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CASTELLAMMARE & GLI ISOLACUSTICA SBANCANO ITUNES

CASTELLAMMARE & GLI ISOLACUSTICA SBANCANO ITUNES

susy e isola

susy e isola

La tecnologia fa passi da gigante; ogni giorno, ogni istante che consumiamo sulla terra è preceduto da una novità tecnologica. La tecnologia, ormai, fa parte della nostra quotidianità a tutti gli effetti, e non passa secondo, in cui i mezzi di informazioni non comunichino novità o nuove invenzioni. Continua a leggere

Stampa ottocentesca, collezione Gaetano Fontana

A Criazione a Castiellammare

A Criazione a Castiellammare

di Giuseppe Zingone 

Storia di una cosmogonia tra Castellammare e Stabia

La creazione, secondo il cristianesimo è dono gratuito di Dio, cioè un regalo non subordinato all’amore dell’uomo, anzi Dio previene l’amore umano donandosi per primo. I teologi affermano che Dio è Trino, a motivo del fatto che se fosse stato uno e solo, avrebbe amato unicamente sé stesso, di un amore egocentrico; l’IO del Padre si rivolge al TU del Figlio, divenendo il NOI dello Spirito Santo. L’amore infatti ha bisogno di un tu a cui rivolgersi ed essendo l’amore di Dio perfetto e sovrabbondante esce fuori da sé stesso nella creazione ed ecco lo Spirito di Dio iniziare l’opera aleggiando sulle acque, un amore traboccante, debordante, dà origine al mondo ed attraverso il Verbo ha inizio la più grande avventura dell’intero e sterminato universo.

'A Criazione, Castellammare stampa Ottocentesca

A Criazione a Castiellammare Castellammare stampa Ottocentesca (collezione Gaetano Fontana)

Ne sono certo!… quando il terzo giorno della creazione Dio fece apparire l’asciutto si sedette sul cono del Vesuvio, tenendo in fresco i piedi, godendo per brevi istanti della ombrosità proveniente da Sud; già pregustava il suo meritato riposo della lunga giornata che ormai volgeva al termine. Il suo lavoro evidentemente non era ancora completo, per cui delimitò lo spazio, tra il verdeggiante Faito ed il mare, e con il suo personale pennello tracciò un arco, il golfo di Castellammare di Stabia. Quel che fece era buono e giusto, ma nella sua onniscienza pensando al Figlio suo ed agli uomini che questi avrebbe riportato al Padre attraverso la croce, non si astenne dal sollevare il Faito, e sotto di esso tracciò diversi solchi, che presto furono ripieni d’acqua cristallina, l’acqua che prese a scorrervi acquistava pian piano l’essenza delle pietre, ricche di minerali, sulle quali si muoveva. Anche qui si soffermò e toccandosi la barba riconobbe di aver fatto un buon lavoro, nessuno neanche l’uomo più insensibile e ingrato avrebbe potuto dire che Dio non era stato provvido verso quei luoghi, l’aria serale era frizzante ed ora riposarsi aveva l’unico scopo di proseguire il lavoro il giorno dopo; non s’accorse però che nel sollevarsi, il suo piede aveva fatto riemergere dal mare un piccolo scoglio che fu il coronamento di un opera d’arte, come la firma di un pittore sulla tela appena terminata. Inutile dire che ai primi uomini che vissero in questa succulenta terra non mancava nulla, c’era solo da scegliere: dedicarsi alla pesca, alla caccia, all’agricoltura per cui nacquero subito i primi insediamenti umani che non avevano bisogno di palafitte per proteggersi dai feroci animali, le grotte furono presto abbandonate, subito si svilupparono culture nuove che si affinarono sempre più, i Sanniti, gli Etruschi, i Greci e poi i Romani. Come tutti gli altri anche questi ultimi non poterono far a meno di notare le enormi potenzialità della terra di Stabiae e quando successivamente, essa non volle piegarsi al crudele tiranno Silla fu distrutta, ma subito si riebbe, rifondò sé stessa e ancora una volta cadde in disgrazia stavolta per l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Post fata Resurgo celebra il motto stabiese e così fu che dal basso all’alto medioevo, questa terra fece innamorare Regine e nobili, principi e marchesi, e fu amata in maniera indicibile soprattutto dai suoi figli (in particolare dai figli emigrati), che di lei, serbarono i ricordi nel cuore.

