dai ricordi del dott. Tullio Pesola
Proveniente dalla collina di Pozzano, dove abitava, arrivava di buon’ora ogni mattina in Piazza Amendola (la piazza compresa tra le Terme Stabiane e la Navalmeccanica), raggiungendola il più delle volte a piedi. Solo in caso di pioggia si serviva della Circolare Rossa (pullman delle Autolinee della ditta “Giordano Enrico di Leonardo” di Sant’Antonio Abate).
Stringeva tra le mani i manici di due fusti di robusto alluminio. Entrambi erano pieni di latte appena munto. Il suo nome era Mario Cimmino, meglio conosciuto come “Mario ‘o lattaro”, e credo che sia stato l’ultimo lattaio del nostro quartiere. Si annunciava al trillo di un fischietto ed i balconi delle abitazioni circostanti e di quelle lungo la strada (via Brin) che portava al suo negozio, iniziavano improvvisamente ad animarsi. Seguiva, così, il vociare delle donne difficilmente descrivibile. Qualche casalinga, stretta nella sua vestaglietta a fiori e con la capigliatura non certo ornata di bigodini (figurarsi! per tante se ne ignorava persino l’esistenza!), aspettava il proprio turno sul limitare del portone di casa. Panieri che venivano abbassati facevano eco a quelli che venivano tirati su, mentre qua e là si intravedeva dai ferri di balcone qualche capino bruno o qualche treccina bionda che con gli occhi fissi ne seguiva l’iter, pregustando la sua sana colazione. Non mancavano, giusto per gradire, scambi di opinioni con la vicina di balcone o anche con la dirimpettaia. Paziente e sorridente con tutti, don Mario non mostrava insofferenza. Poi immergeva il misurino da un quarto nel bidone, per tirarlo su pieno di latte che versava in una bottiglia o in qualche pentolino o (molto di rado) in qualche bollitore di alluminio. Ripeteva tale azione tante volte, a seconda del quantitativo che gli veniva richiesto. Passando, quindi, alla “stazione” successiva di quella che aveva le sembianze di una Via Crucis, pur non volendolo essere, accorciava sempre più le distanze dal proprio negozio, verso il quale si spostava gradualmente e dove si apprestava a vivere la sua giornata lavorativa. Il suo esercizio commerciale era situato nelle immediate adiacenze dell’imbottigliamento dell’acqua Acetosella.
Per le donne del quartiere era un’accreditata latteria, mentre per gli uomini era considerato luogo sacro, un tempio dove recarsi o incontrarsi, perché accomunati da una unica fede: Juve Stabia. Durante il giorno, infatti, (particolarmente il lunedì) non mancavano occasioni per commentare il risultato della partita della domenica appena passata, esternare disappunti, osannare, ideare proposte, programmare la presenza al campo il giorno degli allenamenti o gli appuntamenti per la domenica e così via. Si esaltava la bravura del centravanti mattatore Ceccotti, ma non si tralasciavano commenti o contestazioni sulle azioni di Pagura, di Mancuso, di Palumbo o dei fratelli Salvatore e Giovanni Di Somma. C’è da aggiungere, tra l’altro, che non mancavano nostalgici richiami a Giudici, Ciccone o Casuzzi, senza minimamente far torto agli altri componenti di quella grande squadra, che il 17 giugno 1951 si guadagnò la promozione in Serie B.
Tutto ciò, naturalmente, perché il Nostro avvertiva un forte attaccamento alla sua terra, attaccamento che inconsciamente dimostrava attraverso la sua grande passione per il calcio, quello romantico, quello sano, quello che si è tramandato di padre in figlio e che tale sarebbe dovuto rimanere negli anni. Lo spiazzo antistante la sua bottega, attualmente adibito ad area commerciale, fungeva allora da campo di calcio, dove i ragazzi del quartiere si intrattenevano ogni giorno in un sano agonismo, che il nostro Amico non mancava di seguire e commentare poi con gli appassionati spettatori del momento.
Intanto che avviasse l’attività, un suo nipote acquisito, che, tra l’altro, era anche suo collaboratore nella piccola azienda familiare, insieme alla zia (la moglie di don Mario) preparava in misura piuttosto modesta mozzarelle, qualche provola e del fior di ricotta. Poco dopo le nove questi prodotti erano in bella vista nella vetrinetta situata sul banco della latteria. A corredo del tutto, naturalmente, non mancavano provoloncini, burro e caciocavalli di produzione propria e qualche uovo di giornata, valevole a soddisfare qualche particolare richiesta preventiva.
Pur essendo uso comune -all’epoca del riferimento- fare colazione a casa, non mancava chi (casi sporadici, a dire il vero!) preferisse celebrare tale rito in latteria. Se oggi, infatti, si va al bar dove consumare “cornetto e cappuccino”, anni addietro c’era chi si fermava in latteria. E’ rimasto in me, quand’anche fossi allora meno che un ragazzino, il ricordo di un anziano signore con mustacchi, di considerevole stazza e dall’aspetto austero, che di frequente arrivava alla latteria di don Mario, al quale era legato, tra l’altro, da uno stretto rapporto di amicizia, per gustare, seduto davanti ad un vecchio sgabello di legno che fungeva da tavolino, un bicchierone di latte crudo nel quale tuffava bocconi di pane destinati -bene inzuppati- alla bocca, i cui folti baffoni si ornavano sempre più di una delicata e candida brina.
Bisogna dire, inoltre, che erano poche le persone che portavano tale latte ad ebollizione prima di consumarlo. Per tantissimi veniva apprezzato crudo per il sapore particolare che donava al palato, per la sua bontà e per la sua genuinità. Basti aggiungere, a tal proposito, che sia sul latte fatto bollire, che su quello crudo, se lasciati da parte per un po’, si formava in superficie una consistente pellicola d’oro, un apprezzabile e gradevolissimo strato di burro.
Oggi tutto è cambiato. Si può andare al supermercato e scegliere tra prodotto scremato, intero, parzialmente scremato, fresco o a lunga conservazione. Troverete di tutto; ma, siatene certi, non il ricco alimento di don Mario, l’ultimo lattaio del “Rione Cantiere”.
Dott. Tullio Pesola