia, ma di certo andava oltre i consueti rapporti di lavoro, mai facili, mai semplici, tra dirigenti sindacali, spesso neanche chiari, per le tante divisioni personali, per le ambiguità, le invidie, le ambizioni che formano il normale substrato di tutti gli ambienti lavorativi e che non risparmiano il mondo sindacale, anzi per certi versi accentuati per la particolarità stessa dell’ambiente. Per una strana alchimia di tempo e di luogo, dovuta al caso, per aver fatto convergere quel gruppo dirigente nella stessa Camera del Lavoro e complice non secondario la direzione di Zeno, era nata una sorta di affinità elettiva che ci faceva stare bene insieme. Così anche quella sera il Gruppo si attardò riunendosi, come sempre faceva in questi casi, nella stanza del Segretario Generale. Sulle sedie a semicerchio intorno a Giovanni Zeno sedevano i soliti Aprea, Natale, Di Lauro, Scala, Di Maio e qualcun altro che non ricordo. Zeno, come sempre, faceva il mattatore con i suoi ricordi di vita vissuta. Tra i suoi ricordi politici più di una volta raccontò di quando, appena ventenne, ancora giovane dirigente della Fgci di Ercolano, nel 1964 fu inviato dalla sezione a partecipare agli imponenti funerali romani di Palmiro Togliatti, il leggendario Segretario Generale del PCI, portando una corona d’alloro dietro il carro funebre lungo l’intero percorso.

A un certo punto, come preso da un impeto d’inaspettata sincerità sentì il bisogno improvviso di raccontare uno dei motivi reali che da sempre gli impedivano il riconoscimento dei suoi meriti nella Cgil. Ovunque io vada –  disse sintetizzando un pensiero che lo accompagnava chissà da quando e di cui avvertì quella sera il bisogno di liberarsene –  nei primi due anni costruisco e nei successivi distruggo tutto, anche i rapporti umani che sono riuscito a stabilire con gli altri. Così è stato a Napoli, così a Salerno e in tutte le categorie che ho diretto in questi anni.

Ci fu un momento di silenzio, tutti facemmo lo stesso pensiero: i due anni di permanenza di Giovanni a Castellammare erano già trascorsi, quando Antonio Aprea ruppe l’improvviso velo che era calato tra noi con una delle sue solite battute, di cui purtroppo ho perso il ricordo, ma sento ancora la collettiva risata liberatoria che distolse ognuno di noi dal fastidioso pensiero e si riprese a chiacchierare di altre faccende. Questo ricordo mi ritornò forte, non saprei dire il motivo, il giorno dei funerali, quando nel Salone delle assemblee della Camera del Lavoro di via Torino, a Napoli, fu allestita la camera ardente, centinaia di persone passavano per rendergli l’ultimo omaggio e i compagni si alternavano nel fare il picchetto d’onore attorno alla sua bara.

La firma del Contratto d’Area

Il convegno, già annunciato per il 10 dicembre, si terrà il 12 gennaio 1998 nel salone del Lido Azzurro di Torre Annunziata, con la presenza di Natale Forlani, segretario nazionale della Cisl. In una sala gremita di lavoratori e disoccupati, furono ribadite feroci accuse contro la Tess e sull’incompatibilità del doppio incarico di Catello Polito, sindaco di Castellammare e Presidente della Società di Promozione Industriale. Michele Gravano per la Cgil, Nicola Martino ed Enrico Cardillo, segretari generali regionali della Cisl e della Uil, ribadivano la necessità di andare alla nomina di un nuovo Presidente Tess.

Nei giorni seguenti le polemiche andarono lentamente smorzandosi, sostituite da quelle sul mancato consenso della Soprintendenza ai beni Ambientali e Architettonici, per il suo no nella Conferenza di servizi tenutasi il 28 gennaio nella sede della Regione Campania, alla realizzazione dell’albergo da costruire al posto dell’ex Cementificio di Pozzano, ormai un reperto d’archeologia industriale lasciato a marcire, facendo brutta mostra di sé lungo la bellissima strada panoramica per Vico Equense.

A rendere ancora più ingarbugliata e nevrotica la situazione, fu il fallimento della Scac il 10 gennaio, la seconda azienda di Torre Annunziata a conoscere l’onta della chiusura forzata, dopo quella avvenuta il 2 ottobre 1996 per l’Imec, entrambe fabbriche di manufatti in cemento, la scadenza di alcune proroghe di cassa integrazione e l’annunciato licenziamento dei 127 lavoratori dei Cmc. Un’autoconvocazione delle Rsu (Rappresentanze Sindacali Unitarie), dei Cmc, Scac, Deriver, Vega e Tecnotubi, nei primi giorni di febbraio, portò a stilare un Ordine del Giorno in cui si proclamava una manifestazione per il 18 a Roma per chiedere il rispetto degli impegni presi per lo sviluppo dell’area torrese stabiese. [3]  Contemporaneamente Cgil Cisl Uil regionali proclamavano lo sciopero generale in Campania per il 20 marzo sui temi dello sviluppo, per il lavoro e la lotta alla criminalità. Un attivo unitario dei delegati del comprensorio, il 12 febbraio, consentì di definire meglio la strategia sindacale, rinviando la manifestazione del 18 perché da Roma era giunta la notizia di una convocazione per il successivo 23. La data slittò poi al 12 marzo, trasformando quella del 23 in una riunione interlocutoria, dove si prese atto della necessità di sottoscrivere un Contratto d’Area definito, aperto, modulare, un modo per dire niente e tutto, come da troppo tempo accadeva. [4] Si inventò così la formula del Contratto d’Area a tre fasi: nella prima sarebbe entrato il progetto d’area attrezzata della ex Dalmine, con le sue otto aziende e 400 nuovi posti da lavoro, l’unico in qualche modo già operativo sia pure con grandi sforzi, notevoli ritardi e le accuse di clientelismo, se non di compravendita di posti di lavoro sui quali pesava l’ombra della camorra, seppure mai provata; nella seconda fase si dava spazio ai quattro progetti in via di definizione, quali il Parco Virtuale sulla Tecnotubi, gli alberghi sull’Imec e sulla ex Calce e Cementi e il porto turistico sui Cmc; nella terza fase l’acquisizione da parte della Tess delle aree dismesse, Deriver, Scac e Raccorderie Meridionali. Il 25 febbraio si rese necessaria una nuova riunione dei delegati sindacali per spiegare quanto era accaduto a Roma e non mancarono momenti di forte tensione con Ciro Macera, delegato dei Cmc, Michele Contino, della Deriver, Raffaele Graziano, della Tecnotubi, Gabriele Russo della Scac, Catello Monaco della Dalmine, Pasquale Vitiello dell’Imec, piccoli leader di fabbrica, portatori, non senza qualche ambiguità e piccole furberie, delle istanze della base operaia, e in alcuni casi d’interessi particolari, come sempre accade nel groviglio di vicende in cui si mischiano situazioni sociali, politiche ed economiche creando miscele non sempre controllabili tra fatti collettivi e nascoste ambizioni personali. Tra gli stessi delegati non mancavano divisioni e rivalità per l’affermazione delle proprie esigenze, per imporre priorità di categoria sulle altre e, all’interno della stessa, tentativi di prevaricazione di una fabbrica sull’altra, nata dalla convinzione di una presunta importanza di carattere storico –  politico, dettata dalla capacità di mobilitazione e di lotta dimostrata nel tempo.

