Il teatro di Viviani
a cura di Giuseppe Zingone
Il teatro di Viviani e la sua storia in un articolo di Tina Sabbatini del 1931.
I “Pupi” di Don Aniello
“Or sono molti anni, a Porta San Gennaro, uno degli angoli della vecchia Napoli, più caratteristica e popolare, traeva la sua grama esistenza, ricca di sogni e di buon umore, una “famelica troupe” dell’Opera dei Pupi, che ogni sera offriva al pubblico del rione il repertorio delle sue tragicomiche rappresentazioni.
Ne era proprietario e direttore il famoso Aniello Scarpati, alto, grosso, il quale sosteneva le parti di otto o dieci personaggi nella stessa commedia, imitando nelle diverse battute, la voce del tiranno e della vittima, dell’ingannata e del seduttore, della regina e dello schiavo. Finita la rappresentazione dei “pupi” tra la chiassosa allegria degli spettatori, Don Aniello dava l’ordine che si “alzasse il cielo della scena”; e aveva così iniziato la second parte dello spettacolo, offerto da attori in carne ed ossa, composto per lo più di ballerine e di cantori di canzonette in voga, accompagnate dalla musica di rito; violino, mandolino e chitarra.
Chi fittava ai “Pupi” di Don Aniello i variopinti costumi della scena era Raffaele Viviani, padre, che quasi ogni sera, per meglio accudire al suo mandato di allestitore, varcava confidenzialmente, da membro della famiglia, la soglia del piccolo teatro, traendosi per mano il figlioletto Raffaelino, spettatore attento e insaziabile, dalla memoria prodigiosamente facile e dal pronto spirito di assimilazione.
Raffaelino riusciva a “rubare” ogni sera un poco della sapienza degli attori, a ruminarla lungo la strada, a esibirla tra i compagni di gioco; e a ripetere con incredibile e comica fedeltà le smorfie delle cantatrici e lo sgambettìo delle ballerine, ripetendo ad orecchio i motivi delle canzonette popolari che costituivano la sua più ambita conquista.
Una sera, messe a letto le marionette e chiamati a raccolta gli attori viventi per la seconda parte della rappresentazione, si trovò che certo Gennaro Trenci, scritturato insostituibile per le canzonette, non aveva risposto all’appello perché caduto improvvisamente malato.
Costernazione di Don Aniello e grande imbarazzo della Compagnia. Poi, fra le tenebre della perplessità, un lume improvviso: Raffaelino monterà in palcoscenico e canterà al posto di Gennariello; e a un improvvisatore di cinque anni il pubblico non darà torto. Ma il vestito? Come si provvede al vestito? Intervenne la madre, saggia ed esperta custode del guardaroba marionettistico. Da uno dei pupi a riposo, ella prese a prestito il costume del “debutto”: un paio di brachettine che parevano fatte su misura ed una giacchetta di velluto lilla, ch’ella in quattro e quattr’otto tagliò e ricucì alla cintura; e con le parti tolte al davanti improvvisò sul dietro le code del frack. Raffaelino entusiasta del ricco vestito, che oggi ancora conserva come preziosa reliquia, calcò per la prima volta la scena. E sulla scena cantò, danzò, fece capriole e piroette: ripeté a menadito le parole che aveva imparate a memoria nelle sere precedenti: Il pubblico applaudì, gli fece ripetere gesta e canzoni; decretò allo “scugnizzo” un vero trionfo: e da quella sera ebbe segnata la sua via.
Canzonette e varietà
Aveva cinque anni; e si pose a studiare da solo l’alfabeto. Di scuola non se ne parlò, né allora, né poi. Viviani non ha mai visto un banco scolastico, una lavagna, un quaderno, un libro di testo. Egli è entrato per la prima volta in un tempio della sapienza per accompagnarvi il figlio maggiore.
Fu al liceo Vittorio Emanuele di Napoli; e lo avevano già fatto commendatore.
