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Alfonso Santarpia

Caro Maurizio, passando sulla tua nuova rubrica poetica mi è sorta dal cuore una poesia che subito si vuole chiamare Poetica Stabiese, (la trovi sotto), se ti piace puoi pubblicarla un saluto.

Poetica stabiese

Ti affacci nello sguazzo evaso della mia memoria,
e ti riconosco immediata nel palmo semplice di mano
bandiera di mare e conca di antica storia

sogni passeggianti nel notturno
ricordano bimbi che eravamo
Stabia, rinasci sempre amata!

E chiami dolci attese di vento
Lungomare d’ impossibili infiniti
Castellammare, civitas nascosta.

Clara Renzo

E la nave va…

Fuori questa mattina,
l’aria è leggera.
Volendo… potrei anche volare.
Azzurro è il cielo
come cupola di lapislazzuli.
E sbaffi di nuvole bianche
vi viaggiano dentro.
Il sole è lì,
sull’ azzurro fuso,
sul bagnato del mare,
disteso a coprire
alberi verdi e case.

E tu aspetti…
che una bottiglia ti scuota
che le sartie ti lascino
finalmente libera.
Ed ecco…accade!
Scende la prua
a tagliare il mare
in due tappeti intessuti
con nodi irrisolti.

Alzando lo sguardo
ti vedo:
prima indistinta,
come una suggestione,
infine chiara,
avanzare, oscillare.
Rompi l’orizzonte e arrivi
immensa, in una strana,
confusa evanescenza.
Come un messaggio sbuchi,
come un naufrago,
unico superstite,
emergi dal tutto.
Il mare si increspa
di mille sorrisi,
Ora si aggira la tempesta
nel cielo dalle molte rotte.
Sotto un velo di pioggia
la nave va…

La memoria dei poeti
Riposa in questo mare.
Annegando nell’eternità
Donata delle parole.
La nave va…
E la pioggia sottile
nel sole,
è una nuvola
densa e dolce
di limoncello
che avvolge la città…
E la nave va…

Ed ora,
nella sera,
come in preghiera,
sono soli
lei , il mare,
e il tempo…
che ha inghiottito i ricordi.
Tra i vortici
rotolano sassi malfermi
ed ascolto il silenzio
delle ombre
e la sua voce senza peso.

E la nave è là.
E aspetta di andare,
legno solitario
che sfiora il cielo,
che taglia il mare
di azzurro fino.
Come vorrei stasera
stringerti al seno
come fossi un dono.
Come vorrei stasera
prenderti per mano
su questo mare
colore di notte,
colore di lune,
colore di vino.

* * *

Notte Stabiese

Da dove arriva

il profumo del mare?

Forse da quel cavallone

arruffato

che sotto la luna

insegue tremante

il freddo riflesso

di stelle morenti.

Oppure

da reti

d’argento

di pescatori

che aspettano

l’alba

per ritornare.

Da dove arriva

il profumo del mare?

Lo sento

stanotte

danzare nel buio

volare nell’aria

posarsi sul vento

legarsi a una barca

e veleggiare.

Da dove arrivi

profumo di mare?

E’ lì

da Ponente

che venne la sera.

Serena preghiera

del Sole

che stride

e poi muore

nell’acqua salata

ed alza vapori

nella nottata.

Nottata serena

da ricordare.

E’ sempre da Ovest

che arriva…

il profumo del mare.

* * *

Il viaggio da Faito al mare

E l’acqua scende.

Scorre, salta,

scivola, s’infiltra

tra pietre e rocce,

tra terra e cielo.

Ride, urla,

rimbomba, canta.

Magica fonte

come un bambino

sull’ottovolante.

L’acqua non tace

lungo il cammino.

L’acqua non mente…

E poi, ad un tratto,

si calma, si stende,

s’acquieta…

stanca guerriera

che va a riposare

in un letto di mare.

* * *

Tramonto

E il sole

cala lento

dietro Pozzano.

