La tappa a Parma dei “Conti di Castellamare”, durante il loro tour nell’Italia centro-settentrionale.
articolo di Gelda Vollono e Lino Di Capua
articolo del 12/08/2021
I “Conti di Castellamare” era il nome fittizio sotto il quale il re e la regina di Napoli, Ferdinando e Maria Carolina, viaggiavano quando intendevano mantenere il più stretto riserbo. Tale ingenuo stratagemma, ideato probabilmente da Ferdinando, visto che la sua educazione si era formata, frequentando il popolo più che i nobili di corte, serviva per evitare di sottostare alla rigida etichetta di corte, di sfuggire alle cerimonie, ai festeggiamenti, alle acclamazioni del popolo, per ritrovare insomma un minimo di normalità e perché no anche di intimità con Maria Carolina. Tale espediente, a dimostrazione di quanta considerazione e amore avessero per la nostra città, fu utilizzato, per la prima volta e per primi, stando alle fonti documentali in nostro possesso, nella primavera del 1785, quando i due sovrani, poco più che trentenni, si concessero una lunga vacanza, viaggiando in incognito (sic.) attraverso l’Italia centro settentrionale, ospitati dai loro augusti parenti. In seguito anche i loro successori, Francesco e Isabella, si servirono dello stesso appellativo durante i loro viaggi soprattutto in Europa.
È evidente che, data la loro importanza e fama, l’espediente non riusciva, così come dimostra il viaggio, di cui abbiamo trattato nel corso di un nostro lavoro, di prossima pubblicazione, e del quale di seguito ne diamo un’anteprima, riguardante la sosta a Parma.
Nella primavera del 1785 Ferdinando IV, re di Napoli, e sua moglie Maria Carolina d’Austria, per rafforzare i rapporti diplomatici con gli altri Stati d’Italia, ma anche per combinare matrimoni politici[1] per le figlie, attraverso i quali aumentare l’influenza e il prestigio del Regno di Napoli in Italia e in Europa, intrapresero un tour nell’Italia centrosettentrionale. Il viaggio iniziò la mattina del 30 aprile dal porto di Napoli dove il Re e la Regina s’imbarcarono sul vascello S. Gioacchino[2], riccamente adornato per l’occasione, e con al seguito altre 16 navi. Il comandante del san Gioacchino era il Cav. Bologna, Maresciallo di Campo, mentre il comandante in seconda era il Cav. Forteguerri Toscano, Maggiore dell’armata in mare del re e Colonnello degli eserciti reali,
Assunto il nome di Conti di Castellamare salparono alla volta di Livorno, tra i festeggiamenti della nobiltà e del popolo, accorsi sul molo per assistere alla partenza.
Dopo una navigazione di otto giorni approdarono nel porto di Livorno[3], accolti dal Generale Governatore Conte di Montauto[4] e consorte che, saliti a bordo per adempiere ai saluti di rito, li accompagnarono a terra dove furono ricevuti dallo sparo di numerosissime salve di cannone. Quindi si diressero a piedi al palazzo reale dove furono ricevuti dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo D’Asburgo-Lorena, fratello di Maria Carolina, e dalla moglie Maria Luisa di Borbone, sorella di Ferdinando.
Durante il loro soggiorno in Toscana visitarono molte città tra le quali Pisa e Firenze, e ovunque furono organizzati in loro onore feste storiche, balli, battute di caccia, visite a monumenti, a palazzi, a musei, ad istituti di beneficienza, a fabbriche e ad aziende, insomma non fu tralasciato niente per rendere quella vacanza quanto più interessante e divertente possibile.
Da lì poi, proseguirono per Torino e Milano, accolti da Ferdinando I di Borbone[5], duca di Parma, Piacenza e Guastalla, cugino del re, e da sua moglie Amalia, sorella della regina, che fecero di tutto per dimostrare loro il piacere e la gioia di averli come ospiti.