Maestro di sé stesso, dopo di avere imparato a leggere e scrivere, compose canzoni e monologhi musicati, che portò, via via, in tutti i varietés d’Italia.
Creatore del tipo napoletano da marciapiede, egli, figlio di popolo, aveva copiato i gesti e le mosse di suoi… maestri improvvisati lungo un tratto di strada cittadina, fra il sorriso dei passeggeri che non osavano disturbargli le sue prove teatrali in campo aperto.
Fu così che la macchietta napoletana, uscente dallo sfondo naturale del paesaggio e della musica che ne commenta e completa il carattere, trovò nel Viviani la sua più tipica verità, aiutata dalla natura fisica del soggetto, magro, agile, guizzante, pronto allo scatto furbesco, all’impeto d’ira alla commozione improvvisa e irrefrenabile.
Nel “varietà” Raffaele Viviani portò il tipo napoletano alla sua più espressiva vivezza. La sua mimica, di un’efficacia irresistibile, per talento interpretativo e per la maschera del volto, traducente tutte le più immediate emozioni, sfumanti dalla gaiezza al dolore, dalla tremebonda paura alla rasserenata idiozìa, dall’ingenua dedizione amorosa alla passione tragica e mortale, fu e resta inconfondibile con la mimica di ogni altro interprete della vita napoletana, trasportata sulla scena, con le sue profonde necessità psicologiche e le sue forme esteriori e superficiali.
È ancora cotesta mimica, corretta dalla disciplina, perfezionata dallo studio incessante che fa di Viviani, fondatore e animatore della Compagnia d’Arte Napoletana, imposta da anni al rispetto e all’ammirazione dei pubblici italiani ed esteri, un attore personalissimo e inimitabile, nella riproduzione dei caratteri e rappresentati da lui.
Il teatro d’arte
Come e perché Viviani, dalle ribalte del “Varietà” dove già guadagnava fior di quattrini, passasse al teatro d’arte con propria numerosa Compagnia, è detto da lui in pochi tratti riassunti: “Durante la guerra, i “varietés” italiani offrivano uno spettacolo nauseante per il gusto volgare degli attori improvvisati e deficienti, favoriti dal facile accontentamento del pubblico, che non mirava che a stordirsi. Fin d’allora cominciò nel mio animo il desiderio invincibile di darmi al teatro: guadagnare meno, cominciare da capo, soffrire magari quello che non era più possibile che io soffrissi, ma fare dell’arte vera. Il Teatro era il mio sogno e divenne la mia realtà”.
La Compagnia d’Arte Napoletana, raccolti in un primo tempo pochi e indispensabili elementi, necessari all’azione scenica, si accrebbe mano che i lavori esigevano maggior numero di personaggi. Viviani capocomico, si valse subito di Viviani autore nella scelta dl suo repertorio.
Cominciò con un lavoro dal titolo “Vico” (Vicolo) un atto scritto in tre notti e rappresentato al teatro Umberto di Napoli, oggi scomparso, dove la Compagnia ammaniva due spettacoli al giorno e tre la domenica. Il successo del tentativo fu così incoraggiante, che l’autore di “Vico” dovette affrettare la creazione di nuove opere teatrali per accontentare le esigenze del pubblico sempre più entusiasta e numeroso.
In tre anni di recite continuative in cotesto teatro popolare, e cioè dal 1918 al 1921, Viviani guadagnò netto un milione di lire, somma difficilmente raggiungibile da una Compagnia di quel carattere, anche delle più rispettabili e considerate.1
Consolidato il genere e arricchito il repertorio, Viviani e la sua “troupe” oltrepassarono Roma, che segna il limite delle più facili comprensioni di cui può valersi il teatro del sud, ed affrontarono le città settentrionali con le relative diffidenze campanilistiche ch’era necessario combattere e vincere.
Faticosa conquista
Viviani non conquistò di botto le platee di alcune città nordiche, per la semplice ragione che popolo e critici disertarono dal teatro.