E noi…

ascoltiamo

la sera autunnale,

crepuscolo triste

che cambia colore

alle cose,

che cambia colore

alle case.

Ed ecco

improvviso,

il cielo

scolora.

E’ come

se l’ultimo raggio

man mano,

tirasse

nel mare

un nero sipario.

La prima

a scurire

è la cima

del vecchio Faito,

Antico

nell’eterna poltrona.

Poi la Libera.

Poi l’azzurro

promontorio.

Tutto

cambia colore.

Tutto

perde colore.

E mille luci

si accendono

in terra

e a mare…

tra le lampare.

Solo il vento

rimane lo stesso.

E’ lì

che danza…

Facendo

accapponare…

la pelle

al mare.

* * *

Vesuvio

E mentre il treno

Ti gira intorno,

rosso gigante

in coma profondo,

tu dormi

e niente sembra

che possa risvegliarti.

Ma cosa accadrebbe

se, ora, adesso,

ti ridestassi?

Io lo so:

cominceresti

a ridere sornione.

E con la tua risata,

prima strozzata

e dopo furibonda

di basso

ormai in pensione,

tu sputeresti fuori

fiammeggianti zampilli

ad indorare

la campagna autunnale.

I vocalizzi rochi

in pochi istanti soli,

caldi diventeranno

……e appassionati.

Note di fuoco

Canzoni mai cantate

Roventi melodie,

intonerai per noi.

Rosso gigante

della verde piana.

E con la bocca piena,

sputando sassi e fuoco,

farfuglierai:

“Ho riposato troppo!”

E dopo aver sfogato

la tua rabbia incosciente,

ti “spaparanzerai”

sulla rossa poltrona

e, ad occhi chiusi,

stanco di nuovo,

ti riaddormenterai.

* * *

La mia città

Vorrei arrotolare

la mia città

come una stuoia

e portarmela via

così….sottobraccio.

Starei attenta però

a non perdere

lungo la strada

il profilo fatato

del gigante Faito

al tramonto

incendiato dal sole,

o le verdi colline

con le case aggrappate.

E mentre vado

spero

di non perdere il mare.

Starò attenta!

Non ne farò cadere

neanche una goccia.

E così,

col golfo arrotolato,

col Vesuvio e il Faito

che quasi

si toccano,

sceglierò una terra lontana

all’altro capo del mondo.

Poi

scuoterò la stuoia

da tutta la polvere

e la sporcizia del tempo,

la stenderò

lanciandola in alto

e aspetterò

sulla spiaggia

che un’onda

mi bagni i piedi.

Raffaele Ragone

Invio (la prima di) due poesie su Castellammare, tratte da “La ruggine degli aghi”, Manni editore, 2012, di cui sono autore. Cari saluti.
Raffaele Ragone

Via delle Spese

DCF 1.0

Strada del Gesù (Francesco Filosa)

Fatta è di chiese
questa antica strada
che a me fanciullo
la vita dolce rese.
Via del Gesù
(oggi non so se fosse il vero nome)
era meglio chiamarla
via delle Spese,
perché ci compravamo
a mille lire il giorno
la nostra vita per un mese.
Al mare si scendeva
dal palazzo spuntatore,
che da case assopite
mandava al far del sole
l’intimo incerto odore.
Via del Gesù
per inattesi anfratti
si stendeva sconnessa
di pietre levigate
al nostro andare.
V’è rimasto, credo,
(ancora ne sento la voce)
l’ultimo banditore,
e di povere raganelle sventrate
ancora strazia il venditore
col suo secchio di morte.
Via delle Spese.
nei suoi portoni adesso,
mentre su ruote la riesploro,
nasconde lunghe attese
di fanciulli presi al gioco.
Non la lasciate, piccoli,
quella prima scintilla:
presto verrò a cercarvi
(sarò solo un fantasma),
ad implorarvi d’essere ancora,
io che vi ho tradito,
vostro compagno di fughe.