Comunque sia, oltre le singole vicende di umana miseria, di piccoli egoismi e interessi di parte, sono stati primi attori, i veri protagonisti, nel bene e nel male, di quei sette anni di guerra senza fine per la difesa del posto di lavoro, per la conquista di un futuro migliore.  Tra incertezze e diffidenze fu dato mandato a Cgil Cisl Uil di proseguire nelle trattative romane, tutti consapevoli che non vi era altra strada, ma altrettanto chiaro era la certezza di un futuro, nell’immediato ancora nebuloso e la paura del fallimento serpeggiava negli occhi e nella mente di ognuno. Se questo fosse accaduto nessuno si sarebbe salvato dalla furia operaia, del resto segnali in tal senso non erano mancati, con forti attriti tra operai e delegati, questi ultimi accusati di difendere troppo i dirigenti sindacali e tra loro qualche schiaffo era già volato, così come non erano mancati momenti di forte tensione tra delegati e dirigenti sindacali, al limite dello scontro fisico.

Nei primi giorni di marzo arrivò la notizia della firma del Contratto d’Area a Crotone e quella imminente di Manfredonia, mentre mancava all’appello l’accordo per il torrese stabiese. Secondo prime indiscrezioni trapelate da Roma, sarebbe venuta verso la prima metà del mese, il 12, e questo fece tornare il malumore tra le fila operaie perché sembrava inconcepibile essere diventati terzi dopo essere stati i primi a percorrere questa nuova strada, quelli che l’avevano aperta a suon di lotte e denunce penali. I pomeriggi, e spesso le serate, trascorrevano nelle Camere del Lavoro di Castellammare e di Torre Annunziata, in discussioni senza fine con i diversi delegati sindacali delle fabbriche in crisi e nutrite delegazioni operaie, ormai in seduta permanente nelle sedi sindacali. Riunioni e discussioni, defatiganti, interminabili, utili solo per stemperare gli animi, a ridare fiducia, a ricostruire un rapporto umano, dopo tensioni e crisi nervose, esplose talvolta in improvvise reazioni inconsulte, con carte gettate in aria e sedie scaraventate contro le pareti della stanza, quale sfogo ultimo, accompagnate da insulti feroci, accuse violente e gratuite dettate dalla rabbia. Ma una volta sfogata l’ira repressa con urla e strepiti vari, nella stanza annebbiata dal fumo delle troppe sigarette fumate e l’odore stagnante dei tanti caffè bevuti, ritornava la calma e in qualche modo si recuperava la discussione interrotta e la serenità ritornava tra i presenti.

Anche per questi motivi, probabilmente, non ci fu nessuna violenta reazione quando arrivò la notizia dello slittamento della firma del Contratto d’Area prima al 27 e poi al 30 marzo perché la burocrazia ministeriale aveva scoperto, all’ultimo minuto, la necessità di adempiere alcuni fondamentali adempimenti, tra i quali la nomina del Responsabile Unico

per lo svolgimento dei compiti attribuiti, nonché per agevolare la diffusione delle informazioni sullo stato di attuazione dei progetti e delle procedure, avvalendosi dell’Ufficio di Coordinamento del contratto d’area così come previsto dall’accordo.

La figura fu individuata in Francesco D’Ercole, l’assessore regionale all’industria, dopo una riunione tenuta l’11 marzo; seguì l’indispensabile firma del Protocollo d’Intesa tra Cgil Cisl Uil e Unione degli Industriali il 27, su costo del lavoro e flessibilità e, infine, l’accordo fra le amministrazioni rientranti nel Contratto d’Area, stilato il 30. I troppi adempimenti formali, di cui ci si era ricordati soltanto negli ultimi giorni, comportò un nuovo rinvio della firma finale, slittata fino al 7 aprile Furono settimane d’intense polemiche e continui confronti con quanto avveniva a Crotone e Manfredonia, mentre in Cgil esplodevano gli attacchi da parte di Alternativa Sindacale, accusando la propria organizzazione di subalternità alle tesi padronali, di svendita del proprio patrimonio ideologico e della dignità dei diritti dei lavoratori, conquistati in decenni di dure lotte e sacrifici di tanti militanti. Rifondazione Comunista, dal suo canto, cominciò ad attaccare il governo e minacciò di uscire dalle maggioranze di Centro sinistra nelle diverse amministrazioni locali, come fece realmente a Torre Annunziata, dove avvenne l’unico caso.

L’ennesima proroga della cigs, nei primi giorni di aprile, servì in parte a tranquillizzare i lavoratori interessati e infine venne il fatidico martedì 7 aprile, tanto atteso e desiderato e già tanto vituperato. Quel pomeriggio i riflettori delle reti televisive si accesero su Enrico Micheli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, quando fece l’intervento di apertura. Ha ragione quel vecchio adagio: quando le cose vanno bene tutti ti cercano, se le cose vanno male ognuno ti evita. E quello era un giorno di festa e quindi tutti dovevano, volevano essere presenti: c’erano le foto di rito, le interviste, la visibilità dei mass media, della televisione, ma soprattutto quel giorno nessuno avrebbe fischiato. Isaia Sales, Giorgio Maciotta, Willer Bordon, Federica Rossi Gasparrini, tutti in prima fila a godersi quel momento di gloria. Sindacalisti e delegati sindacali del territorio interessato, gli unici ad avere il diritto di godersi quel momento di gioia, di vittoria, erano quasi un fastidioso optional da sopportare con tanti sorrisi di plastica stampati sul volto. Ma nessuno ci fece caso, non ne valeva la pena, come quando si va a una festa e non tutti ti sono simpatici. Non mancarono le foto di gruppo e la certezza di un futuro migliore. [5]

