A gennaio i sentieri del Faito sono coperti di neve, un velo di freddo e candido bianco che ammanta tutto smorzando le forme, i suoni e i colori del paesaggio.
Cammino nella neve e sento solo il rumore dei miei passi, il mio respirare affannato, sono diretto alla cima del Monte Sant’Angelo a Tre Pizzi, ho intenzione di monitorare alcune piante rare.
Cammino nella neve e penso che un tempo questo monte era ricco di una laboriosa comunità di lavoratori addetti all’industria della neve. Mi fermo a riposare in prossimità di un’enorme buca circondata da maestosi faggi secolari, è una delle tante fosse, una neviera, dove nel periodo invernale si ammassava la neve caduta sul monte.
Uno strato di neve e uno strato di foglie di faggio, altra neve e altro strato di foglie, così si procedeva finché la fossa non era piena poi, a chiudere il tutto, uno strato di foglie e uno di terra. Il fresco della montagna e l’ombra del bosco avrebbero protetto quel carico prezioso nei mesi successivi così da farlo arrivare intonso alla calda estate quando la neve sarebbe stata cavata in blocchi rettangolari, avvolti in panni di canapa, e trasportata nel modo più veloce possibile, per evitare la liquefazione, verso le vicine città della penisola e del vesuviano, per allietare il palato di chi poteva permettersi il lusso del fresco nella calura estiva.
Tutto questo prima che l’era moderna prendesse il sopravvento creando macchine capaci di generare l’inverno perenne. Meglio proseguire perché il freddo si fa sentire, prima di partire però convengo con me stesso che dell’industria della neve, se si eccettua l’esistenza delle neviere, dei faggi e della neve, non è rimasto più nulla. Passo il resto della giornata a camminare e ad osservare lo spoglio Caprifoglio di Stabia che pende dalle fessure delle ombrose rupi calcaree, la piccola Erba unta amalfitana sepolta dal ghiaccio all’Acqua Santa, lo Zafferano d’Imperato che sbuca qua e là dalla neve, le tante Sassifraghe che spaccano la roccia. La giornata vola via in un lampo e a gennaio, si sa, fa buio presto al Faito, è meglio tornare perché la strada da fare è lunga, affretto il passo.
Nei pressi del Belvedere sento una voce in lontananza che dice: “Tiene ‘a neve dint’‘a sacca?”, è un mio vecchio amico che per salutarmi sottolinea con questo modo di dire nostrano, il mio goffo incedere veloce. Accenno ad un saluto con la mano e tiro dritto. Penso che queste parole che letteralmente significano “tieni la neve in tasca” sono la testimonianza del segno che l’industria della neve ha lasciato nella società locale, infatti il detto prende origine proprio dall’incedere veloce dei portatori di neve che in estate trasportavano il carico dal monte alle città e che per ovvi motivi non potevano fermarsi neanche per un saluto.
Arrivo a casa stanco ed infreddolito, l’impatto col caldo dalla vecchia stufa a legna, rovente fin dal primo mattino, mi stuzzica il naso, non trattengo un fragoroso starnuto. Mia madre mi guarda e dice: “Addò si’ juto a ‘nzaccà ‘a neve?” Di nuovo un modo di dire legato all’industria della neve, di fatto solo chi “esce per insaccare la neve” come facevano i lavoratori delle neviere può buscarsi un bel raffreddore.
È ormai ora di cena nell’attesa che sia pronto, scherzo un po’ con i miei nipoti, li prendo in giro e loro mi rispondono per le rime, mio fratello mi guarda e dice: “Te piace ‘o vino c’‘a neve”. Si, il “vino con la neve” è fresco e piacevole al pari di una bella presa in giro. Ancora un adagio che prende origine dalla neve del Faito.
Sono stanco, decido di andare a letto, prima di dormire ho l’abitudine di riguardare con la mente le vicende della giornata ripenso ai detti legati alla neve, per l’intera giornata mi hanno accompagnato. Mi chiedo se ne esistano altri, poi ricordo che a Castellammare si usa dire “Acquaiuò, l’acqua è fresca?… Manc’‘a neve!” per sottolineare che qualcuno sta cercando di valorizzare al massimo la propria mercanzia, così come facevano i venditori d’acqua che alla domanda se l’acqua fosse fresca loro rispondevano “neanche la neve è così”.
L’ultima considerazione la dedico ad un mio errore, ho sbagliato a pensare che della laboriosità di chi provvedeva all’industria della neve non fosse rimasto più nulla, se non le neviere, il fresco del bosco e la neve stessa. In questi antichi adagi popolari così caratteristici si cela l’importanza di quel mondo ormai sparito nel tempo.
Ferdinando Fontanella
Twitter: @nandofnt