Ora come il lettore ben sa, non esiste creazione positiva, senza che il suo opposto faccia la sua bella comparsa, e ve pare co’ riavolo se ne steva in disparte? Troppa bella sta terra, pe’ nun ce mettere ‘e mmane. Fatto è che il peccato entrando nel cuore dell’uomo lo corrompe, è succieso pirciò ca ‘e mmane c’hanno vulute mettere paricchie ‘e lloro, tanto che la Città stessa in una giornata di pioggia squassante e fastidiosa, disse: “Dio mio, vire tu quanta munnezza!!!” A dire il vero non si capì bene a cosa o a chi si riferisse. Io propendo per i “chi” ed allora cito: chi specula, chi corrompe, chi maltratta, chi nun se piglia scuorno, chi sporca, chi ‘mbratta, chi arrobba, chi truffa e chi fa perdere ‘a speranza, si tanto che pure a ggente onesta fatica a se cumpurtà buono!

In ogni caso è chiaro che ‘o remmonio s’è moltiplicato e cu’ isso: cattiverie, fetenzie, e mal’azioni. Speriammo e n’aspettà troppo pe’ sta restaurazione; Stavota senza aiuto ‘e Dio cumpimmo sta ri-CREAZIONE!

Pillole di cultura: Agenda

a cura del prof. Luigi Casale

Faccio in tempo a parlarvi di agenda?
Certo, avrei potuto farlo prima! Considerato l’uso diffuso della parola specialmente negli ultimi tempi.
Ma dopo che anche il quotidiano “la Repubblica” (giovedì, 3 gennaio 2013) ha dedicato un paginone alla parola (nello spazio: “R2-DIARIO di Repubblica”), non posso esimermi.
Perciò nel rispetto dei miei quattro lettori non mi tirerò indietro. Anche se la riflessione a più voci presentata sul giornale la Repubblica – suggerita dalla attualità della formula “agenda Monti” – ne spiega l’uso e il significato nel linguaggio della politica.
Il mio intento resta comunque fedele alla affermazione posta a cappello di questa rubrica. Ciò, per non lasciare l’affezionato mio lettore, desideroso di addentrarsi in un più personale percorso di lettura della parola, privo di quel metodo che nella sua modestia appare più vicino, più quotidiano, più familiare: tutto nostro, insomma.
Nella pratica noi sappiamo che cosa sia l’agenda: un libro, un quaderno, un brogliaccio, dove vengono annotati gli appuntamenti, le date importanti, le cose da fare; oppure dove sono fissate quelle annotazioni di carattere personale di cui vogliamo lasciare memoria allo scopo di poter ricostruire in futuro la nostra storia personale. Questa seconda utilizzazione avvicina l’agenda a quell’altro libretto che chiamiamo anche diario.
Per l’esperienza che ne abbiamo, potremmo dire allora che l’Agenda (quella che in questo inizio d’anno abbiamo ricevuto in dono specialmente da Banche, Assicurazioni, Uffici di rappresentanza, Ditte e Società di servizi) è più professionale, destinata agli adulti, o per lo più a persone di un certo impegno e responsabilità.
Il Diario, invece, scolari e studenti ce l’hanno nella cartella scolastica; dove annotano insieme agli impegni giornalieri di scuola anche i compiti assegnati, da svolgere a casa.
Le due cose potrebbero però ridursi alla medesima funzione, compreso anche il lavorio quotidiano di ricerca interiore fatto giorno per giorno attraverso la registrazione del vissuto: incontri, emozioni, fantasie, riflessioni, decisioni, annotazioni per memoria, ecc.
“Diario” – forse già ne abbiamo parlato in altre occasioni – è un aggettivo (poi sostantivato: “il diario”) derivato da dies = giorno; perciò l’etimologia della parola mette in evidenza una rappresentazione del tempo cadenzato a ritmi giornalieri.
Mentre “agenda” è un’antica forma di participio (perdutasi nella lingua italiana!) che la grammatica latina ci fa chiamare gerundivo. In particolare: agenda, dal verbo ago = faccio, è il nominativo plurale neutro del gerundivo latino, e significa “le cose che debbono essere fatte”. Perciò la parola, divenuta in italiano – come nome del libricino – un sostantivo femminile singolare, mette in evidenza le azioni programmate, le scadenze, tutte cose che, una volta svolte, diventano “fatte” (i fatti, gli avvenimenti); cioè “acta” (sempre da “ago”), per dirlo con la corrispondente parola latina.
Sia il politico che lo scolaro, quindi, a seconda che chiamino agenda oppure diario il loro libro immaginario delle cose da farsi – o il brogliaccio concreto su cui le annotano – si riferiscono ad un programma definito di “compiti” (ricordate l’espressione della Merkel? “L’Italia deve fare i suoi compiti!”).
Ma la parola “compiti” non significa necessariamente: “cose assegnate da altri”. Ma più esattamente: “cose che devono essere portate a termine (compiute)”.
In francese la parola per indicare la stessa cosa è: “devoirs” (calco delle parole italiane: doveri o debiti; cioè “cose dovute, che si devono fare o dare”).
In conclusione: solo chi non conosce la portata delle parole (specialmente quando c’è di mezzo una traduzione da una lingua all’altra) non capisce. Potenza della trasparenza! Mentre chi è in malafede, fa finta di non capire.