La gloria dura solo un momento, mentre le certezze sono sempre pronte a vacillare quando incontrano i primi ostacoli e questo fu non appena si aprì, dal versante politico, il nuovo fuoco di fila delle polemiche senza fine da parte di Rifondazione Comunista e in Cgil con l’Area Programmatica di Alternativa Sindacale, pronta a seppellire l’accordo faticosamente raggiunto, tacciandolo di resa al padronato. Giudizi negativi facilmente contrastabili e perfino annullabili se le istituzioni nel loro insieme avessero marciato nella giusta direzione, senza imbrigliarsi nelle logiche della burocrazia ottusa, incanalandosi verso i mille rivoli senza sbocco dei troppi poteri corporativi ai quali bisogna sottoporsi per raggiungere il più semplice degli obiettivi, sfiancando e deprimendo perfino i più coraggiosi, i più ostinati. Sono situazioni kafkiane quelle che ti portano a realizzare leggi con lo scopo di semplificare le procedure e ti ritrovi invece in un nuovo dedalo di norme, interpretazioni, chiarimenti che rappresentano una vera e propria corsa ad ostacoli. Ecco il vero nemico da affrontare e sconfiggere se si vuole realizzare veramente la svolta nel Mezzogiorno, per non continuare a essere considerati la zavorra d’Italia, il prezzo da pagare nei confronti dei fratelli più deboli e sfortunati, ma come una ricchezza dell’Italia intera, per essere tutti insieme pronti alla sfida di un’Europa sempre più grande, nella locomotiva di testa.

Il declino del contratto d’area e sua metamorfosi

Se bastassero le parole, se fossero sufficienti le intenzioni, il mondo sarebbe migliore, ma così non è. All’indomani della firma del Contratto d’Area ci fu un fervore di convegni e cominciò la Cisl portando il 23 aprile a Castellammare il suo Segretario Generale, Sergio D’Antoni. Da Torre Annunziata si rispose l’otto maggio, più modestamente, con l’iniziativa di un giornale locale, La Voce della Provincia. Cessata l’euforia dei primi giorni, si ricominciò con le preoccupazioni, le polemiche e le grida di dolore, quasi mai sincere, dei diversi protagonisti che si agitavano intorno al contratto d’Area. Dalle vicende legate al porto turistico di Castellammare, con le sue estenuanti conferenze di servizi, ricchi di colpi di scena, di cambiamenti d’umore, di crisi politiche in consiglio comunale, di alleanze trasversali tra i diversi partiti; ai misteri delle nuove aziende da collocare sull’area dell’ex Tubi Dalmine a Torre Annunziata e di cui, tranne le prime due, l’Erregi e la Metalfer Sud, nessuno  ne aveva visto più traccia; dalle dimissioni, poi ritirate, del sindaco Cucolo, al mancato acquisto da parte della Tess, delle aree dismesse della Deriver e della Scac; dalle polemiche sulla presidenza tra i due sindaci di Castellammare e Torre Annunziata, fino alle dimissioni, quelle vere, dell’Amministratore delegato,  Francesco Porfilio, nei primi giorni di settembre.

E’ tutto un susseguirsi di vicende, fatti, ora personali, ora collettivi, ora istituzionali, a volte rocambolesche, altre, più semplicemente, farsesche, ma tutto questo non faceva fare molti passi in avanti allo sviluppo del territorio.

Di chi la responsabilità di tutto quanto accadeva? Di chi amministrava la Tess senza averne le dovute competenze? Il balletto di amministratori delegati, tutti rigorosamente targati Gepi, sembrava dare ragione a questa versione, non a caso chi subentrava esordiva parlando male di quanti l’avevano preceduto. Il licenziamento di Francesco Porfilio cominciò a circolare nelle ultime settimane di luglio e già nei primi giorni d’agosto si conosceva il nome del suo successore, Vittorio Isabella. Le forzate dimissioni dell’ingegnere Porfilio furono ufficializzate soltanto nei primi giorni di settembre e se ne andò, dopo circa un anno e mezzo di direzione, senza lasciarsi alle spalle nessuno che lo rimpiangesse. Il suo successore, l’ingegnere Vittorio Isabella, un siciliano trapiantato a Napoli prese le redini il 12 ottobre. Intanto tre giorni prima era caduto il governo di Romano Prodi, creando le condizioni per la nascita del governo di Massimo D’Alema, eletto Presidente del Consiglio dei Ministri il 21 di quello stesso mese. Le speranze suscitate da Prodi e dal primo governo di centro sinistra, durato complessivamente 887 giorni, con la presenza del Partito Democratico di Sinistra, erede del vecchio Pci, avevano lentamente ceduto il passo alla rassegnazione tra i lavoratori dell’area torrese stabiese. La sua caduta e l’ascesa del leader post comunista, non crearono quindi eccessivi entusiasmi tra quanti, da troppo tempo, aspettavano la realizzazione di un sogno iniziato tanto tempo prima, un sogno nel quale avevano maggiormente creduto con l’avvento del governo amico, senza sapere che la burocrazia non conosce colori, né bandiere, soprattutto è indifferente alle passioni. Così indipendentemente da chi governava, dalle ragioni, dalle idee, dalla volontà di quanti forse avrebbero voluto fare ma non gli fu dato possibilità, il contratto d’area cominciò a essere sempre più simile al protocollo d’intesa sottoscritto con il governo Berlusconi nel dicembre 1994, uguale all’accordo firmato tanti anni prima, nell’ormai lontano 1989, sempre a Palazzo Chigi con altre facce, altri ministri, altri partiti, oggi scomparsi, ma pur sempre carta straccia quella  prodotta dai vari protagonisti del momento. [6]        

Tutto sembrava remare contro i lavoratori dell’area torrese stabiese: ci si era messo contro anche il Mar, il Tribunale Amministrativo Regionale, accogliendo un vecchio ricorso di un’associazione ambientalista contro il Piano Territoriale Paesistico del 14 dicembre 1995, piano teso a modificare le più rigida legge 431 del 1985, più nota come Legge Galasso. L’accoglimento da parte del Tar comportava il ripristino della vecchia legge e il ritorno del regime vincolistico che metteva in forse la realizzazione dei quattro progetti così faticosamente costruiti dalla Tess in quegli anni. Le iniziative dei sindaci, della Società di Promozione e delle stesse organizzazioni sindacali nei confronti del governo per la scrittura di un nuovo decreto, per tenere nel debito conto le esigenze degli ambientalisti e superare rapidamente i restrittivi vincoli della 431/85, pena la messa il blocco totale del Contratto d’area e del Patto territoriale del Miglio d’Oro, procedevano senza molta convinzione e comunque senza molta enfasi, come colpiti da improvviso fatalismo. A mettersi di traverso ci si mise pure il segretario regionale della Cisl, Nicola Martino, il quale non sembrava aver mai nutrito né interesse, né simpatia per questo territorio a sud di Napoli, e non a caso i dirigenti sindacali locali erano stati lasciati soli per anni nell’infuriare delle lotte operaie. Non diverso era l’atteggiamento del leader della Uil regionale, Enrico Cardillo, il quale si era sempre contraddistinto per le sue fredde posizioni, quasi a voler evidenziare distanza e fastidio da un movimento operaio, come quello torrese stabiese, poco incline a essere controllato dal sindacato. Così, mentre Nicola Martino parlava di un possibile fallimento del contratto d’area sul finire d’ottobre, Paolo De Feo, Presidente dell’Unione Industriali di Napoli, polemizzava contro strumenti, ritenuti non in grado di offrire effettive garanzie agli imprenditori. A rendere ancora più incandescente l’atmosfera ci si metteva pure il direttore dell’Unione Industriali, Michele Lignola, attaccando il manager della Tess, in un’intervista rilasciata al Mattino il 22 novembre, definendolo un amministratore incapace, frutto di una candidatura subita. Salvo poi smentirla qualche giorno dopo.

