Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
La tradizione dei fuochi di Capodanno era per la mia famiglia un rito sacro. Ogni fine anno ci radunavamo nell’appartamento di mia zia Catella che abitava nel Palazzo dell’Acqua Ferrata, alla Fontana Grande, con tre o quattro balconi che affacciavano sullo slargo (non chiamiamola piazza!) prospiciente la Chiesa della Madonna di Porto Salvo. In quel palazzo il vano scale era da incubo: tutto buio, senza alcuna apertura verso l’esterno e scarsamente illuminato.. Rischiarato appena da qualche lumino, dalla fiamma tremolante, acceso davanti a qualche nicchia con un ignoto (per me) santo. Sui pianerottoli si camminava a tentoni appoggiandosi ad una ringhiera che si affacciava su un baratro scuro, simile ad un pozzo del quale non si vedeva la fine. In questo palazzo esistevano anche le terme dell’Acqua Ferrata, alle quali si accedeva da un altro ingresso. Per la fortuna delle signore che le frequentavano. Difatti questi bagni erano consigliati alle donne che avevano difficoltà di concepimento. Se pure le cure avessero sortito l’effetto desiderato, le signore che si fossero avventurate per quelle scale da film dell’orrore, si sarebbero sgravate subito… Sto parlando degli anni che vanno dal 1930 al 1938. In quegli anni poi (avevo 15 anni), mi sono allontanato dalla mia bella città per seguire mio padre trasferito a Torino per motivi di lavoro. Mio padre aveva tre fratelli (Salvatore detto “Tempesta”, Luigi detto “Ciente mosse” e Espedito, di cui non ricordo il soprannome). Le sorelle si chiamavano Catella, come ho detto, Teresina ed Agnese. La Teresina (che era la più vecchia), accudiva lei tutta la “truppa” di bambini. Era soprannominata la “Pirchia”. Perchè? Mio padre mi raccontava che questa sorella provvedeva a fare da mangiare per tutti (colazione, pranzo e cena). Al mattino a questi famelici fratellini dava da mangiare, non merendine, nutella e porcherie varie, ma una gustosa e sana fetta di pane fresco con sopra un filo d’olio. Ma proprio un filo! Mio padre mi descriveva la scena di questo rito mattutino aiutandosi con le mani, come fanno i mimi: con la sinistra sembrava tenesse una fetta di pane, con la destra una bottiglia d’olio con un dito sull’imbocco e sempre nella finzione, con un rapidissimo gesto semicircolare del braccio destro mimava lei che versava l’olio sulla fetta di pane. Ma questa manovra della sorella Teresina era così rapida che di olio ne versava veramente una lacrima. Alle inutili rimostranze dei mocciosi affamati era irremovibile. A quei tempi l’olio costava veramente caro e per una famiglia che viveva con la paga di un operaio del “Cantiere” con sette figli la gestione finanziaria doveva essere severissima. Ma i piccoli affamati queste teorie economiche non le conoscevano! Ascoltavano soltanto i richiami dello stomaco quasi sempre semivuoto. Per loro quindi l’atteggiamento severo della sorella maggiore era segno di avarizia, ecco perchè era nominata la “Pirchia”. Soprannome che non si è più scrollato di dosso. E così ho descritto sommariamente una parte della vita che conduceva una modesta famiglia “castelluonica” all’inizio del 1900. Ma torniamo ai fuochi della fine dell’anno. Sulla piazza (o slargo) sopra descritto si affacciavano, oltre quelli di mia zia anche i balconi di Paolo Varone, di mestiere palombaro che lavorava per la Regia Marina per tutto l’anno, escluso il giorno di Capodanno, caro amico dei fratelli Nocera. Questo giorno (o meglio notte, perchè la “batteria” iniziava allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre) era dedicata alla sfida di chi sparava meglio i fuochi, sia sotto l’aspetto numerico che “artistico” e rumoroso. L’amicizia in quel frangente veniva messa da parte. Quindi da una parte la famiglia Varone e dall’altra la famiglia Nocera. Schierate sui rispettivi balconi come batterie contraerei, le due famiglie facevano a gara a chi con più perizia accendeva e scagliava in aria quanto più tric trac, bomme, fuia-fuia, eccetera, poteva. Il responso di questa singolare battaglia si aveva la mattina dopo con i commenti degli abitanti della zona. Eppure, malgrado questa pacifica ma pericolosa guerra, la mia memoria non ricorda di incidenti con relative mutilazioni di mani o accecamenti vari. Finita la bagarre, noi bambini di cinque sei anni si cadeva morti dal sonno. Allora i nostri genitori ci stringevano al petto con la testa appoggiata alle loro spalle e percorrevano a piedi la distanza che ci separava dalle nostre abitazioni. Allora, e per qualche tempo, abitavamo alla salita II de Turris. Quindi il tragitto non era breve, considerando che si doveva percorrere tutta via Santa Caterina e la salita che dalla chiesa della Pace portava a casa nostra. Ma eravamo felici tutti! Adulti e bambini. Si viveva senza sofisticherie, alla buona, con divertimenti semplici: senza sognare le Maldive, i Caraibi e banalità del genere. Noi le Maldive, le Canarie le avevamo in casa! Quale posto più bello di Castellammare!!!