Così come era avvenuto per il loro soggiorno in Toscana visitarono molte città soggiornando per qualche giorno anche a Parma. In quell’occasione ricevettero in dono un opuscolo di 6 fogli in 8° con una cantata[6] del poeta italiano, l’abate Gaetano Sertor[7], dal titolo Per la venuta in Parma del Signor Conte e della Signora Contessa di Castellamare.
La cantata fu rappresentata nel giardino della reggia di Colorno[8], sulle rive del torrente Parma[9], e nell’opera le due ninfe, Egle[10] e Fille[11], interagiscono con il Genio napoletano[12] tessendo arcadicamente le lodi dei due ospiti reali.
Tuttavia, secondo il bibliofilo Benito Iezzi Tale occasionalissimo parto dell’abate Sertor non meriterebbe altro cenno se, in questa come nella successiva edizione dello stesso anno, armonia ed eleganza (e, col tempo, rarità) della composizione non lo riscattassero dalla intrinseca banalità.
L’esile, ma appariscente, opuscolo entusiasmò a tal punto Maria Carolina da indurla, prima d’ogni altra cosa, a conoscerne lo stampatore[13].
Così Sua Maestà conobbe Giambattista Bodoni[14] che, come al solito, intento al suo lavoro, ripuliva colla lima alcune matrici.
G.B. De Lama, primo biografo del Bodoni e principale storico delle preziose e rare edizioni dette bodoniane, narra che La Regina soprattutto si compiacque di entrare coll’insigne tipografo nel più minuto esame de’ punzoni, delle matrici, delle forme, de’ torchi e di tutto ciò che spetta all’arte impressoria. E meravigliata dell’opera sua e del vivace suo ragionare disse a lui con vero trasporto di ammirazione: se non foste al servigio di mio cognato, vi vorrei a Napoli.
Bodoni non accettò l’invito della regina, tuttavia a Napoli si sarebbe recato poi e precisamente nel 1788, per fare visita ad alcuni tra amici e illustri clienti.
Nell’occasione, contravvenendo al protocollo di corte, ma sempre più ammirata per la bravura del Bodoni, Maria Carolina lo mandò a chiamare ricevendolo, così come si trovava, reduce da una escursione al Vesuvio e pronto per ripartire. Certamente tale invito aveva come obiettivo che il Bodoni prolungasse la sua permanenza a Napoli, così da dare un autorevole contributo alle tecniche incisorie della Stamperia reale partenopea, in modo da migliorarne le edizioni.
Purtroppo, anche questa volta il Bodoni declinò il regale invito.
Per dovere di cronaca aggiungiamo che altre cantate furono composte e dedicate ai sovrani al loro arrivo nelle altre principali città da loro visitate. In particolare a Milano anche il Parini ne compose una, in occasione dei giochi della Mascherata dei facchini, dedicandola a Maria Carolina.
Di seguito viene riportato integralmente copia dell’opuscolo e della cantata.
Note:
[1] Fin dal ‘400 l’Austria in politica estera aveva adottato il motto Bella gerant alii, tu Austria felix, nube ossia Le guerre le facciano gli altri, tu Austria felice, sposati.
[2] Il vascello S. Gioacchino, armato con 64 cannoni, fu acquistato a Malta nel 1784. Venne affondato insieme ad altre navi nella rada di Napoli nella notte tra l’8 e il 9 gennaio 1799, per evitarne la cattura da parte dei francesi.
[3] Gazzetta toscana, Numero 20 del 1785
[4] Il conte Federigo Barbolani da Montauto (1742-1789), studiò legge e fu impiegato dal granduca Pietro Leopoldo in numerosi incarichi nelle magistrature dei confini, delle decime e del catasto, e nelle soppressioni degli ordini gesuita e barnabita. Il 12 gennaio 1782 fu eletto governatore di Livorno e nel 1785 presidente dell’Ufficio sanitario di Livorno e del litorale. Morì giovane e anche il figlio Ulisse non sopravvisse al nonno Francesco, che lasciò i beni della famiglia alle nipoti Carlotta, Clarice ed Eleonora. Poi, da Carlotta attraverso il marito, il ramo della famiglia si estinse nei Velluti Zati. (cfr. SIUSA: Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche).
