Ricordo di Gigi Nocera
di Gemma Nocera
Capita che tornino alla memoria ricordi così antichi da parere irreali. Mi viene in mente, per esempio, dalla mia prima infanzia, la voce di mio padre che, con me tra le braccia, canta piano piano Maruzzella mentre mi fa addormentare la sera, camminando avanti e indietro per il corridoio.
Divenuta un po’ più grande, cominciò ad insegnarmi a giocare a scacchi, di cui lui, al tempo, era appassionato. E io un po’ delusa quando, smaccatamente, mi faceva vincere.
Quando ero malata e avevo la febbre, la sera mi leggeva Pinocchio o il libro Cuore. Letture edificanti di quel tempo che spronavano i ragazzi ai buoni sentimenti con espressioni un po’ retoriche. Ma andava bene così. Allora non si usava ancora leggere le storie ai bambini prima di dormire.
Del resto mio padre lo vedevo solo all’ora dei pasti: tornava a casa a pranzo alla mezza, mangiava e faceva un breve sonnellino per rientrare in ufficio e rincasare verso le sette di sera. Telegiornale, Carosello. E a letto.
Lavorava molto, sì. Oltre al suo impiego alla Fiat, grazie al diploma da geometra, si occupava dell’amministrazione di alcuni stabili, compreso quello in cui vivevamo.
Quel diploma era stato il suo orgoglio: quando ancora erano fidanzati, mia madre gli aveva chiesto come mai, vista la sua passione per la lettura e il suo interesse per la politica e la storia, non continuasse a studiare. Una volta arrivati a Torino mio nonno Francesco gli aveva detto che c’era bisogno anche del suo aiuto economico per mantenere tutta la famiglia (al tempo erano quattro fratelli, la zia Alba non era ancora nata). Allora si iscrisse al corso serale, che ogni tanto saltava. Quando mia madre lo scoprì, ci furono baruffe. Pare che tagliasse le lezioni per andare a teatro o a vedere le “riviste” che si usavano in quegli anni. Ma poi tutto si risolse e si diplomò con un elaborato su Manzoni. Diceva di averlo scelto tra la rosa dei temi perché la professoressa veniva da Milano. Rimase sempre grato a mia madre per quello sprone.
Conobbe mia mamma, Liliana, durante gli anni della guerra, nel rifugio antiaereo vicino a casa. Lo colpì, oltre alla sua bellezza, il fatto che lei si portasse sempre dietro un libro e si mettesse a leggere durante i bombardamenti. Mentre lui pedalava su un trabiccolo fatto apposta per fornire la luce ai locali.
Ha sempre amato i libri e la lettura. Durante la guerra acquistava i libri nelle bancarelle di libri usati, soprattutto classici: Tolstoj, Cechov, Zola e filosofi. E negli anni Sessanta le nuove uscite editoriali dell’Einaudi che un addetto proponeva andando di casa in casa e vendendo a rate.
La famiglia Nocera era arrivata da Castellammare di Stabia a Torino nel 1938, se non sbaglio, a seguito del trasferimento delle Ferrovie del nonno. Lui aveva quindici anni. Raccontava di essersi presentato alla Fiat: “Sai fare il “capolavoro”? Lo avevano preso alla sprovvista. Rispose di no e lo mandarono via. Pare che suo padre in quella occasione si arrabbiò. Ma poi ritentò e finalmente riuscì a fare il cosiddetto “capolavoro”, che consisteva semplicemente in una prova pratica. Fu assunto alla Fiat Materiale Ferroviario di Borgo San Paolo, vicino a casa. Questa fu la sua fortuna in quanto, una volta scoppiata la guerra, non fu costretto come molti ventenni suoi coetanei a partire per il fronte essendo, come si diceva, “indispensabile allo sforzo bellico”. Lui lavorava come saldatore presso le autoblindo e i vari mezzi corazzati che la Fiat produceva a causa della guerra.
Nell’ambiente della fabbrica era uno dei pochissimi meridionali presenti a Torino. In maggioranza il personale era costituito da persone che arrivavano dalle campagne piemontesi e che parlavano quasi esclusivamente il dialetto. E lui riuscì, grazie al suo carattere gioviale ed estroverso, a integrarsi molto bene e a imparare dialetto e modi di dire gergali tipici della fabbrica.
Parlava bene l’italiano come il dialetto napoletano e il torinese e li utilizzava indifferentemente a seconda dell’interlocutore. E usava spesso espressioni caratteristiche tipo questa: l’hai visto adesso il culo del ciuccio? Me lo diceva sempre quando mi capitava un regalo o un’occasione propizia eccezionale. Come quando, da bambino, gli poteva capitare di salire su un carretto (e vedere così il di dietro del somaro) invece di farsi la strada a piedi.
Quando ero piccola, forse per la mia magrezza o il mio muovermi dinoccolata, mi chiamava Franfellicche, che non ho mai saputo chi fosse. Fino a quando ho scoperto che non si trattava di un personaggio, bensì di una caramella prodotta per le strade del Napoletano dai franfellicari, venditori ambulanti che, muniti di di un carrettino, una pentola e un fornello su un ripiano di marmo, lavoravano una melassa dolce, tagliandola poi in pezzettini: il franfellicco, appunto. Pare che siano sopravvissuti fin verso gli anni Cinquanta, poi spariti.