I 394 operai delle otto aziende interessati al contratto d’area, i superstiti di questi lunghi anni di lotta, erano frastornati e assistevano sgomenti e rassegnati all’infuriare delle polemiche. Stanchi, chiusi nel limbo dei lavori socialmente utili, sostenuti dalle integrazioni economiche alla cassa integrazione, elargite dai diversi enti locali nei quali operavano nelle più svariate mansioni, impauriti dai diversi avvisi di garanzia piovuti su di loro in questi ultimi anni per i blocchi stradali e ferroviari, gli operai dell’area torrese stabiese erano ormai svuotati di ogni altra energia, di ogni superflua volontà di lotta. Si erano ormai attaccati ai progetti dei lavori socialmente utili nell’ASL 5, nel Parco del Vesuvio, nell’istituto Case popolari, nei comuni di Castellammare e Torre Annunziata, sperando di trovare l’agognato posto fisso, dopo tanto patire, nella pubblica amministrazione. Del resto a rafforzare la speranza c’erano state le assunzioni a tempo indeterminato di 67 operai delle Raccorderie Meridionali nella Società mista creata dal comune di Castellammare, privatizzando il servizio di nettezza urbana, in collaborazione con l’ex Gepi, ora Itainvest, costituendo la Società Multiservizi SpA. La soluzione trovata dimostrava la possibilità concreta di risposte alternative alla fabbrica, se solo si aguzzava l’ingegno, se veramente c’era la volontà di risolvere le questioni urgenti e drammatiche. Non tutto era fermo, non tutto era perduto, bisognava perseverare, lottare, incidere ancora di più sulle istituzioni e sugli uomini che le rappresentavano.

L’8 agosto erano stati presentati all’Imi, la banca convenzionata con la Tess, i quattro progetti per istruirne la documentazione, confermarne la fattibilità e coprire il finanziamento necessario alla loro realizzazione. Nella prima decade di novembre erano invece apparsi, come altrettanti conigli dal famoso cappello del prestigiatore, altri quattro progetti: un nuovo albergo da realizzare a Castellammare, in sostituzione di un opificio industriale ancora in attività, il vecchio Molino di Stabia, fondato nel 1960, e per il quale era già stato trovato perfino il nome: Hotel Luci del Golfo; un altro albergo a Torre Annunziata, in un’azienda di manufatti in cemento da poco dismessa, la Cellubloc dei fratelli Amitrano, in cui si ipotizzava la fantomatica realizzazione di un insediamento turistico ricettivo polivalente a tre stelle, denominato, Borgo Marina di Rovigliano e perfino un’azienda di apparecchiature elettromeccaniche; a Boscoreale, invece, si proponeva un mega Parco Archeologico, il Pagus Augustus Felix, un percorso archeologico, museale, con annesso insediamento ricettivo e l’immancabile hotel da 600 posti. Complessivamente un investimento da 250 miliardi per 1.090 nuovi posti di lavoro, da aggiungersi ai 518 miliardi e 631 posti di lavoro degli originari quattro progetti. Come se ciò non bastasse, a tutto questo si aggiungevano 34 mini progetti, già passati attraverso il vaglio della legge 488/92. Progetti entrati nella particolare graduatoria prevista dalla legge, nata per finanziare nuove occasioni di lavoro nel Mezzogiorno, ma esclusi per esaurimento delle risorse disponibili, si riproponevano ora attraverso lo sportello pigliatutto della Tess, fortemente sponsorizzata dalla Unione Industriali di Napoli. Questi 34 progetti rappresentavano investimenti per ulteriori 50 miliardi e 350 posti di lavoro.

Il modo in cui i 38 progetti erano apparsi e tentavano di essere imposti, aveva sollevato un mare di polemiche tra le organizzazioni sindacali e la Tess, fino a provocare una spaccatura tra le stesse confederazioni Cgil Cisl Uil, poi ricomposta in una riunione del 27 novembre. Nella sede napoletana della Tess, in Via Santa Brigida, le segreterie provinciali del sindacato davano definitivamente il via libera alle nuove micro iniziative. Durante la riunione, l’amministratore delegato della Tess, Vittorio Isabella, annunciava il via libera dal Imi dei primi quattro progetti e l’invio al Cipe per l’istruttoria finale. Entro il 30 dicembre, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, doveva dare il proprio definitivo parere sui finanziamenti, sarebbe seguita la firma del primo protocollo aggiuntivo del contratto d’area presso la presidenza del consiglio e infine l’avvio dei lavori, la cantierizzazione delle opere, le prime assunzioni, il reimpiego di quanti avevano lottato durante quei lunghi interminabili anni, in definitiva il tentativo di trasformare, ancora una volta, il sogno  in realtà.

Con questa speranza si chiuse il 1998, così come puntuale e precisa si aprì la polemica nei primi giorni del nuovo anno a seguito di una discutibile cena all’Hotel Vesuvio, organizzata da Vittorio Isabella alla quale erano stati invitati tutti i sindaci dell’area, diversi imprenditori, i parlamentari del territorio, il Presidente della Task Force, Gianfranco Borghini, l’Amministratore delegato della Itainvest, Aldo Palmeri, l’assessore regionale all’industria, Francesco d’Ercole, il Prefetto, Giuseppe Romano e l’intero consiglio d’amministrazione della Tess. Tra gli invitati, i tre segretari generali regionali e di Napoli di Cgil Cisl Uil, i quali, però, declinarono l’invito rendendosi conto della evidente stonatura della strana cena. Ancora non si era spenta l’eco della nuova polemica, quando Giulio Rossi Crespi, assessore provinciale alle politiche territoriali, dichiarava illegittime le procedure per il porto turistico da realizzare a Castellammare, perché il progetto non era mai stato ratificato dai consigli comunale, provinciale e regionale. In quelle stesse, fredde giornate di gennaio, falcidiate dal  gelido Buran, siberiano vento polare, non vi era uno che non aveva da lamentarsi di qualcosa: iniziò Fortunato D’Angelo, responsabile delle piccole e medie imprese dell’Unione Industriali di Napoli, per il quale i contratti d’area e i patti territoriali così com’erano stati concepiti non servivano a risolvere la situazione occupazionale dell’area, proseguì il manager della Tess, Vittorio Isabella, denunciando i ritardi della burocrazia colpevole della mancata cantierizzazione delle opere ferme al ministero del bilancio per l’istruttoria finale. A sgombrare le preoccupazioni sui ritardi della firma del primo protocollo aggiuntivo del contratto d’area torrese stabiese, interveniva lo stesso ministro del lavoro, Antonio Bassolino, quando in un convegno nell’aula magna dell’ex facoltà d’Economia e Commercio, ne annunciava la data entro febbraio.