L.C.

 

Pillole di cultura: Amante

a cura del prof. Luigi Casale

Non mi piace la parola “amante”.
Certamente essa è accettabile e dignitosa in un testo letterario: sul piano comunicativo – e su quello artistico – come tutte le parole scelte dal compositore per la sua creazione originale, essa definisce una precisa realtà, rimanda cioè a un referente (così si dice), seppure inventato dalla fantasia dell’autore, chiaramente individuabile non solo nella parte di significato che indica l’oggetto in sé (denotazione), ma soprattutto in quella che implica (sottolinea e trasmette al lettore) sentimento (amore, odio, piacere, dolore, ecc.) oppure ricordi (adesione, repulsione, partecipazione) sulla base dell’esperienza ( esistenziale e linguistica) che ognuno ne ha fatto nella vita e nel quotidiano. Essa, la parola “amante”, non mi piace nell’uso che se ne fa normalmente. E non mi piace per quell’accumulo di significati altri, che l’uso ha sedimentato su di essa.
Preferisco: “amata”. Oppure: “amato”. A seconda dei casi.
Intanto come participio presente (forma nominale che esce in “-e” al singolare, e in “-i” al plurale) non mi consente di distinguere il maschile dal femminile. E poi perché insiste sull’elemento discriminatorio di tipo sociologico, proprio per quella sua connotazione di cui parlavo sopra.
Immaginate di pensare ad un amante; oppure ad un’amante. A seconda dei casi. Che ne dite?
Sarà colpa della nostra sensibilità, dell’educazione, sarà il sistema dei valori condivisi, saranno le convenzioni, i pregiudizi, – dite quello che volete – o la stessa civiltà (e la cultura) cattolica? Ma, sta di fatto che “amante” suona male. Eppure non dovrebbe essere così.
Perciò preferisco la forma passiva: amata o amato.

La cosa non riguarda solo la civiltà cristiana. La distinzione tra amore casto (sano, sacro) e amore profano (fuori dal tempio) è un classico, e si è sviluppato con l’evoluzione dell’uomo. Pensate solo all’inimicizia tra Giunone (la sposa) e Venere (l’amante) nella mitologia classica!
Ma ritorniamo alle parole.
Per indicare l’individuo adulto della specie umana (sessuata) abbiamo le coppie di parole: “maschio/femmina”; “uomo/donna”; “signore/signora”; “marito/moglie”, e tante altre in ragione delle funzioni, dei compiti e dei ruoli; come pure: amante/amante.