Per info e contatti sull’autore:
web: http://raffrag.wordpress.com/ – email: raffrag@gmail.com

Padre Augusto

Il frate francescano, Padre Augusto, al secolo Alfredo Pepe nasce a Castellammare di Stabia il 10 luglio del 1919. Ordinato sacerdote nel 1943, consegue la laurea in lettere, ben presto si appassiona all’archeologia, diviene giornalista nazionale ed è ideatore e fondatore della rivista “Nuove Visioni”, da essa è tratta la poesia che vi proponiamo a seguire, un vero elogio alla “Natura” che intreccia il sacro e il leggendario. Buona lettura.

La scheda biografica dell’autore è tratta dal libro di Lilino Diogene: “All’ombra del castello” (II volume, pagg. 79 e 80) – Edito a Castellammare di Stabia nel 2002

Acqua Santa

Come l’acqua della Lontra:
Filo d’acqua fino fino,
freddo freddo, e sacro sacro!
Due santi un dì arsura
Li prese sulla montagna.
Il Gran Michele dal cielo venne,
Con la spada la roccia fé:
Lunga fessura come falce
Lagrime sgorgò ed acqua diede…
Bevvero i Santi e da quel tempo,
Montanaro e pastorello,
pellegrino e avventuriero
Acqua santa ancora beve…

Gigi Nocera

10 marzo 2010: “Caro Maurizio, questi versi (naturalmente non degni di dirsi poesia) mi sono venuti di getto nei giorni scorsi ripensando che sono quasi due anni che ci siamo visti. Pubblicali se li ritieni degni. Un abbraccio, Gigi Nocera”.

Lettera d’ammore alla mia Castellammare

T’aggio ‘ncuntrata doppo tantu tiempo!
Quant’anni so’ passate, a quanno te lassaie?
‘Na vita! ‘N’esistenza!

Si’ bella comm’allora; sempe c’‘o pizzo ‘a riso
‘o tiempo nun te tocca, te lascia sempe ‘a stessa:
pecché tiene pacienza!

Pe’ tutto chistu tiempo, chilli ca t’hanno avuto
hanno penzato a lloro, senza curarse ‘e te,
t’hanno sulo tenuto.

T’hanno spurcato ‘o nomme e chesta bella faccia,
facennule accussì, senza ‘nu pentimento,
e po’, se ne so’ ghiute.

Chi pe’ necessità, chi p’‘o destino suoio.
S’è alluntanato a te, senza putè turnà,
pe’ sempe te vo’ bene.

Te tene int’‘e penziere e sempe dinto core.
Te canta in versi, musica e canzone
e patenne se ne more.

*  *  *

“Caro Maurizio, pochi minuti fa ti ho inviato alcuni miei pensieri in versi, ti prego di accompagnarli con queste brevi note. Ciò allo scopo di spiegare il perché di questo enorme, sviscerato amore per una persona, per un luogo. Appena adolescente (15 anni!), per gli imponderabili casi della vita, le mie radici stabiesi furono sradicate: fui costretto a trasferirmi, con la mia famiglia, in una città del nord, lontana, fredda climaticamente, estranea (ma non ostile però). Nel pieno della mia maturazione fisica e psicologica dovetti lasciare i parenti, gli amici di strada, i luoghi dei miei giochi, il mare delle mie nuotate, le abitudini di vita. Costretto quindi a vivere fra volti ignoti, e alle prese con un parlare che alle mie orecchie suonava “strevezo”, incomprensibile. Si aggiunga ancora che, dopo appena un anno, i disagi, anche economici, della mia famiglia aumentarono a causa della guerra che nel frattempo era scoppiata. E si sa che la guerra isola la gente, la fa diventare sempre più egoista, che lotta sperando di sopravvivere agli altri. Queste difficoltà fecero della mia famiglia una vera “tribù”, chiusa, uno per tutti e tutti per uno. In tali condizioni i contatti col mondo esterno erano prevalentemente limitati a quelli dell’ambiente di lavoro e con i bottegai del borgo. I compaesani presenti a Torino in quel periodo si potevano contare sulle dita di una mano. E quei pochissimi appartenevano ad una classe sociale superiore alla nostra. E quindi…
La famiglia oltre ad essere strettamente unita dai vincoli di sangue, divenne monolitica anche a causa delle suddette condizioni. Ai nostri genitori ci legava un immenso, sviscerato amore. Benché giovanissimi, noi figli (io e due sorelle più piccole) comprendevano benissimo quanti sacrifici, quante rinunce, quanta fatica facessero i nostri genitori per far fronte alle difficoltà descritte e far in modo che non pesassero su di noi più del necessario.
Il loro amore, le loro premure, le loro tenerezze non sono mai venute meno. Ecco perché gli siamo sempre grati e li ricordiamo sempre, anche se sono passati moltissimi anni dalla loro scomparsa.
Dopo queste precisazioni penso si comprenderanno meglio i sentimenti che hanno generato questi semplici versi.
Grazie Maurizio, ti abbraccio e insieme a te abbraccio tutti gli stabiesi. Gigi”.