Dopo Giovanni Zeno scomparve prematuramente, il 21 gennaio 1999, un altro dirigente sindacale vicino alle questioni dell’area Torrese Stabiese, il lombardo Angelo Airoldi, dirigente nazionale della Cgil, morto a 57 anni. Appena pochi mesi, verso la fine di novembre del 1998 aveva lasciato la segreteria confederale per andare a dirigere la nuova Camera del Lavoro metropolitana di Venezia. Pochi giorni dopo la morte di Airoldi, il 27 di quello stesso mese, seguirà la scomparsa di Giovanni Grasso, un popolare che aveva dato un notevole contributo, come presidente della Regione, nella prima fase della vertenza torrese stabiese.

Tempo per pensare a quanti lasciavano la tumultuosa, terrena valle di lacrime, in quei difficili anni di battaglie senza fine, non se ne aveva molto. Giusto un pensiero, per ricordare le cose importanti condivise o meno, poi avanti a pensare al domani, alle cose da fare, alle nuove, immancabili difficoltà. A riaprire il fuoco delle polemiche era il segretario provinciale della Fillea, Raffaele Scala, accusando il sindaco di Torre Annunziata, Francesco Maria Cucolo e il manager della Tess, Vittorio Isabella, di facile ottimismo, in contrasto con i fatti reali, sia per quanto riguardava l’apertura del cantiere Tecnotubi, sia per Villa Romana. [7] Inutilmente il sindaco di Torre gettava acqua sul fuoco, pur riconoscendo veritiere le preoccupazioni della Cgil, come del resto i fatti dimostreranno lasciando nel cassetto dei sogni i troppi improvvisati progetti, messi in piedi in maniera raffazzonata, senza criteri e collegamenti reali con le necessità del territorio, basti pensare alle troppe, incredibili, deliranti proposte di hotel da costruire in ogni buco vuoto, nei posti più impensabili, se non assurdi. Progetti tanto più inutili in presenza delle difficoltà registrate dai primi presentati, come Villa Romana e il Parco Virtuale, ancora fermi al palo delle idee senza costrutto. [8]

 A bilanciare l’amara verità arrivarono le notizie dell’imminente apertura, nell’area della ex Dalmine, della Metalfer Sud, azienda metalmeccanica nel settore della carpenteria industriale con un’occupazione a regime di 93 dipendenti e il 9 febbraio la firma in prefettura del protocollo sulla legalità sottoscritto dai sette nuovi comuni facenti parte del consorzio Torre Stabia. La notizia suscitò entusiasmo perché dimostrava una reale volontà di costruire qualcosa di certo, non a caso la prima azienda impiantata nella Dalmine, l’Erregi, con i primi 55 assunti, nonostante le polemiche iniziali stava cominciando a dare buona prova di sé. Ma il pendolo era in agguato e alla notizia buona doveva inevitabilmente subentrarne una negativa: appena il tempo di assaporare la gioia del piccolo passo in avanti che, come un’altalena misteriosamente programmata per impedire una serenità prolungata su quell’area martoriata, si propagò la notizia della mancata convocazione da parte della Presidenza del Consiglio per la firma del primo protocollo aggiuntivo, indispensabile per far decollare i nuovi progetti industriali e garantire la proroga della cassa integrazione ai lavoratori sospesi dal lavoro. Come se non bastasse arrivò la denuncia da parte di Matteo Vitagliano e Raffaele Scala di manovre clientelari sulle nuove assunzioni da effettuare nell’area Dalmine. I due sindacalisti citavano, in un’intervista al settimanale locale, Metropolis, strane iscrizioni al collocamento circoscrizionale di Pompei di disoccupati provenienti da altre province e l’annuncio di una selezione, aperta ai residenti di tutta la regione, per quaranta assunzioni da effettuare nelle Erregi, in contrasto con gli accordi tesi alla rioccupazione dei lavoratori in esubero dalle aziende in crisi e a favorire l’assunzione di giovani dell’area, così come stabilito nei diversi accordi sottoscritti ai tavoli ministeriali.[9] Le polemiche arrivarono sul tavolo prefettizio, con accuse circostanziate, allargando ad altre aziende presenti da tempo sul territorio l’accusa di assunzione pilotate, di compra vendita di posti di lavoro, di un vero e proprio mercato gestito in maniera illegale.  La riunione ebbe un qualcosa di surreale con i vari protagonisti seduti intorno al tavolo a temporeggiare sulle questioni poste, fino a quando fu chiaro che nessuna risposta sarebbe venuta da quel tavolo istituzionale. Mancano le prove, le parole non bastano, vi è addirittura la possibilità di essere querelati dalle aziende accusate. Questa vicenda si deve chiudere qui. E così fu!

Si infittirono in quei giorni nuove e più violente polemiche sull’uso distorto dei contratti d’area, sulla loro proliferazione quando mancava la capacità di portare avanti quelli già esistenti, registrando colpevoli ritardi e accertate incapacità. I giornali di destra e di sinistra suonavano la grancassa, ognuno enfatizzando la propria posizione pro o contro i contratti d’area, lo stesso Segretario Generale della Cgil, Sergio Cofferati, intervenendo a Napoli riteneva inutile proporre nuovi contratti d’area. Nel caso specifico la polemica riguardava la proposta fatta su Bagnoli di intervenire con lo stesso strumento utilizzato per il comprensorio vesuviano.

Dall’area torrese stabiese, intanto, piovevano sul tavolo del Ministro del lavoro, Antonio Bassolino, comunicati e telegrammi di protesta, sostenuti dalle segreterie sindacali unitarie, provinciali e regionali, dalle organizzazioni nazionali di Cgil Cisl Uil, dai sindaci e dai parlamentari. Dal 20 febbraio, l’appuntamento decisivo per la firma del protocollo d’intesa era slittata al 28, ma saltata anche questa nuova data, il sindaco di Castellammare, Catello Polito, minacciò di dimettersi e di guidarne la protesta fino a Roma, se necessario, ritenendo ormai insostenibile la situazione.