Ricordo le prime recite a Torino nel ’23, ascoltate da pochi meridionali; e l’ostinata assenza della stampa che non volle dare importanza al suo repertorio, ritenuto un ibrido connubio di varietà e di teatro, di vaudeville e di “drammatica del colore”.2
Viviani non si scoraggiò.
Tempra di lottatore caparbio e intelligente, aspettò che qualcuno che s’intende di teatro e di artisti, s’affacciasse, sul finire della breve stagione, alle soglie del teatro deserto. E fu la campana che richiamò i recalcitranti a sentirlo.
Macché! Quello è Viviani? Perbacco! È un artista!
Sui giornali cittadini si cominciò a fargli posto. La rivelazione dell’interprete e la genialità del suo repertorio furono, prima che la Compagnia ripartisse, riconosciute e valorizzate. Alle ultime recite il “Chiarella” era popolato di torinesi; e l’anno successivo il Carignano fece non pochi esauriti. Il critico drammatico di un quotidiano locale scrisse per la Compagnia d’Arte napoletana un lavoro in tre atti, rappresentato con successo a Torino e in altre città italiane.
Nell’America del Sud
Nel ’29 Viviani varcò l’Oceano e con l’intera Compagnia portò le tende a Buenos Ayres, a quel Politeama Argentino.3
Due mesi di successo che gli venne, oltre che dal pubblico locale, dalla massa degli attori argentini, i quali gli richiesero un’apposita “mattinata” per potere ascoltare in massa l’eccezionale Compagnia. Le feste prodigategli in quella occasione si chiusero con la nomina del comm. Viviani a Socio onorario dell’Associazione Artisti di Buenos Ayres e con un grande banchetto al Tabarins, al quale era intervenuta oltre la sua Compagnia al completo, tutta la famiglia artistica locale con al capo il Presidente Moìno. Otto delle commedie del Viviani sono state tradotte in “porteno” da Giulio Escobar; e per quest’anno se ne annuncia la rappresentazione.
Parve a certa stampa cittadina che lo spirito di alcuni lavori, e specialmente di “Napoli in frak” dello stesso Viviani, suonasse apologia del Fascismo, in quanto mette in evidenza le istituzioni e le provvidenze del Regime a beneficio di Napoli e della più sana e moderna vita napoletana; e l’autore-attore fu avversato nella su attività da un rinnegato italiano e da un foglio che ne ospitava le rabbiose invettive. Per tutta risposta, la Compagnia d’Arte napoletana tenne per diciotto sere di seguito il cartellone di “Napoli in frak” con un crescente concorso di pubblico, attraverso il pretesto della scenica approvazione.4
Non pochi autori drammatici hanno tentato composizioni adattabili allo spirito, alle possibilità, agli scopi della Compagnia Viviani; e le hanno offerto una collaborazione che il capocomico non ha rifiutato. Ma alla prova dei fatti, pochissime hanno potuto conseguire il battesimo della buona prova o riscuotere i larghi consensi degli uditori. Gli è che Raffaele Viviani usa una sua tecnica particolare nell’architettura e nell’allestimento dei suoi lavori che riproducono il colore napoletano in una scioltezza di linguaggio, in una vivacità di movimenti, in una progressione di intrecci multipli, tali da consentirgli di assumere, in una medesima rappresentazione, diversi caratteri e prodigarsi in saporose macchiette, che rendono lo spettacolo notevolmente vario è originale. Quand’anche egli scelga lavori non suoi per accoglierli nel proprio repertorio, non è che dopo lunga e minuziosa fatica di cernita, di modifiche e di adattamenti che può valersene per un programma di esecuzione.