MEMORIE

Quanti ‘ccose hanno visto st’uocchi miei!

‘A primma cosa è stato nu sorriso,
Comme ‘e chillo da Vergine Maria
Quanno dint’a na grotta nascette o bammeniello.

Appriesso, doppo poco, è stato nu rilorgio,
‘ncopp’a na torre ‘nfaccia a casa mia,
mmiez’a ‘na piazza detta “do mercato”.

Nu poco cchiù luntano , ‘o mare nuosto,
‘o cielo azzurro e ‘na muntagna nera
cu nu pennacchio ‘e fummo ‘ncoppa’a capa

Quanti cose hanno ‘ntiso questi recchie!

‘A primma cosa ‘a voce ‘e mamma mia
Ca doce doce cantava ‘a ninna nanna.
Po’ ‘a voce allera da gente e stu paese.

E ‘ncoppa a Caperrina e do Chignulo;
e Santa Caterina e do Quartuccio;
e mmiezo a Pace e da funtana ranna.

E sento ancora ‘a voce e mamma mia:
“nun correre Giggi ca può sciulià;
c ‘arteteca ca tiene te fai male!”

Quanti parole ha ditto chesta vocca!

“Mammà!” è stata a primma, certamente.
L’urdema vota , doppo tantu tiempo,
cu e lacrim’inta l’uocchie,
è stata sempe a stessa “Mammà??!!”

*  *  *

“Caro Maurizio, quando un uomo giunge ad una certa età (diciamo più vicino ai 90 che ai 30!) ed ha vissuto una vita serena, onesta e laboriosa, pur fra travagli, dolori e disillusioni; e fatto un impietoso e inflessibile esame di coscienza, non lo spaventa l’incognita del futuro, ma lo strugge la nostalgia del passato, anche se molto lontano nel tempo. Ognuno di noi affonda le proprie radici nella terra dove è nato, ed io a questa terra sono legato, anche se da moltissimi anni ci vivo lontano. E forse proprio per questo Castellammare è cara al mio cuore. Gigi”.

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A banchina ‘e zì Catiello

Quann’ero piccerillo, guagliunciello
jevo ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello,
saglievo ‘e scuoglie e me menavo ‘a mmare.

E pe’ fa chesto ‘a scola nun ce jevo,
facevo ‘a fuiarella, e già sapevo
ca ‘a casa m’aspettavano mazzate.

Mammema m’alliccava ‘o vracciulillo
e si sapeva ‘e sale era ‘nu strillo:
“Si stato ‘a mmare e ‘a scola nun è juto!”

Ma ‘e strille nun putevano fa niente:
‘o mare me chiammava, preputente;
‘e ‘ncopp”e scuoglie jevo ‘o jurno appriesso.

‘E vota me menavo tutt’annuro,
piccerillo cumm’ero, casto e puro
nun me mettevo certamente scuorno.

