Dieci figli – I delfini

Premessa dell’autore

Il brano che segue è il primo capitolo tratto da un libro ambientato a Castellammare di Stabia tra gli anni ’50 e ’80, da me scritto e pubblicato nel 2021. Oltre agli aneddoti in esso contenuti, l’intento è quello di ritrarre gli ambienti della città in quell’epoca, di raccontare alcuni scorci di vita quotidiana e di evidenziare i valori che la caratterizzavano.

Eduardo Di Gioia

Dieci Figli - Eduardo Di Gioia

Dieci Figli – Eduardo Di Gioia

CAPITOLO 1

I delfini

Tratto dal libro “DIECI FIGLI” di Eduardo Di Gioia

Erano le estati degli anni cinquanta e al porto dell’acqua della Madonna si assisteva ogni giorno ad un insolito spettacolo corale. Le vicine terme stabiane attiravano centinaia di turisti, ’e furastiéri, provenienti dalle zone dell’entroterra campano e dalla Puglia, per beneficiare delle terapeutiche sorgenti di acque naturali che convogliavano nella città. Le cure termali sembravano predisporre i visitatori ad ulteriori svaghi, così quando venivano a rinfrescarsi bevendo l’acqua della Madonna alla fonte, si trattenevano per godere delle attrazioni del luogo.

Noi stabiesi eravamo bravissimi ad inventare attrazioni: c’era ad esempio chi, per guadagnare qualche lira, si arrampicava su un traliccio altissimo per poi tuffarsi, sparire nelle acque del porto e riapparire più al largo tra gli applausi degli spettatori; qualcuno, invece, si immergeva a ridosso della banchina scomparendo nei fondali e riemergeva dopo due, a volte tre minuti suscitando lo stupore del pubblico, ma riuscendo in realtà in quell’impresa solo nascondendosi, per buona parte del tempo dell’immersione, dietro qualche gozzo ormeggiato. Accadeva anche che una nave da poco varata, appena visibile sul pontile più lontano del porticciolo, “diventasse” la nave del re e venisse con quell’appellativo annunciata con voce stentorea dal barcaiolo traghettatore il quale, con un richiamo accattivante, attirava a sé l’attenzione dei turisti termali allo scopo di far loro visitare la “storica” nave.

Quella voce, che fieramente gridava «Veniiite! Venite a vedé ‘a nave do’ rreee!!» , era talmente possente da sovrapporsi al brusio della folla, ai rumori provenienti dalle navi del vicino porto militare ed ai fragori dei cantieri navali. Il successo era indiscutibile perché il gozzo con cui i turisti, al costo di cinquanta lire per passeggero, venivano condotti ad ammirare da vicino la nave del re, era stracolmo ad ogni viaggio.

Il barcaiolo doveva essere davvero convincente se ad imbarcarsi erano anche persone che non sapevano nuotare! I “non nuotatori” si riconoscevano dalle grida impaurite quando la barca, “grazie” a noi, iniziava a dondolare: io e mio fratello Ciro – in testa ad un gruppetto di sei, sette scugnizzi, tutti dall’età compresa tra gli otto e i dodici anni – per un “sadico” e innocente divertimento, raggiungevamo, con veloci bracciate il fianco del gozzo e, accerchiata la barca, ci agitavamo schizzando acqua al suo interno. Tutto quel trambusto provocava il panico fra i turisti accalcati i quali, istintivamente, si dimenavano per non bagnarsi. Era inevitabile l’ira del barcaiolo il quale si trovava costretto ad interrompere momentaneamente la traversata e ad impegnarsi a colpirci con il remo per mandarci via. Solo allora, incoscienti della tragedia che avremmo potuto provocare se quella barca si fosse capovolta, riprendevamo, ridendo, a nuotare verso il molo.

