Archivi categoria: Poetica Stabiese

Pillole di cultura: Auguri

a cura del prof. Luigi Casale

( alla memoria di Antonio Carosella, grande amico del Libero Ricercatore )

La parola “auguri” rientra nel sistema di etimi tutti riconducibili ad una radice indeuropea. Ma la modesta portata del nostro lavoro non richiede di esaurire necessariamente tutte le possibilità che la linguistica comparata ci mette a disposizione.
Per comprendere la storia del significato di “auguri” ci basterà perciò collegare la parola ad un verbo greco e a tutta la famiglia di parole latine, che trovano riscontro anche nelle antiche lingue italiche.
E su queste porteremo le nostre considerazioni.
Il vebo greco è αυ̉ξάνω [auxàno] = “aumentare”, che trova riscontro nel verbo latino augeo / auxi / auctum / augère, dallo stesso significato; anche se con diverse sfaccettature (accezioni).
I vocaboli latini, molti dei quali ancora vivi nella lingua italiana, sono :
1) Augeo – auctum – augmen – augmentum;
2) Auctor – auctoritas – auctorare – exauctorare;
3) Augur – augurium – augurare;
4) Augustus – augustalis – augusteum;
5) Auxilium – auxiliari (verbo) – auxiliaris (aggettivo);
Li ho classificati per affinità di area semantica seguendo il criterio di analisi che ne fa Emile Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indeuropee (pag. 396-398) [Parigi 1969 – Torino 1976].

Le corrispondenti parole italiane – rispettivamente – sono :
1) Aumentare, aumentato, incremento, aumento;
2) Autore, autorità, procurarsi, congedare;
3) Àugure (antico sacerdote), augurium (rito religioso praticato dagli àuguri), divinare (consacrare, prendere gli auspici);
4) Augusto, Augustale (sacerdoti o feste), augusteo (che riguarda Augusto);
5) Aiuto, portare aiuto, ausiliare (agg.).

Quando nel 27 a.C. Ottaviano [Caio Giulio Cesare Ottaviano] si fece attribuire dal Senato il titolo di Augustus, che poi passò in eredità a tutti i successori fino a designare l’Imperatore come istituto e come figura giuridica, intendeva dire una cosa e farne un’altra. Intendeva dire che egli, restaurata la Repubblica, deponeva le cariche e ritornava ad essere privato cittadino. Quindi normale senatore, ma “augustus”, capace cioè di accrescere e fare aumentare la fortuna dello Stato. Una persona “autorevole” a cui poter ricorrere in ogni momento e per ogni decisione (praticamente sempre). In effetti però intendeva essere l’arbitro assoluto di ogni decisione politica, quindi il sovrano, il monarca, l’unico.
Egli astutamente già aveva caricato di significato un’altra figura assumendone il nome. Il “princeps” che significa il principale, il più importante. Questi precedentemente era un senatore anziano che aveva il compito di preparare l’Ordine del giorno per il Senato. Non era una magistratura, ma una funzione di ordine pratico. Intanto con Ottaviano “princeps” andrà a significare di fatto “il più autorevole”.
Ma la perfezione della mossa era stata già compiuta con l’attribuzione a lui da parte del Senato di due funzioni; queste sì costituzionalmente sature di conseguenze politiche: 1) la “tribunicia potestas”, che lo rendeva intoccabile per via di quella “sacrosancta potestas” che essa conteneva, insieme al diritto di veto sulle leggi (prerogative dei tribuni della plebe), e l’ ”imperium consulare et proconsulare” , cioè la potestà di condurre le legioni in guerra, propria dei Consoli in esercizio delle proprie funzioni. Oggi diremmo il comando supremo, proprio del comandante in capo dell’esercito.
Immaginate voi, tra attribuzione di funzioni costituzionali e nomine onorifiche apparentemente irrilevanti come princeps e augustus, quanto potere si era concentrato nelle sue mani. Altro che privato cittadino!
Ma se lo era conquistato, prima ancora, sui campi di battaglia, poi con l’abile diplomazia delle alleanze, e in fine con la propaganda e la politica del consenso attuata attraverso la persona di Mecenate .
Questo per dire la forza delle parole, ma non solo.
Proprio per questo motivo il Benveniste riflettendo sulle parole augur, auctor, ed auctoritas, non si accontenta di porre alla base del verbo augeo il significato di aumentare: significato con cui questo verbo è accettato in epoca storica. (Per questo motivo prima ho seguito la sua organizzazione schematica e metodologica).
E la conferma della tesi del Benveniste, se proprio ce ne fosse bisogno, sta proprio nella capacità di Ottaviano di inculcare la nuova dimensione del potere nella mente e nel cuore dei suoi concittadini.
Benveniste, attraverso la rilettura dell’uso delle parole augur (area della religione), auctor (capacità – più che far crescere – di far nascere e di creare), e auctoritas (area del diritto e della morale), ritiene che all’origine anche augeo dovesse significare “avere la forza di avviare dei processi” in maniera misterica e sacerdotale.
A conclusione di queste considerazioni voglio ricordare il motivo per cui in questa lezione ho voluto trattare il lemma “Auguri !” e dedicarla alla memoria del professore Antonio Carosella.
Si tratta di un motivo felice e triste insieme; comunque pieno di emozioni per il cuore degli uomini.
Il 17 e il 18 abbiamo celebrato il compleanno – identico numero di anni – di due nostri grandi amici. E abbiamo gioito per loro e con loro. Gli “augùri” erano auspici di bene e di accrescimento di fortuna per sé stessi e per noi.
A Gigi Nocera confermiamo questi sentimenti.
Gli stessi sentimenti vogliamo mantenere vivi anche per il professore Antonio Carosella che l’indomani del suo compleanno, seguendo le leggi di natura, ci ha lasciati.
E lo facciamo esaltandone merito e valore personali, recuperandone il pieno significato proprio dai vocaboli di carattere religioso, come augur (funzione sacerdotale), auctor (capacità di creare), e auctoritas (autorevolezza sociale e morale), a maggior ragione ancora applicabili a lui, ora che vive nel mistero della morte.
Ognuno, secondo il suo destino, è vincitore della morte e resta inchiodato nella vita e nella storia, se trova uomini degni di meritarlo. Auguri, professore! Per noi!