Ma certi vvota invece me menavo
vestuto ‘e bbuono, proprio comme stevo:
cu ‘na maglietta ‘ncuollo e ‘o cazunciello curto.

Chella banchina ha visto tanti ccose:
spasere, piscature e rezze ‘nfose,
‘e ‘o cunnulià d”e barche ca stanno ‘a repusà.

E addò sta cchiù mò chella scugliera?!
Mò c’e’ crisciuta ll’evera, tant’evera!
Ca nun ce azzecca niente cu stu mare.

Sparite songo tutt”e varchetelle,
‘e rezze… sò sparite pure chelle,
‘e piscature non ce stanno cchiù.

Mò nun ce vanno cchiù ‘e nnammurate
stritti, abbracciati cu ll’uocchie ‘a zannariello
llà, ‘ncopp”a banchina ‘e zì Catiello

* * *

“Caro Maurizio, queste sono alcune mie rimembranze in versi (non le chiamo poesia perchè non è proprio il caso). Sono considerazioni di una persona anziana che fra poche settimane festeggia (!?) i suoi 85 anni e vede avvicinarsi (anche con serenità e senza nessuna ambascia) quel traguardo che tutti gli esseri viventi prima o poi dovranno tagliare. Ho voluto ricordare anche se sommariamente i miei cari genitori e il mio passato con loro; specialmente quando eravamo ancora cittadini stabiesi. Ti sarei grato se potessi inserirla nel sito quando tu lo ritieni opportuno… Ti ringrazio. Gigi”.

‘Nu suonno

Me sbatte forte ‘o core stammatina!
Pecchè me so’ sunnato a mamma mia
ca me purtava a scola tenennemo ‘a manella?

O pecchè patemo, pur’isso, m’è venuto a truvà’
mentr’ero ‘nzuonno, forse pe mme parlà’,
o pe vedè’ si stevo sempe buono?

Io nun ‘o saccio chesto che vò dì’;
ca sta venenno ‘o juorno ca songh’io
ca vaco ‘a truvà’ lloro ca stanno ‘mparaviso?

Quanno sarrà ‘o mumento, tutt’e tre,
cu ‘e lacreme int’a ll’uocchie ce abbracciammo
e ricurdammo ‘e fatte ‘e tantu tiempo fa.

Quanno piccereniello tenevo ‘a freva ‘ncuollo
e vuje cu ll’uocchie triste penzaveve ‘o cche ffà’:
qual era ‘a mmerecina pe me putè’ sanà’.

O quanno, giuvinotto, avevo fà’ ‘o surdato
mentre ce steva ‘a guerra, che sciorta m’aspettava?
Sarria turnato a casa a sta sempe cu vuje?

Ce ricurdammo pure d’‘e sore meje, ‘e fratemo;
‘e quanno stevemo ‘e casa all’acqua d’‘a Maronna:
‘na casa chiena ’e sole e cu tant’alleria.

Stiettemo pure ‘e casa ‘ncopp’‘a Caperrina:
tre cammarelle strette sempe cu poco sole,
ma ‘o sole dint’‘o core steva sempe cu nuje!

Cumm’era bella ‘a sera quanno turnave a casa,
papà te n’arricuorde che festa attuorno a te?
Strignennete ‘e denocchie vulevemo pazzià’.

Pure a Santa Caterina stiettemo ‘e casa,
assaje luntano po’ ‘a vita ‘nce purtaje,
senza ‘nu poco ‘e mare e tantu friddo attuorno.

Ma ‘nce scarfava ‘o bbene ca steva dint’‘o core;
e si ‘o destino po’ luntano ce teneva,
sempe vicino stevemo, cu ‘o core e c’‘o penziero.

Po’, comm’è scritto ‘ncielo, vuje ve ne partiste,
ma ‘nce truvammo ancora, so’ sicuro,
e stammo sempe ‘nzieme, tutta ll’eternità!