di Marco Ansaldo
Per tutti erano i Fratelloni. Non è che fosse un soprannome particolarmente geniale per due ragazzi con 90 chili di muscoli e nati dagli stessi genitori ma forse Giampiero Galeazzi non poteva coniarne uno più adatto ad esaltare la leggenda di Giuseppe e Carmine Abbagnale, che alcuni ritengono i più grandi canottieri della storia e noi un pezzo della nostra, di storia. Banyoles è un posto su un lago a 90 chilometri da Barcellona, quasi in Francia, dove cominciano i Pirenei. In quell’estate del’92 bisognava mettersi in auto dalle Ramblas alle 6 di mattina per arrivare in tempo per l’inizio della gare e godersi un minimo di fresco prima che cominciasse la calura. I Fratelloni erano già lì. Peppiniello Di Capua, l’omino che li guidava dalla prua, con la testa rivolta al traguardo, scegliendo i ritmi e la direzione del timone, si aggirava nervoso vicino alla barca. «Non sono tranquillo, ho una brutta sensazione», disse Galeazzi. Lo guardammo straniti. Che Giuseppe e Carmine potessero perdere la loro terza medaglia olimpica consecutiva sembrava a noi tutti impossibilissimo: dal trionfo di Seul nell’88 davanti ai tedeschi dell’Est e a sir Redgrave non avevano mai perso una gara importante, compresi gli ultimi tre Mondiali. Invece l’incredibile successe. Nel modo più straziante. «Fu l’unica volta in cui ho affrontato gli ultimi 250 metri con la sensazione di avere già vinto. E perdemmo» racconta Giuseppe.
All’improvviso l’enorme distanza dalla barca degli inglesi cominciò a rimpicciolire, quelli andavano come se avessero il motore e gli Abbagnale poca benzina. Il ruggito di Galeazzi si venò di inquietudine, di disperazione, di preghiera. Alla fine si spense nel microfono. Due fratelli, però inglesi e di nome Searle, avevano finito la remata davanti ai due azzurri per un secondo, il niente più grande che ricordiamo.
I fenomeni sono tragicamente grandi anche nell’addio e quello, nonostante il secondo posto ai Mondiali del ‘93 e la chiusura definitiva nel ‘96 con Carmine ai Giochi di Atlanta nell’«otto», fu il vero addio dei Fratelloni. Arrivò dopo undici anni di trionfi e di un’epopea che fece titolare la «Gazzetta dello Sport» in prima pagina, nel giorno di Seul: «Siamo un popolo di Abbagnale». Naturalmente non era vero, anche in quegli anni restavamo un popolo di Roberti Baggi. Però se vedeva sullo schermo quei due che infilzavano l’acqua con la perfezione di una macchina e con il commento di un telecronista che pareva vivesse un orgasmo, l’Italia calciofila si fermava come solo davanti agli slalom di Alberto Tomba. Primo Nebiolo sosteneva che in un mondo che non ha più eroi di guerra, perché le guerre si combattono premendo un bottone a mille chilometri da dove sta il bersaglio, le gesta degli atleti sono per il popolo gli ultimi atti di eroismo. I Fratelloni ne incarnavano l’aspetto pulito e pudico.
Venivano da Castellammare di Stabia, anche se per l’anagrafe sono nati a Pompei, Giuseppe nel’59, Carmine nel ‘62. Gente comune senza storie di povertà di cui rivalersi né la vita difficile delle periferie campane. Al massimo, quando erano già famosissimi, si permisero timidamente di chiedere un posto di lavoro. Glielo diedero e ancora ce l’hanno: Giuseppe alla Banca Nazionale del Lavoro, Carmine alla Regione. Peppinello Di Capua, l’omino che dopo ogni vittoria i due giganti gettavano in acqua con la medaglia a collo, non per bullismo ma per affettuosa riconoscenza, lavora alla Telecom e fa andare avanti l’antico biscottificio di famiglia. «La gente ci apprezzava e ancora ci vuole bene perché ci sentiva genuini – dice Giuseppe, che in quel famoso «due con» era il leader, il capovoga e il primogenito -. Non abbiamo mai fatto niente per accrescere la nostra popolarità o renderla artificiosa. Economicamente si potevano sfruttare molto di più quei successi ma è andata bene lo stesso: abbiamo un lavoro sicuro, ci siamo fatti una famiglia, ci sono i figli. Abbiamo vissuto una buona vita pure quando abbiamo smesso. E poi siamo fatti così». Già, solidi e senza compromessi. Nel’94 Giuseppe scese in campo con Berlusconi. «Credevo che rappresentasse un vento nuovo – racconta -. Senza appoggi né esperienza presi 30 mila voti, me ne mancarono meno di mille per vincere. Fu un successo ma mi accorsi quasi subito che le mie erano state illusioni: non era arrivato un vento nuovo, si tornava alla solita politica nel senso peggiore del termine. E non ne volli sapere più».
Stessa scelta con la Federcanottaggio di cui fu vicepresidente per un solo quadriennio fino al 2004. «Molti insistettero perché mi candidassi alla presidenza però anche per il mio lavoro non avrei potuto imprimere l’impronta che volevo, perché bisogna averne il tempo, oltre alla diplomazia. Di fare la bandiera arrotolata non mi importava nulla». Giuseppe è tornato al Circolo Nautico di Castellammare per cui gareggiano suo figlio Vincenzo, che ha già vinto il bronzo nell’«otto» ai Mondiali juniores e la figlia Gaia, 13 anni. Carmine invece ha due figlie, Virginia e Chiara, e pure loro si sono avvicinate al remo. Insomma solo il terzo Abbagnale, Agostino (il meno ricordato sebbene abbia vinto più ori olimpici, tre, dal 1988 al 2000 con un intermezzo di sette anni di inattività per una trombosi) è rimasto nel canottaggio a tempo pieno, come tecnico federale.
«Cosa ci rimane di quell’avventura? – dice Giuseppe -. La soddisfazione di averla vissuta nella maniera giusta. Oggi tutto è più legato ai risultati, che invogliano talvolta ai brogli, agli eccessi, alle pratiche poco ortodosse sebbene il canottaggio sia rimasto tanto povero da tenere nell’angolo il doping perché anche se diventi il più bravo al mondo mica ti arricchisci per la vita. Non rimpiangiamo nulla, neppure per quel giorno, a Banyoles». E andiamo, Fratelloni.
Note:
articolo (del 9/01/2011) tratto da La Stampa di Torino