[5] Ferdinando I di Parma, figlio di Filippo I di Parma, il secondo Duca di Parma della dinastia Borbone, il primo del ramo Borbone-Parma di cui fu capostipite, fratello di Carlo III, re di Spagna, padre di Ferdinando IV re delle due Sicilie.
[6] Genere cameristico per voce sola e basso continuo, caratterizzato talvolta dall’ inserimento di uno strumento concertante, per lo più flauto o violino. Fu il veneziano Alessandro Grandi, nel 1620, ad usare per primo il termine “cantata” (cfr. www.magistralinuoro.it).
[7]Testo rielaborato da: Dizionario storico … dell’abate Francesco Saverio de Feller … v. IX. Venezia, Girolamo Falso edit. …, 1834: Sertor (l’abate Gaetano), poeta italiano, nacque nel 1741 a Cento presso Bologna, dove fece i suoi studi con successo. Fu nominato professore di filosofia nella sua città natale che poi abbandonò per recarsi a Roma, dove compose un’opera satirica intitolata il “Conclave”, nella quale non fa che prendere i versi di diversi drammi del celebre Metastasio e adattarli al soggetto. Ritenuta indecente e blasfema l’opera fu messo all’indice e lui, riconosciuto come l’autore, costretto a fuggire per evitare la conseguenza del suo atto impudente. Viaggiò per molto tempo in Italia e scrisse parecchie opere per diversi teatri. Chiamato a Vienna ed impiegato come poeta del teatro imperiale italiano, scrisse per esso parecchie composizioni che furono molto applaudite. Compose anche delle Poesie liriche stimatissime, ed è annoverato fra stimati poeti del XVIII secolo, come Cesarotti, Parini, Alfieri, Monti, Savioli, Casti, ecc. ecc.…In vecchiaia, tornò in Italia e si stabilì a Cento, dove morì il 14 aprile 1805.
[8] La Reggia di Colorno è una complessa e monumentale struttura architettonica di forma poligonale, con oltre 400 sale, corti e cortili, abbracciata dal torrente Parma, dalla piazza e dal meraviglioso giardino alla francese di recente ripristinato. Essa è frutto di interventi succedutisi nel tempo dall’epoca dei Sanseverino fino al Duca Francesco Farnese, che tra il 1712 e il 1727 fece ridisegnare le fronti con quattro torri angolari da Ferdinando Bibiena. Grazie a Filippo di Borbone, nella seconda metà del ‘700 si rinnovarono gli arredi e venne edificata la Cappella ducale di San Liborio e sotto la direzione di Ennemond Petitot lavorarono Fortunato Rusca e Benigno Bossi per gli stucchi, J.B. Boudard per le sculture, Gaetano Ghidetti e Antonio Bresciani per le pitture. Dopo l’Unità, le collezioni d’arte e gli arredi del Palazzo vennero dispersi. I recenti lavori di sistemazione del parco hanno ripristinato l’aspetto di giardino all’inglese voluto da Maria Luigia nel primo ventennio del XIX secolo ed oggi ospita mostre temporanee e manifestazioni culturali.
[9] La Parma è un torrente italiano di 92 km, affluente di destra del fiume Po, che si sviluppa per intero all’interno della provincia di Parma, in Emilia-Romagna.
[10] Egle (in greco antico: Αἴγλη, Àiglē) è un personaggio della mitologia greca, una delle tre ninfe delle Esperidi, che aveva la caratteristica di tingersi la faccia con le more ed assieme a Eurinome è considerata la presunta madre delle Grazie (cfr, wikipedia.org).
