I pescatori della Banchina ‘e Zì Catiello
Aniello Lascialfari racconta
Si ringrazia il prof. Luigi Casale per la preziosissima revisione di bozza
Ed ecco che mi vengono in mente tutti i racconti di pescatori, i quali usavano questo poggio per avvistare i branchi di alici che trasevano ‘a fore. Venivano dal mare di Sorrento, molto più profondo della nostra costa; da Capri. Alici più affinate, più azzurre dello stesso mare limpido, entravano nel nostro seno e si portavano al di qua dello scoglio di Rovigliano, dove sfocia il fiume Sarno: acqua roce e pulita, acqua ‘e tantu tiempe fa. Là queste alici sciamavano e si nutrivano per ore, alla fine prendevano il largo riportandosi nel mare profondo della penisola sorrentina. Da questo muricciolo, che cinge il belvedere, i pescatori si sono appostati fino a pochi decenni fa. Venivano ad avvistare ‘a trasute r’e pisce, specialmente nel mese di settembre. “Quanne ‘o pesce azzurre – ‘a lice – è una mesure, mò ti ha salà”. E quando la nuvola azzurra accumpareva fore a carcara, r’a Calce e Cementi, subito arrivava la notizia: “Guagliù so’ trasute tonnellate ‘e pisce. Allestimmo ‘e barche”. E quando il mare diveniva scuro come il cielo (senza luna) partivano le barche, ognuna con cinque o sei uomini a bordo: “Senza fa’ rummure pe’ nun se fa scorgere a llate”.
Il mare si sarebbe visto all’accensione delle lampare che si trovavano ‘ncopp”e vuzzi (sui gozzi: barchette da pesca, a remi, dette anche scuorz”e noce) le quali tenevano ferma una estremità della rete, mentre l’altra per il movimento circolare della cianciòla (la grande barca con le attrezzature per la pesca e la ciurma della paranza) avrebbe chiuso tutt’intorno il bacino entro cui si sarebbero trovate intrappolate le alici. E all’alba si consegnava al mercato il pescato già sistemato in cassette. Dopo qualche ora di sonno in famiglia, dopo pranzo e per tutto il resto della giornata mentre si riordinavano le barche per una nuova uscita o si rammendavano le reti, gli uomini di mare, dimentichi delle fatiche della notte, si concedevano alle baruffe e ai lazzi tra concorrenti, a chi avesse pescato di più o di meno; e a questo gioco partecipavano gli amici presenti anche se non pescatori, i quali, con la scusa di compatire quello che appariva il più sfortunato, si facevano ‘a passatella, o come si dice anche: si pigliavano ‘a mez’ora ‘e Pusillico, cioè facevano oggetto si sfottò il malcapitato: “Ma almeno avite recuperate ‘e sorde r’’a nafta, o ci avite remmìse tierze (la somma per il noleggio) ‘e capitale?”, provocando l’ilarità della ciurma della paranza. Da qui le risate a ghigno quasi di soppiatto dei pescatori di altre barche. Poi lo sfottò si allargava e si estendeva ad altre persone e finiva col toccare altri argomenti: “Chille, rìcene che a case tene ‘na grossa jatta rossa, ca quanne ‘o vere che s’arritira senza pisce nun ‘o fa trasì rinta, e cerca do ra’ ‘nguolle”. “No! – rispondeva un altro – chella, nun è ‘a jatta; chelle, è a socra che s’è tignute ‘e capille”. A questo punto la risata diventava generale. Ma delle volte volava pure qualche cassetta di pesce all’indirizzo r’o sfuttutore, e tutto finiva a risate, finché si sentiva una voce autorevole: “Mò ve site divertite? E vulite mannà a piglià ‘o cafè?”. Dopo qualche minuto arrivava dal bar il vassoio con la bibita calda: una caffettiera piena di caffè fatto di fresco con un certo numero di tazzine. “’Nu schizze ‘e cafè; nun ve scurdate r’o guaglione che nun parle, stanotte ha faticato pur’isso”. A questa raccomandazione, il più delle volte la risposta naturale di chi aveva offerto il caffè era: “Ce sta pe tutte quante: pigliate, pigliate, tante quanne è fernute ne pigliammo l’ate”. Talvolta, però, la risposta aveva un altro tenore: “Uè! Che ve site mise ‘ncape, io campo c’o poche ‘e pensione”. Al che si ribatteva: “Ma vuie nun avite mise ‘a frasche fore?”. “Ma quala frasca e frasca! Io sto rinte a cantine pe vévere, e no pe’ vennere ‘o vino”. E qua altro riso generale.
Questa era l’atmosfera che si respirava tanto tempo fa sulla banchina ‘e zi’ Catiello”, quando il mare arrivava alla villa comunale, e i pesci che entravano nel golfo erano tanti. La mattina verso le nove, quando la pesca notturna era stata abbondante, per le strade di Castellammare si vedevano circolare carrettini carichi di alici. Un uomo coi calzoni scorciati al ginocchio, scalzo, spingeva il carretto a mano; un secondo era in piedi, sopra, vicino ad una tinozza piena di alici; e la stessa voce si sentiva in ogni vicolo: “Guagliooo! Sàlatélle, st’alice”; mentre ad ogni sosta il romano della piccola statèra andava avanti e indietro sulla leva graduata ad indicare il buonpiso. Tutto questo sto pensando mentre mi godo il nostalgico tramonto autunnale, seduto su questo muretto di granito che mi fa da panca. M’invita a restare e godermi ancora un po’ di fresco che mi porta il maestrale che viene dalla marina. Seguendo i fotogrammi di questa pellicola sbiadita, mi si presentano alla visione ancora tanti altri personaggi di tanto tempo fa. Qualcuno di essi ancora lo incontro in città, degli altri, la maggior parte, di quelli che non ci sono più devo accontentarmi dei ricordi, e solo in questo modo posso restare in loro compagnia.