A Torre Annunziata il clima tra gli operai si era fatto incandescente per la mancata firma del Protocollo aggiuntivo, generando una tensione insostenibile culminata nei primi giorni di marzo in una tumultuosa assemblea generale di operai e delegati nell’aula consiliare. I delegati chiedevano a gran voce la presenza dei massimi dirigenti sindacali ma tranne il segretario della Camera del Lavoro di Torre, nessuno si fece vedere nonostante le ripetute telefonate fatte a tutti. L’aria si surriscaldava sempre di più e alcuni soffiavano sul fuoco per provocare la rissa e far scoppiare l’incidente. L’intenzione era chiara. Seduto sulla sedia del sindaco e circondato da delegati fedeli, Scala cominciò a parlare ma ebbe appena il tempo di pronunciare poche parole quando inizio la premeditata aggressione da parte di una decina di operai della Deriver, prontamente respinti dai delegati di cui si era precedentemente circondato. Tutto durò pochi minuti. Così come era iniziata la provocazione rientrò e l’assemblea si sciolse senza particolari danni per nessuno. La premeditazione voluta da alcuni ebbe modo di ripetersi due settimane dopo, quando al termine di una riunione col sindaco Cucolo su alcune questioni riguardanti la Deriver, uscendo per tenere una sorta di assemblea con gli altri lavoratori metalmeccanici in attesa all’ingresso, il segretario della Camera del Lavoro subì un nuovo tentativo di aggressione da parte di Michele Contino, delegato della Fiom Cgil. L’aggressore era lo stesso che aveva aizzato i suoi compagni nella tumultuosa assemblea di quindici giorni prima.  A quella riunione era presente anche Matteo Vitagliano, ma contro di lui nessuno si mosse a dimostrazione di una premeditazione perseguita contro il dirigente sindacale confederale della stessa organizzazione per motivi rimasti ignoti, nonostante la denuncia fatta alla commissione di garanzia regionale della Cgil.

Arrivò infine la data del 15 marzo e l’agognata firma tesa alla realizzazione di sei iniziative nell’area torrese stabiese per un totale di circa 553 miliardi investimenti ed un contributo pubblico di circa 279 miliardi a valere sui fondi Cipe e di 2,5 miliardi di lire a valere sui fondi della legge 181/89. La realizzazione delle sei iniziative comporterà la creazione di 631 nuovi posti di lavoro che saranno assegnati in primo luogo ai lavoratori provenienti dal bacino del reimpiego (...)

recitava in premessa il verbale sottoscritto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri elencando i due progetti da realizzare a Castellammare, porto turistico e albergo e le quattro iniziative di Torre Annunziata, il Parco a tema, Pompei Tech World l’albergo Villa Romana, Artos e Nuova Cons. Ind., questi ultimi legati alla ristorazione collettiva. Tutti progetti destinati al fallimento, compreso Pompei Tech World rimasto in discussione per circa un decennio, pur tra cento varianti subite nel corso di questi lunghi anni. Una lunga, spiacevole telenovela animata da comparse e protagonisti a livello locale e nazionale, con varie incursioni di vari imprenditori, alcuni inverosimili, senza senso del ridicolo, forse semplicemente spregiudicati affaristi in cerca di business. L’ennesima sconfitta di un territorio martoriato.

 In quegli stessi giorni si accendevano i riflettori sulla Deriver, l’antica fabbrica siderurgica di Torre, dove un Consorzio di piccole imprese locali, Assoimpresa, annunziava un piano di reinsediamento, sulla falsariga di quanto si stava già facendo sulla ex Tubi Dalmine.

Naturalmente, così come voleva l’ormai consolidato copione, si riaprirono le preoccupazioni per i 135 dipendenti dell’Ilva Pali Dalmine, sui quali incombeva di nuovo la preoccupazione dei licenziamenti per la cronica carenza di commesse, aggravata dalla mancata assegnazione di nuovi lavori da parte dell’Enel, mentre i 47 operai superstiti della  Tecnotubi Vega esternavano le loro paure sul futuro incerto, nonostante la firma ancora fresca del contratto d’area, ma più complessivamente erano tutte le aziende in crisi a temere sul loro futuro.

In quegli stessi giorni su denuncia del consigliere comunale di Alleanza Nazionale, Ida Scarpato, si apriva un’inchiesta sull’amianto all’Avis e in particolare sull’interramento della micidiale sostanza tossica all’interno dello stesso stabilimento fatto di nascosto, di notte. A provarlo una serie di foto risalenti ad alcuni anni addietro, consegnate da un ex operaio dell’Avis andato in pensione nel 1994, ai giudici incaricati dell’indagine. L’inchiesta portò nei giorni successivi a dieci avvisi di garanzia ad altrettanti dirigenti dell’azienda metalmeccanica, mentre erano portati alla luce le storie drammatiche di almeno quattro operai dell’Avis morti di asbestosi negli ultimi anni. Contemporaneamente il consiglio comunale di Castellammare approvava all’unanimità un ordine del giorno in cui si chiedeva al sindaco di costituirsi parte civile. La denuncia sull’amianto nascosto arrivò in parlamento, aprendo discussioni e interessando la stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esse connesse.

L’ex operaio ha dichiarato che dieci anni fa, insieme ad altri operai assistette alla procedura di scarico da alcuni sacchi di residui di fibre di amianto all’interno di buche scavate in due o tre padiglioni occupati dall’Avis. Poiché in quei padiglioni si stavano effettuando lavori di ristrutturazione si approfittò della circostanza per ricoprire gli scavi di cemento in modo da tutelare la salute degli operai, come avrebbe affermato all’epoca lo stesso responsabile del personale. [10]

Intanto sulla stampa si pubblicavano indiscrezioni sull’imminente licenziamento del manager della Tess, Vittorio Isabella e nuove feroci polemiche sullo stallo delle iniziative da realizzare.  Il nome del nuovo amministratore delegato, il sesto in sei anni, fu ufficializzato pochi giorni dopo ed era Carlo Trevisan, un imprenditore veneziano, già sindaco di San Donà del Piave e Presidente dell’istituto autonomo case popolari del capoluogo veneto.