Durante il periodo della Resistenza, si inserì nei GAP, Gruppi di Azione Patriottica, organizzazione legata al Partito Comunista. In una occasione rischiò grosso: era sul tram e portava con sé dei volantini. A un certo punto il tram fu fermato in piazza Adriano dalla Polizia politica per una retata. Furono portati tutti in caserma e lui, strada facendo, a poco a poco, riuscì a liberarsi dei volantini. Trattennero i fermati in caserma tutta la notte. Al mattino si presentò mio nonno con un foglio della Fiat indirizzato alle autorità in cui si chiedeva il rilascio di mio padre in quanto operaio addetto alla produzione bellica. Così riuscì a liberarlo e a riportarselo a casa.
Ogni tanto ricordava che, durante il periodo dell’epurazione, gli fu assegnato il compito, insieme ad un compagno, di andare a prelevare da casa un fascista. Una volta suonato il campanello, si trovò di fronte un uomo misero, spaurito, circondato dai suoi bambini. Non ebbe cuore di fare nulla e venne via senza ottemperare alla richiesta.
Durante gli ultimi mesi della guerra, a causa dei frequenti bombardamenti sulla città, la sua famiglia fu costretta a sfollare a Nole Canavese. Vivevano in una grande stanza al primo piano di una cascina divisa a metà da una tenda che li separava da un’altra famiglia. Probabilmente lui e mio nonno continuavano a stare in città a causa del lavoro ma lui ogni tanto era costretto a percorrere un centinaio di chilometri in bicicletta, andata e ritorno, per andare fino a Saluggia, nel Vercellese, a prendere e portare a sua mamma sacchi molto pesanti di fagioli che un amico del nonno procurava alla famiglia.
Con il prossimo è sempre stato molto generoso e altruista, non sopportava i prepotenti e chi si fa forte con i deboli. Non ha mai dimenticato le sue origini semplici e ha sempre cercato di aiutare i meno fortunati: il suo eroe era Spartacus.
Nei miei primi anni di studio, elementari e medie, mi seguiva mia madre. Ma quando prendevo un brutto voto ed ero demoralizzata per i miei risultati, era lui che sempre mi incoraggiava e mi consolava dicendo: dopo la tempesta viene sempre il sole.
Verso la fine degli anni Sessanta le sue responsabilità erano aumentate in quanto aveva avuto l’incarico di seguire un ufficio alla O.ME.CA, Officine Meccaniche Calabresi, facenti capo sempre alla Fiat. E spesso volava a Reggio Calabria. Io ero in piena adolescenza, vivevo le nuove culture di quegli anni. Lui detestava i ragazzi con i capelli lunghi. Mentre io li amavo!
Negli anni della pensione, sgravato dagli impegni di lavoro, poteva dedicarsi maggiormente alla lettura, preferibilmente saggi, all’ascolto della musica e ai lavori in campagna, a Cassine, il paese nell’Alessandrino da cui provenivano i genitori di mia madre. Soprattutto dopo il pensionamento fece in modo di ristrutturare la piccola casa che era stata dei miei bisnonni e di curare il pezzetto di terra che la circondava. Aveva sempre avuto una predisposizione per il verde e per le piante, ne aveva molte e a casa le comprava e le curava sempre lui.
L’altra sua grande gioia è stato mio figlio Simone che lui e mia madre portavano con loro al mare a giugno, alla fine della scuola. Gli dedicava tempo e attenzione ed essendo lui amante del mare, gli insegnava a nuotare e ad andare sott’acqua senza paura, cosa che aveva fatto anche con me. Al telefono ogni volta mi diceva, in torinese: a l’è già brau stu cit (è già bravo ‘sto bambino). E’ una frase che mi ripeteva sempre.
Nell’ultimo periodo della sua vita è venuto in contatto con lo straordinario gruppo del Libero Ricercatore che ha dato vita alle sue emozioni e ai ricordi sopiti in tanti anni e che gli ha regalato gioia, stima e affetto. Ne parlava sempre come un qualcosa che gli aveva aperto un mondo e che lo gratificava. Scherzando diceva spesso a me e a mia madre: sono gli unici che mi vogliono bene!
Per questo devo ringraziare Enzo Cesarano e tutto il gruppo di Castellammare che gli ha fatto vivere con maggiore calore e serenità la sua vecchiaia.
Pubblicato in occasione del centenario della nascita di Gigi Nocera 1923-2023
Ciao Gemma amica di scuola e di adolescenza, sempre pensata in tutti questi lunghi anni. Ho trovato l’articolo e ho ricordato tuo padre, simpatico e allegro, nei giorni trascorsi ad Almese insieme. Quanti ricordi. L’ultimo è stato quando sono venuta a trovarti nella tua casa a Torino avevi da poco avuto il tuo Simone.
Un abbraccio, e se hai voglia fatti sentire
La tua Giusi Natalini