Pillole di cultura: Pulcella

a cura del prof. Luigi Casale

È difficile per un parlante napoletano mantenere la pronuncia della prima “l” nella parola “pulcella”. Come è difficile far pronunciare la r ai cinesi. Allora la parola pulcella alla distanza diviene purcella, e se poi – perdendosene il significato – la lingua si fa opaca, la parola impropriamente viene applicata anche al maschietto che in maniera vezzeggiativo viene detto purciello. Il purciello, crescendo, viene chiamato scherzosamente puorco. Da qui il termine ritorna ad estendersi anche alle fanciulle e diventa porca. Almeno così succedeva nella mia famiglia. Per cui puorco, porca, purciello e purcella erano dei temini affettivi che confidenzialmente i genitori riservavano a tutti noi, specialmente quando dimostravamo sagacia, intelligenza e simpatia.
L’enigma di questo che sembrava un paradosso linguistico solo tardi ce lo svelò zia Rosa, fornendoci la chiave di lettura.
Pulcella (pron. Pulsela) altro non era che pulzella = giovane, vergine. Per cui il termine era indicato in maniera appropriato solo per le ragazze. In seguito l’uso l’aveva generalizzato e poi in qualche modo banalizzato in “porco o purciello”. Ora si capisce anche perché in casa nostra esso era sempre accettato come un complimento affettuoso.
Pulzella (o pulcella) come diminutivo deriva da pullus (pulla), che a sua volta è diminutivo di purus (o pura). Perciò va ad indicare la vergine.

Maria Carmela Zurolo

Il Vesuvio

(Maria Carmela Zurolo)

Il Vesuvio è una montagna
dallo sguardo che t’incanta.
E s’estende per cullar
tra le braccia l’azzurro mar.

Ai suoi piedi un giardin
son felci, ginestre, ciclamin.
Son fragole rosse, chicchi dorati
che pendon giù dai pergolati.

Nel sol d’estate, sol leone
si sente profumo d’arancio e limone.
Nel vento che canta i profumi son tanti
essenze soavi ed inebrianti.

Il Vesuvio è una montagna
che sonnecchia e non si lagna.
Il Vesuvio monte lieto?
Porta in grembo un gran segreto.
Un segreto non leale
La materia primordiale!

Poesia, Giuseppe Zingone

Poesia, Giuseppe Zingone

Castellammare in cartolina

Castellammare in cartolina

‘A partenza

Stammatina aggio priparato ‘a valigia
dinto c’haggio miso ‘e ricorde, cocche
panno e ‘nu pare ‘e cartuline,
ll’uocchie già me lacrimano:
“Aggia lassà sta terra mia”;
Mò… che l’astregno forte ‘mmano
nun me pesa stu fardello, ma ‘o core sbatte,
geme, singhiozza e affoga tutt’‘e penziere mie,
e scennenno ‘a coppa ‘a Caperrina
saluto a Santu Catiello, ‘o Vesuvio
e l’urdema, guardata ‘a faccio da Ferrovia.
‘O mare è calmo, Faito me guarda azzurrino
cu passo svelto saglie ‘e grare d’‘a stazione
‘o treno sisca, s’avvia, e io…
assittato, muto comme ‘a Zaccaria
nun trovo cchiù parole:
“Quanne sarrà luongo stu viaggio d’‘a vita mia?”