Il nuovo manager venuto dal nord mostrava da subito, almeno in apparenza, di avere le idee chiare sul suo ruolo e su quanto intendeva fare per rilanciare un asfittica Tess, dimostratasi incapace di svolgere una reale funzione di promozione industriale e di spinta nei confronti delle varie istituzioni cointeressate allo sviluppo dell’area. Si prendevano quindi contatti con l’altro consorzio confinante, denominato Miglio D’Oro, con l’Unione Industriale di Napoli e le diverse associazioni di categoria, si allagava l’interesse agli altri comuni limitrofi, rimasti finora ai margini delle iniziative di sviluppo turistico industriale, si cercava di cogliere l’occasione rappresentata dal Prusst, Programmi di riqualificazione urbana per lo sviluppo sostenibile del territorio, lanciato dal Ministero dei Lavori pubblici con finanziamenti destinati ai migliori progetti tra quelli presentati da aree territoriali, comuni e consorzi. Nella corsa ai finanziamenti si lanciarono dieci comuni e numerosi imprenditori dell’area torrese stabiese proponendo diversi progetti, alcuni nuovi, altri rivalutando vecchie idee rivedute e corrette, qualcuna fantasiosa, oppure irrealizzabile, con la Tess disponibile a far quadrare il cerchio di un’organicità difficile a farsi fra progetti tanto eterogenei. La data ultima per presentare i progetti era il 27 agosto, una corsa contro il tempo sognando stazioni marittime, parcheggi di scambio, pedonalizzazioni, piste ciclabili, aree ambientali, rivalutazione di centri storici, bretelle stradali, immaginando nuove attività florovivaistiche, enologiche e agroalimentari, circuiti archeologici e impianti termali. Incontri d’alto livello, tecnici ed esperti chiamati per suggerire e indirizzare, promesse e impegni naufragarono ben presto sotto la forza progettuali degli altri. Nei 48 progetti approvati il 19 aprile del 2000 dal ministero dei lavori pubblici, sui 200 presentati, non c’era nessuna traccia dell’area torrese stabiese, mentre della Campania la sola Benevento era riuscita ad entrare nei primi dieci, posizionandosi al sesto posto per risorse ottenute. [11]

Di certo c’era soltanto l’annunciata apertura del cantiere per realizzare il nuovo albergo sulle rovine della ex Calce e Cementi ed era di per sé un grande giorno perché rappresentava il primo concreto avvio del contratto d’area, l’inizio di un futuro meno nebuloso per mettere a tacere quanti non avevano mai veramente creduto alla possibilità di invertire la rotta per uscire definitivamente dalla drammatica crisi nella quale si era precipitati. A scuotere politici e amministratori dal torpore delle parole al vento fu lo stesso Trevisan, resosi ben presto conto di quanto era difficile muoversi in quell’area del sud dove tutti parlavano e nessuno faceva. Troppo le polemiche, le rivalità politiche tra i diversi amministratori, le paure dei burocrati e i distinguo che impediscono di decidere, trasformando le conferenze di servizi in campi di battaglia e per questo il manager veneto proponeva un maggiore coordinamento tra i vari comuni e di trasformare la stessa Tess in Agenzia del lavoro al servizio del territorio, anello di congiunzione tra i privati e la programmazione pubblica dei comuni, magari facendosi pagare i servizi erogati per migliorarne la qualità e garantirne la serietà. Per fare questo occorreva allargare gli orizzonti, uscire dagli spazi angusti di Castellammare e Torre Annunziata, fondersi per esempio con il Miglio d’oro, il patto dei quattro comuni vesuviani, attraverso una carta dei principi per legare i sedici municipi a un comune destino, per meglio valorizzare le risorse territoriali, ambientali turistico archeologiche.

A metà novembre ci fu l’avvio ufficiale della demolizione del vecchio cementificio e l’inizio dei lavori per costruire il nuovo albergo, affidati ad un’impresa napoletana, la Medil dei fratelli Perrot, mentre la Tess avviava le trattative per acquistare la Scac di Torre Annunziata, poi perfezionata nell’aprile del 2000, pagandola circa 2 miliardi. Facevano da contrappeso le notizie dell’ennesima crisi dell’Avis con l’annunciato licenziamento dei 160 operai ancora rimasti al lavoro e quelli effettivi dei 47 operai dei Molini di Stabia del gruppo Italgrani, quello stesso opificio in cui, non molto tempo prima, si era ipotizzato di realizzare un nuovo albergo, Hotel luci del Golfo, presto caduto nel dimenticatoio. Dalla vicina Pompei arrivava la notizia della messa in vendita della più importante azienda posta sul suo territorio, l’Aticarta, un’industria cartaria fondata nel 1955, di proprietà dell’Ati, Azienda Tabacchi Italiani, situata lungo il fiume Sarno in via Campo Aviazione, dove avevano trovato occupazione fino a trecento dipendenti, più l’indotto.

La piccola cittadina, cara a Bartolo Longo (1841 – 1926), stando al censimento dell’industria del 1996, pubblicato dall’Istat, aveva perso negli ultimi cinque anni, tra il 1991 e il 1996, qualcosa come 1.200 posti di lavoro, con la chiusura di 122 imprese, in gran parte attività del settore commerciale, alberghiero e della ristorazione. Nessun clamore aveva accompagnato questa strisciante crisi economica perché lento era stato lo stillicidio e mai nessuno aveva veramente protestato, rimanendo fuori dai circuiti dell’informazione e dall’interesse massmediatico. Ma ora la notizia riguardava un’azienda importante e non si poteva rimanere indifferenti. Inizialmente la preoccupazione fu relativa perché l’Aticarta era un azienda a partecipazione pubblica e questo in qualche modo riduceva l’impatto negativo, nella certezza di trovare comunque una soluzione al problema senza reali traumi. Nessuno poteva immaginare di trovarsi di fronte un dramma la cui durata si sarebbe contata in parecchi anni, fino a coinvolgere l’intera cittadinanza e lo stesso episcopato, sceso in piazza nel 2005 per difendere quanto rimaneva del sito produttivo. Del resto se Pompei lamentava dati negativi, stava sicuramente peggio la vicina Torre Annunziata, dove nello stesso periodo i posti perduti erano stati 2.364 e le aziende chiuse sommavano a 91.

Così ancora una volta l’anno si chiudeva con manifestazioni di protesta degli operai dell’Aticarta, cui era annunciato la messa in cassa integrazione di 70 dei 270 dipendenti in forza allo stabilimento, mentre gli operai della Molini di Stabia, dopo la notizia del fallimento seguita alla messa in amministrazione controllata durata pochi mesi, occupavano per cinque giorni il loro stabilimento. Ad aggravare la complessiva situazione sociale del territorio arrivava in quei giorni d’inizio dicembre  la notizia, da parte del Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del notevole ritardo nella presentazione alla Comunità Europea  per quanto riguardava una serie di documentazione relativa ai progetti di Villa Romana e Pompei Tech World, mettendo in serio pericolo la loro ammissibilità ai finanziamenti, creando fibrillazione nel mondo politico sindacale, non soltanto locale.