[11] Da: Dizionario universale della lingua italiana, ed insieme di geografia (antica e moderna), mitologia, storia (sacra, politica ed ecclesiastica), … di Carlo Ant. Vanzon. – Livorno: dalla Tipografia di Gio. Sardi e figlio, 1828-1844. – 9 v.: Nome pastorale di donna, di cui si valgono a capriccio i poeti per nascondere il vero nome di qualche donzella introdotta nella loro poesia.
[12] “Molte sono le opinioni degli scrittori sull’ influenza de Genj. Vi è chi lo crede padre degli uomini, e chi come Plutarco un Nume tutelare. Apuleio gli assegna un posto eguale a quello dei Demoni, e dei Lari. Cebete Tebano asserisce che il Genio sia un Dio animatore de mortali allora che nascono, consigliandoli a non fidarsi della Fortuna, e lo chiama Aaiuono Demonio. Censorino lo crede un continuo assistente ed osservatore di tutte le nostre azioni. Servio parla di due Geni: uno che ci esorta a bene operare, l’altro che le prave opere ci consiglia. Filone chiama Genj le facoltà dell’animo inclinati al bene ed al male. Comunque sia, ogni luogo aveva il particolare suo Genio. Molte antiche iscrizioni ritrovate in Pozzuoli, ed in Napoli ci dimostrano il culto che al Genio si professava. Nelle monete di Adriano, e Diocleziano viene espresso il Genio colla figura di un giovine guerriero con lunga veste, portando in una mano una patera, e nell’altra il corno dell’abbondanza. Celebre fu il Genio di Socrate, ed a questi Genj che noi chiamiamo folletti, e farfarelli attribuire si debbano le tante fole e fattarelli dalle femminucce, e dagli oziosi inventati”. (cfr. Da: Breve corso di mitologia elementare corredato di note per uso de’ … Napoli, dalla stamperia reale, 1824).”.
[13] Cfr. Il papiro di Domenico Cirillo, Marcello Gigante, Benito Iezzi. Napoli: A. Gallina, [1983] p. 33.
[14] Giambattista Bodoni nasce a Saluzzo (CN) il 16 febbraio del 1740. La sua è una famiglia di stampatori: il nonno Giandomenico aveva sposato la figlia di un tipografo, Vallauri, ereditandone la tipografia; il padre Francesco Agostino, tipografo, con una propria bottega a Saluzzo, aveva sposato una Giolitti, probabilmente una discendente di Giolitto De’ Ferrari, il capostipite di una famiglia di stampatori, attivi per più di centocinquanta anni a Trino Vercellese e Venezia. Nel 1758 Giambattista Bodoni si trasferisce a Roma, dove, grazie anche all’interessamento del direttore Costantino Ruggeri, trova un posto nella Stamperia della Congregazione di Propaganda Fide. Questa congregazione nacque sotto Gregorio XV con il fine di diffondere la fede cattolica. Per questo nel 1626 venne installata una stamperia che producesse libri in svariate lingue straniere (dal greco e il latino, al bulgaro, l’armeno, il persiano e moltissime altre) che fossero di aiuto ai missionari nei loro viaggi. La stamperia è ricca di numerose serie di caratteri, in particolare quelli orientali. Grazie a questo fatto e alle lezioni di padre Giorgi, Bodoni si interessa alle lingue orientali, e riceve anche lezioni di ebraico. Il 1768 è un anno importante per Bodoni, che viene chiamato dal duca Ferdinando a dirigere la Stamperia Reale di Parma, dove potrà finalmente dimostrare appieno il proprio talento. Sulle prime, ordina da Parigi sei dei tipi di Fournier, fra i migliori del tempo. Riesce poi a convincere il duca ad impiantare una fonderia a Parma, chiamando a dirigerla uno dei suoi fratelli, Giuseppe. Bodoni si dedica quindi principalmente all’incisione di caratteri, sebbene debba seguire una grande mole di lavoro. Rimase a Parma fino alla sua morte, avvenuta nel 1813 (cfr. www.primaedizione.net).