* * *

‘O nomme d”a Maronna

‘O tiempo ‘e Natale,
a Castiellammare,
accummencia ‘o juorno
d’‘a Mmaculata.
Ancora ogge se fa festa
e ‘a famiglia s’appripara
a fà’ ‘a nuttata.
‘O sette, ‘e sera, se
magna pesce fritto,
struffole e mandarine.
‘Nce sta chi aiza ‘o gomito
vevenno liquore, annese
o ‘na butteglia ‘e vino:
pecché sta notte è longa,
pure si nun nasce
‘o Bambino!
Contro l’umidità e ‘o friddo
s’appiccia ‘a vrasera
e saglie ‘n’addore ‘e ‘ncienzo
p’alluntanà’ ‘a miseria!
Intanto fore, a ‘o gelo,
‘e guagliune fanno festa;
pe se scarfà’ ‘o stommaco,
nemmanco ‘na menesta…
cchiù saglie ‘a frennesia,
cchiù cresce a pira ‘e legna;
è ll’ammore pe Maria
che fa addeventà’
‘na casa ogni via!
Finalmente se dà fuoco
a ‘o lampone e ‘a luce
se spanne pe ogne rione.
‘O ffuoco, magnannose
‘o llegno, se fa cenere ardente,
‘a festa è fernuta,
‘n’at’anno s’attende,
ma ll’urdemo atto
se cunzuma dint’‘e chiese
pecchè ogge è: ‘o nomme
bello d’‘a Maronna!

* * *

‘A villa comunale

‘Nu viecchio passianno p’‘o lungomare
tene ‘o sole ‘e faccia c’‘o carezza e ‘o scarfa,
pigliato ‘a ‘nu fremito ‘e ‘nu ricordo
se cucculea stregnennose int’‘o cappotto.

E tanta fatte le veneano a la mente:
quanno criaturo pazziava cu ‘o cerchio,
a nascundino, ‘e po’ l’ammore fatto
miezo ‘a via; ah… che gioia!

‘E meglie sole ‘e scarpe cunzumate pe’ cercà’ fatica,
‘o matrimonio cu ‘na torta e ‘na fotografia,
e po’ ‘e guagliune mie, ‘a macchina a pedale,
‘o pallone, ‘e juoche ‘e fantasia.

‘E bagne abbascio ‘a rena, ‘e feste ‘e ballo,
santu Catiello n’ato ciclo ‘e vita.
Ma mo’ sò viecchio ‘e sto cu nenna mia,
riveco stu filmino notte ‘e juorno,
sarrà ca’ s’avvicina ‘a fine mia,
però sti cose, sti cose nun me scordo!

Giuseppe Zingone

Raffaele Viviani

Un nostro commento alla genialità di Viviani è superfluo e potrebbe risultare irriverente, faccio solo notare quanto risulti essere ancora attuale questo suo stupendo scritto, e spero vivamente che ci aiuti a riflettere.

Maurizio Cuomo

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viviani

da: “Padroni di barche

Sulo pe’ ll’acqua,
Castiellammare avarrì’ a tene’ furtuna!
Io fino a chest’età,
nun so’ trasuto maie dint’a na farmacia.

Qualunque disturbo,
trovo ll’acqua adatta;
e ‘o disturbo passa!

Embé a ggente va all’ati pparte,
e nun vene ccà!
E che ce vuò fa’?

Le nostre acque so’ comm’ a chelli signurine
ca nun ghiesceno ‘a dint’ ‘a casa;
o al massimo fanno dduie passe
‘a dummenica pe’ dint’ ‘a Villa, cu ll’uocchie ‘nterra.

E quanno so’ ‘e nnove già stanno dint’ ‘o lietto
e cu ‘a capa sott’ ‘e ccuperte.
Chi ‘e ccunosce? Chi nne parla? Nisciuno!

Ll’acqua ‘e ll’ati paise, invece,
so’ signurine evolute, attrezzate al commercio,
‘a comme se vestono a comme se presentano;
chiene d’etichetta.

Nun stanno ‘mbuttigliate:
appena se fanno cunoscere, se fanno sbuttiglià!
E, comme oggette ‘e lusso,
ogne surzo, sette e nuvantacinque!

E ll’acque noste? Niente!
Eppure è ricchezza ca scorre!
Esce d”a terra benedetta
pe gghì a fernì pe’ tre quarte dint’ ‘e ffogne!

E’ quase nu sacrilegio! N’offesa a Ddio!
E comm’a ffiglio ‘e Castiellammare,
è na cosa ca nun ce pozzo penzà!
St’acqua mm’è ssanghe, mme coce!