Poiché la documentazione doveva pervenire entro il 31 di quel fine anno, cominciò il solito balletto sulle diverse responsabilità politiche burocratiche, lo scambio di accuse e le polemiche infinite e senza costrutto dei diversi addetti ai lavori e per la prima volta Carlo Trevisan si sentì sotto accusa, al punto da minacciare di dimettersi, non essendo disponibile a fare da parafulmini alle colpe altrui. [12]

In fibrillazione andavano le forze politiche di Torre Annunziata, città nella quale nessun progetto del contratto d’area era ancora decollato e ora si mettevano in discussione proprio quelli considerati più importanti. Si chiedevano quindi urgenti incontri in sede ministeriale per porre rimedio al mal fatto. In realtà nessuno affrontava il vero nocciolo della questione: i problemi non erano legati ai progetti di per sé quanto alle società che li avevano avanzati, nelle ambizioni, nelle furberie tutte italiane, di quanti pensavano di aver fiutato l’affare, di poter spremere la vacca del denaro pubblico senza esporsi più di tanto, senza rischiare nessun capitale proprio, di trasformare in oro la propria incapacità imprenditoriale, come molto presto si dimostrerà proprio a Torre Annunziata nei diversi progetti legati ai piani di reindustrializzazione della Tubi Dalmine, in gran parte destinati a fallire miseramente.

In pochi avevano provato a far aprire gli occhi, denunciando alla stampa, alle proprie organizzazioni, quanto stava accadendo, ma chi aveva l’obbligo di ascoltare non prendeva in considerazioni quelle accuse. Se si assumevano iniziative per contrastare quelle strane attività imprenditoriali, senza costrutto e senza futuro si era tacciati di localismo, erano anzi accolte con fastidio dai livelli superiori. Secondo alcuni bisognava, addirittura, prendere delle contromisure, assumere delle iniziative per contrastare questi uccelli del malaugurio. Il business era troppo importante, ricco e appetitoso e troppo ciechi, pigri e lontani dalla realtà, erano o tali volevano sembrare quanti avevano il dovere di verificare, controllare quanto realmente stava accadendo. Eppure bastava poco per controllare, capire e agire di conseguenza, semplicemente applicare rigorosamente le intese sottoscritte tra le parti sociali e lo stesso protocollo sulla legalità, ma era più importante inseguire i personali sogni di gloria, le ambizioni mal nascoste, gli egoistici progetti di carriera per occuparsi veramente del contratto d’area, dello sviluppo concreto di quel martoriato territorio, in fondo periferico rispetto ai loro orizzonti. E così continuava la pantomima degli incontri presso la solita Task Force dell’imperturbabile e inossidabile Borghini, uomo di tutte le stagioni. [13]

Villa Romana riuscì in extremis a presentare la documentazione richiesta mentre il Parco virtuale chiese e ottenne una dilatazione legata alla diatriba sulla società presentatrice del progetto, se questa era da considerarsi piccola o grande impresa, dilemma di non poco conto perché da questo dipendeva l’entità del finanziamento pubblico, importo variabile dal 40 al 60%. In tanto clamore arrivò la notizia della morte a 98 anni di Silvio Gava, un uomo, una famiglia, un clan che nel bene e nel male aveva dominata la scena politica per mezzo secolo ed ora se ne andava in silenzio, dopo essere lentamente scomparso dalla scena politica, alla vigilia di Natale e di un secolo ormai alla fine. Così come scomparirà nel gennaio seguente un altro grande protagonista della politica nazionale, il socialista Bettino Craxi (1934 – 2000), un leader dalla forte personalità, capace di dominare la politica italiana un intero quindicennio, pur essendo alla guida di un partito la cui forza non andava oltre il 10% dei consensi elettorali e caratterizzato dallo scontro violento con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer per l’egemonia della sinistra. Una leadership per alcuni discutibile e sulla quale pesa l’accusa di essere la fonte della degenerazione del sistema politico italiano, poi crollato sotto il peso delle inchieste giudiziarie portate avanti dalla Procura della Repubblica di Milano.

 


Note:

[1]  Corriere del Mezzogiorno (inserto del Corriere della Sera) del 23 novembre 1997: Contratto Torre- Stabia, entro il 10 occorrono i pareri di congruità, art. di Simona Brandolini

[2]  La Repubblica del 24 dicembre 1997: E’ morto il sindacalista Zeno, ma cfr. anche Metropolis del 23 dicembre: Ciao Giovanni e altri periodici locali come Lo Strillone del 3 gennaio 1998 e La Voce della Provincia del 16 gennaio

[3]  La Voce della Provincia del 14 febbraio 1998: Ritardi inaccettabili, art. di Raffaele Scala

[4]  La Voce della Provincia del 27 febbraio 1998: Non è solo una speranza, art. di Raffaele Scala

[5] La Repubblica dell’8 aprile 1998: Contratto d’Area Torrese Stabiese, ieri la firma, di Ottaviano Ragone, l’Unità del 7 aprile 1998: Torrese-Stabiese, firma oggi, cfr. anche La Voce della provincia: Giorni di festa. Attenti ai facili entusiasmi di Raffaele Scala

[6] La Voce della Provincia del 24 aprile 1998: L’assalto dei famelici, art. di Raffaele Scala

[7] Il Mattino del 28 gennaio 1999, l’art. di Laura Cesarano: I due insediamenti al palo. TESS: troppi ritardi negli interventi e Il Denaro del 30 gennaio: Dopo quattro anni di lavoro nessun progetto al via.

[8] Il Mattino del 4 febbraio 1999: Vicenda Tess, il sindaco replica al sindacato, di Laura Cesarano

[9]  Metropolis del 24 febbraio 1999, l’art. di Emanuela Cirillo, Area Dalmine. L’appello dei sindacati al Prefetto, la denuncia dei disoccupati del comprensorio. Assunzioni, l’ennesimo   flop

[10] Atti parlamentari, seduta del 7 luglio 1999, audizione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata, Alfredo Ormanni

[11]  Il Sole 24 ore del 31 maggio 2000: PRUSST, progetti per 66mila miliardi

[12] Il Corriere del Mezzogiorno del 17 dicembre 1999: TESS, l’ira di Trevisan: Ora basta, art. di Gimmo Cuomo. Vedi anche, sullo stesso quotidiano, il testo integrale della lettera inviata da Trevisan al Presidente della Regione, Andrea Losco e agli altri soggetti istituzionali, sindacati compresi.

[13]  Cfr. La Voce della Provincia, quindicinale di Torre Annunziata del 22 dicembre 1999, l’art di Raffaele Scala, Ma che faccia tosta! e la polemica su Metropolis del 29 dicembre tra il sindaco Cucolo e il Segretario della Camera del Lavoro di Torre Annunziata.

 

N.B.: chiunque possa e voglia fornire notizie e foto utili all’approfondimento dei temi trattati può contattarmi tramite la mail raffaele_scala@libero.it. Grazie.


 

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