Badate bene che ci stiamo riferendo alla lingua italiana. E’ importante precisare ciò. Perché la lingua, come ha detto qualcuno, è il DNA della storia e della condizione socio-culturale di un popolo; e oggi con lo sviluppo degli studi di genetica – permettetemi lo scherzoso paragone – attraverso lo studio della lingua potremmo ricostruire il genoma completo di ogni gruppo sociale.
[Di passaggio faccio notare che l’Unità d’Italia l’ha fatta la nostra lingua letteraria, l’italiano. E tutti gli uomini che nei secoli l’hanno usata. Perciò: Grazie, Dante!]
Lasciamo da parte le parole “maschio” e “femmina” (la loro origine è nell’indeuropeo) le quali indicano la capacità e il rispettivo ruolo – potenziali – delle due persone nella funzione del procreare: parole queste che si adattano anche ai bambini e a tutti i viventi sessuati; e vediamo le altre coppie.

“Signore” e “signora”. Rappresentano il gene (per restare nella similitudine) di una cultura nella quale la struttura sociale è di tipo gerarchico: prima i “vecchi”, gli anziani; poi i giovani. “Senior”, “più vecchio”: rispetto a chi è “più giovane” (“iunior”).
Da “senior”(signore), poi, per banalizzazione è venuto anche “signora”.

“Uomo/donna”. Non so se veramente la parola latina “homo” (uomo), da cui deriva l’italiano “uomo” sia da collegarsi ad “humus” (terra). Se così fosse allora potremmo collegarla direttamente alla forma ebraica del nome Adamo, e scorgervi addirittura un contatto culturale col racconto biblico della creazione dell’uomo, fatto dal fango e animato dallo spirito di Dio.

Donna, invece ci viene da un’altra famiglia di parole: domus (casa); dominus (padrone di casa); domina (padrona di casa). Se poi “humus” e “domus” siano collegabili è un problema su cui soprassediamo. L’etimologia – d’accordo! – ci dà l’origine delle parole; ma non dobbiamo aspettarci l’origine prima (che non sappiamo neanche che cosa sia), ma accontentiamoci di quel tanto che ci basti a capire e a capirci, affinché la lingua diventi più trasparente.
Per indicare lo stesso concetto con un’identica funzione semantica, la lingua francese ha selezionato la parola “femme” (latino: “femina”) utilizzandola anche per indicare l’italiano “moglie” (latino: “mulier”, presente anche nell’aggettivo italiano “muliebre” = femminile). Gli italiani, in altre epoche (vedi i poeti cortesi medievali) dicevano: “madonna” (latino: “mea domina”= mia padrona); e anche i francesi evidentemente se nel francese moderno è rimasta la forma “madame”= ([mia] signora).

“Marito” è collegato a “maschio” in quanto derivante dalla stessa parola latina “mas”.

Per concludere. Il termine latino “uxor” (donna, sposa, moglie) è rimasto nella lingua napoletana (unica!) nella espressione “‘nzurà” (l’atto del prendere moglie) che è lo “sposarsi” dell’uomo, rispetto allo sposarsi della donna che si dice “mmarità” (atto del prendere marito).
Certo, anche in italiano esiste “uxoricidio”. Ma questa è un’altra cosa. E poi si tratta di una parola dotta.

Pillole di cultura: Ambizione

a cura del prof. Luigi Casale

“Ambizione” è l’andare di qua e di là alla ricerca di qualcosa. Il verbo “àmbio/ambìvi/ambìtum/ambìre”, da ambi (intorno; di qua e di là) + ire (andare), significa “andare in giro”. Nell’antica Roma la parola veniva usata per indicare l’attività di chi, candidato ad una carica pubblica, andava casa per casa a cercare il voto elettorale. Perciò “ambizione” – all’origine – non è tanto desiderare, aspirare, cercare di avere, o bramare il successo, o pretendere un riconoscimento, come la intendiamo oggi; quanto piuttosto il darsi da fare col sollecitare personalmente il consenso elettorale. In alte parole: andare in giro a cercar voti, uno per uno presso tutti gli elettori raggiungibili.
E “àmbito” [sost.] è lo spazio limitato, circoscritto, in cui ognuno si muove.
“Ambiente” [part. pr. del verbo ambire] è uno spazio definito, che ci contiene. Tipologia di luogo, reale o metaforico.
Mentre ambìto [part. pass. del verbo ambire] oggi vale “fortemente desiderato”.