( articolo del dott. Raffaele Scala )
In ossequio al clima di guerra fredda che dalla fine del conflitto aveva separato il mondo in due campi contrapposti, comunisti contro capitalisti, Stalin contro Truman, Pio XII contro il grande Totò, pontificando che la livella non esiste neanche dopo morti, il 1° luglio 1949, con un decreto della Congregazione del Sant’Uffizio, si faceva avviso che: faceva peccato grave e non poteva essere assolto chi era iscritto al Partito Comunista, chi ne faceva propaganda in qualsiasi modo, chi votava per esso e per i suoi candidati. chi scriveva, leggeva e diffondeva la stampa comunista, chi rimaneva nelle organizzazioni comuniste: Camera del Lavoro, Federterra, Fronte della Gioventù, CGIL, Unione Delle Italiane, Associazione Partigiani Italiani, era scomunicato e apostata, chi, iscritto o no al Partito Comunista, ne accettava la dottrina atea e anticristiana; chi la difendeva e chi la diffondeva. Queste sanzioni erano estese anche a quei partiti che facevano causa comune con il comunismo. Il decreto con fine intelligenza teneva però a specificare che: chi in confessione tace tali colpe fa sacrilegio: può invece essere assolto chi sinceramente pentito rinuncia alle sue false posizioni. Laddove prevalsero gli integralismi, né conseguirono tragicomiche vicende di funerali trasformati in lotta politica con preti che rifiutavano di benedire le salme, giornalisti di parte che si lanciavano in campagne di stampa, democristiani e comunisti che coglievano l’occasione per tirare acqua al proprio mulino. Di seguito raccontiamo due piccoli episodi accaduti nella Stalingrado del Sud, nei primi anni Cinquanta, una Castellammare di Stabia che oggi non esiste più: alle ore 10 del 14 gennaio 1950 si dovevano svolgere a Scanzano i funerali di Luigi Agosta, militante del PCI, ma quando il corteo si avviò per dirigersi verso il cimitero, i compagni della sezione pensarono bene di far garrire dietro il feretro le rosse bandiere con falce e martello. Non l’avessero mai fatto! Il buon parroco, Pietro Paolo Starace, inorridito dalla diabolica visione, con un, vate retro satana!, si ritirò nel suo ufficio rifiutandosi di accompagnare la salma per la benedizione, prima della definitiva sepoltura. Stando ad un rapporto dei carabinieri del luogo, non ci fu nessun incidente di sorta. Ma laddove non accade niente, non manca mai chi deve montare il caso per trarne i suoi benefici materiali e non, magari soltanto il suo piccolo scoop. Fu il caso del corrispondente locale de, Il Giornale, quotidiano di Napoli, pubblicato dal 1944 al 1957, notoriamente anticomunista e ferocemente polemista, che colse l’occasione di scrivere il suo bel articolo per esaltare il coraggio del prete, protagonista del gran rifiuto, provocando l’immediata reazione di un nipote del defunto, nonno materno di Domenico Scevola, segretario della sezione comunista di Scanzano. Non è vero – scrisse Scevola in una lettera pubblicata dall’Unità, qualche giorno dopo, – che il prete alla vista delle bandiere rosse si sia allontanato. Egli voleva imporre ai dirigenti della sezione comunista di retrocedere le bandiere dietro la carrozza ecclesiastica ed avutone un rifiuto, abbandonava il corteo. Non è vero che la salma di Luigi Agosta non abbia avuto nessun conforto religioso in quanto fu accompagnato fino alla sepoltura dalle preci delle orfanelle e delle suore – proseguì Scevola, affondando la lama con sottile, perfido piacere, sapendo di colpire nel segno – le quali ultime per non rinunziare alla somma che quale mercede per i loro servizi avevano incassato in precedenza, non vollero seguire l’esempio del parroco. Tanto per la verità dei fatti. Un anno dopo, un nuovo funerale, stavolta riguardante un’altra chiesa e un’altra parrocchia: il 5 gennaio ci fu il funerale di Giuseppe Esposito, iscritto al Pci. Dopo la benedizione della salma, il parroco della chiesa della Starza, Domenico Di Pierro, si apprestava a partecipare al corteo funebre che partiva dalla casa del defunto, quando alcuni partecipanti issarono la bandiera rossa della sezione comunista. A tale vista il prete inorridì, ritirandosi precipitosamente dal corteo. Nessun incidente, scrisse il poliziotto nel suo rapporto.
N.B. Domenico Scevola (1922 – 1997) è stato, a suo modo un protagonista della vita politica della nostra città, forse non sempre coerente, lasciandosi invischiare nei vari giochi di potere, che oggi come sempre, avvolge ad ogni livello la politica, tra arrampicatori e voltagabbana. La sua storia politica, per quanto ne sappiamo, inizia nel luglio 1948, quando partecipò ai moti popolari che seguirono al ferimento del Segretario Generale del Pci, Palmiro Togliatti, subendo una denuncia, un processo e una condanna a 11 mesi e 15 giorni di reclusione, “quale responsabile di violenze commesse”, con altri 37 comunisti stabiesi; nel 1952 fu licenziato dalla Terme per aver scioperato a difesa del sindaco Pasquale Cecchi, arbitrariamente sospeso dal Prefetto per tre mesi per aver adottato un provvedimento di requisizione d’alloggi sfitti ritenuto illegittimo e lesivo del diritto di proprietà e per aver stanziato quattro milioni per acquistare una caldaia indispensabile alle Terme Stabiane, senza aver chiesto la necessaria autorizzazione prefettizia. Con Scevola subiranno lo stesso trattamento altre sei persone, Giuseppe Valestra, Davide Lo Piano, Mario Selleri, Rosa Avino e Colomba Di Somma, quest’ultima una nota pasionaria comunista. Negli anni a venire lascerà il Pci, oscillando tra Psi e Psdi e conquistando con quest’ultimo partito il seggio di consigliere comunale con le elezioni del 6 novembre 1960. Con varia fortuna, vi rimase fino al 1992, quando lascerà l’eredità politica alla figlia Anna, che divenne subito assessore con la vittoria di Catello Polito il 13 dicembre 1992. Domenico Scevola rivestirà diverse volte il ruolo d’assessore nelle diverse Giunte rette dai sindaci democristiani, quali Gennaro Amato, Emilio Della Mura e Francesco Saverio D’Orsi. Scompare nel 1997.