Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Durante la mia fanciullezza, diciamo fra gli anni 1930/35, per le strade del centro storico di Castellammare (Caperrina, Santa Caterina, Fontana grande, Via Brin) si aggirava un caratteristico venditore di frutta di stagione, così, alla buona.
Si sa che i ragazzi un po’ “svegli”, diciamo quelli che per scuola hanno principalmente la strada, sono curiosi di tutto; osservatori attenti di cose e persone. Vogliono sapere, vogliono conoscere. E siccome per me questo personaggio era abbastanza curioso, lo seguivo per un non breve tratto di strada e lo osservavo con interesse, specialmente quando vendeva le “figurine”, i fichi d’India. Il perché lo si capirà più oltre.
Era un omino bassino e rotondetto, con gli occhi a palla, tipo bovino, e con una folta capigliatura nera come la pece. Indossava sempre, estate o inverno, dei sandali e sopra una maglia nera a giro collo una giacca color topo. Che questa tinta fosse originale oppure frutto del mancato armistizio tra questo indumento e l’acqua e sapone non so dire. Diciamo che la doccia, allora, non era di moda… I frutti che vendeva, a secondo del tipo e della stagione, erano posti in appositi contenitori. Le mele cotte su una “guantiera” metallica; le pannocchie di granturco bollite in un calderone d’acqua sempre calda; le caldarroste in una grossa teglia dal fondo bucato e scaldata da una brace che bruciava lenta; le ciliegie, i fichi d’India e le “ceveze” in un cesto abbastanza capiente. Quando era la stagione di questo frutto, dal bordo di questo cesto spuntava uno “spruoccolo” dove erano infilzate delle foglie di gelso. Quindi quando si chiedeva qualche centesimo di lira di “ceveze” le stesse venivano poste su una di queste foglie sfilate delicatamente dallo “spruoccolo” e porte all’acquirente. Naturalmente prese dal cesto con delle mani che non si può dire che fossero candide, ma avevano lo stesso colore rosso cupo del frutto.
Quando era l’epoca delle pere o mele cotte, lo zucchero che le doveva guarnire si trovava in maggior parte attorno alle dita di questo omino sempre taciturno, ma a noi bimbi molto simpatico per via del suo mestiere di venditore di leccornie.
E veniamo alle figurine. C’erano due modi per venderle: o pagare e prenderne una o due, oppure giocarsele. In questo ultimo caso il cliente versava un certo numero di centesimi, pari al prezzo di una o due figurine, non ricordo bene. L’omino consegnava un coltello a serramanico al cliente-giocatore; questo ultimo doveva far cadere in verticale il coltello e “appizzare” un frutto. Se ciò riusciva si aveva vinto.. … a metà. Difatti per entrare in possesso della “figurina” bisognava tirarla fuori dal cesto con lo stesso coltello infitto nel frutto e tirarlo su lentamente, facendo attenzione che la… preda non scivolasse via dalla lama del coltello. Se la manovra riusciva si vinceva e si aveva diritto ad un altro tiro, E così di seguito. Ricordo che c’erano dei clienti-giocatori talmente abili che alla fine del gioco riuscivamo a portarsi via anche 8/9 fichi d’India.
Per noi ragazzi spettatori questo gioco era un vero divertimento e si faceva il tifo affinché il maggior numero di “figurine” venisse tirato fuori dal cesto.
Questo era l’ingenuo, genuino e divertente teatro di strada che si svolgeva una volta a Castellammare…