I forestieri, che soggiornavano in stanze liberate all’occorrenza nelle case degli stessi abitanti della zona, erano quasi sempre contadini abbigliati con vistosi abiti “pesanti”, anche in piena estate. Per noi erano le galline dalle uova d’oro! La più vivace attrazione del posto era, infatti, l’esibizione dei delfini di cui noi eravamo i protagonisti: la banchina si affollava di uomini e donne che lanciavano monete nello specchio d’acqua adibito all’ormeggio delle barche per poi assistere alla competizione dei delfini che dovevano afferrarle con la bocca.

I delfini eravamo noi, così ci chiamavano i nostri spettatori: ad ogni lancio, rapidissimi, ci tuffavamo dalla banchina o dai gozzi ormeggiati e, appena riemersi, mostravamo la moneta fra i denti per poi farla immediatamente sparire nella nostra bocca. Un attimo dopo, senza prendere fiato e con abili piroette acquatiche, ci immergevamo ancora una volta alla ricerca di altre monete.

Delfini: ripensando oggi alle acrobazie, alla pelle lucida, all’agilità ed alla naturalezza nel nuoto e nei tuffi, i nostri spettatori non potevano darci appellativo più appropriato. Tuttavia, a differenza del pacifico cetaceo, in acqua non mancavano spintoni, gomitate e morsi. I più “cattivi” mollavano schiaffoni ai più abili che si distinguevano per le guance rigonfie di monete. Lo scopo era far sputare via ai più abili le monete accumulate ed impossessarsene, perché era nel lato della bocca che le facevamo sparire dopo averle mostrate al pubblico. Erano monete da dieci e da cinquanta lire: le prime erano le più facili da agguantare perché, essendo più leggere, affondavano più lentamente; le monete da cinquanta lire invece, benché più pesanti e perciò più faticose da guadagnare, erano le più ambìte e noi ci inventavamo di tutto pur di farcele lanciare: gli spettatori venivano da noi incitati a buttarle in acqua mostrando loro le nostre natiche e promettendo di acciuffare le monetine con le stesse, cosa che suscitava l’ilarità soprattutto delle signore presenti.

Con una vivacità ed un’energia inspiegabili, lo spettacolo si protraeva anche per ore, intervallato solo dalle pause che separavano i passaggi dei gruppi di forestieri che si susseguivano dopo l’escursione alla nave del re. Noi utilizzavamo quei momenti per contare e nascondere il gruzzolo: ancora bagnati, lucidi e anneriti dal sole estivo, ricoperti solo da piccoli e consumati costumi, ci appartavamo dietro qualche barca dove non mancavamo di restituire qualche ceffone o spintone ricevuto poco prima, con bisticci che si dissolvevano all’arrivo del nuovo gruppetto di clienti.

Suonava la sirena della prima uscita dei vicini cantieri navali e i mastri operai che passavano, i quali ben conoscevano le situazioni delle nostre case, ci guardavano mentre ci agitavamo in acqua e, alludendo alle energie che spendevamo senza alcun risparmio, non mancavano di elargirci, ironicamente, incoraggianti commenti del tipo: «Jate, jate! ‘A casa corre ‘o stock ‘ co’ pavolotto ‘e ch’e patàte!!» .

In realtà il pranzo che ci attendeva a casa (e non sempre c’era un pranzo che ci attendeva) era di tutt’altro genere: il nostro pasto era solitamente costituito da un pezzo di pane e qualche volta da un pezzo di pane e dieci lire da spendere in salumeria per il companatico. Ma quasi sempre quelle dieci lire venivano usate per caramelle e gelati: io e Ciro, per avere la sensazione di mangiare pane e qualcosa, staccavamo la crosta del pane dalla superficie per usarla come companatico, in sostituzione degli affettati che avremmo dovuto comprare. Quando invece si decideva di passare dal salumiere, per risparmiare almeno cinque lire ci facevamo dare una sola fettina di mortadella che spalmavamo energicamente nei due pezzi di pane fino a farla consumare. Così, oltre alle croste, avevamo, in mezzo al pane, anche un odore.

Eduardo Di Gioia


Note: ogni riferimento a persone esistenti o esistite o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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