È ormai convinzione generale, suffragata dagli esperimenti, che il teatro di Viviani prenda la sua nota originale dalla creazione del capocomico; e che nessuno, meglio di lui, sappia misurare e sfruttare e valorizzare i meriti e le tendenze dei suoi attori, per ricavarne dei “tipi” egregiamente addestrati a riprodurre i gesti, le tradizioni e le passioni del popolo napoletano. La compagnia recita senza suggeritore; e gli elementi che la compongono, sembrano uscire dai vicoli dalle strade della loro città caratteristica, come per continuare a parlare, a ridere, a discutere, a muoversi sulla scena, invece che sull’asfalto o sulle pietre del suolo napoletano.
Il poeta e la sua donna
A completare la collaborazione che Viviani offre al suo teatro, molti dei commenti musicali dell’orchestra che asseconda la Compagnia in tutte le sue peregrinazioni, sono composte da lui: musicista improvvisato, scrittore senza maestri, Viviani è anche poeta senza scuola. E di Viviani poeta, avremo presto il saggio stampato.
L’editore Mondadori – che, come spesso gli accade – annusò il buono in alcune poesie del Viviani dette al pubblico in diverse sue serate d’onore, lo invitò a raccogliere le sue fatiche rimate, che usciranno prossimamente in volume. Sono diciotto composizioni dialettali, tra poemetti, liriche, sonetti; canti spontanei, ispirati al folklore napoletano e tratti della osservazione diretta della vita partenopea nelle sue molteplici espressioni. Non rare volte esse sono dedicate all’amore che lo lega da anni alla bella e dolce compagna della sua giovinezza irrequieta e oggi della sua fervida maturità, che divise con lui le asprezze e le lotte della vigilia e le faticanti veglie del lavoro tiranno, quando in una settimana era necessario creare almeno due nuove commedie da prodigare al pubblico dell’ “Umberto”; e le notti sostituivano il giorno, già tutto preso dalle prove e dalle recite: ed ella gli era vicina in ogni ora, vigile e saggia massaia entro la casa dove fiorivano le culle; e poi tra le quinte ad aiutare il marito nelle sue trasformazioni rapide; e a prodigargli, con le cure amorose, il sorriso per l’ottenuto successo al rientrare di lui dagli applausi della ribalta.
Maria Viviani, di ottima famiglia napoletana e sorella di un nostro prove aviatore, può ben dirsi la collaboratrice umile e necessaria della fortuna del marito e delle soddisfazioni che egli ne ha colto, tra le immancabili spine. I suoi quattro figli, educati da lei, e spesse volte peregrinanti col padre e con la madre nelle varie città italiane, formano tutto il suo orgoglio e quello del tenerissimo padre. Questi cari ragazzi non calcheranno le scene per espresso divieto degli autori della loro vita; ma – ironia della medesima! – in virtù della razza che non mente, piccoli ancora esprimevano in musica, in versi, la tendenza che scorre nel loro sangue per paterna eredità e forza di esempio.
Musicalmente educati tutti, Vittorio, il maggiore, già vezzeggia con le Muse italiane. A sedici anni ha già in attivo qualche peccatuccio stampato.
Studente liceale e avanguardista agguerrito a tutte le più ardite battaglie, egli canta in versi rimati fino i propositi del suo avvenire”.5
Tina Sabbatini
Articolo completato il 5 Agosto 2019
- In realtà gli alti e i bassi si alternarono sempre nella vita dell’attore, come egli stesso descrive una volta tornato dall’estero: “Tornato a Milano con la mia compagnia fui di nuovo «scoperto» tanto è vero che feci affari d’oro ma… chi intascò fu la Suvini Zerbini, con la cui società avevo ancora un contratto, stipulato per il cerchio della morte“. In: Maria Emilia Nardo, Raffaele Viviani, Dalla vita alle scene l’altra autobiografia, Rogiosi editore 2016, pag. 202. ↩
- Le vicende di Raffaele Viviani a Torino mi furono narrate dal nostro compianto Signor Luigi Nocera, attraverso le sue parole constatai che il contatto con Castellammare, anche dopo essersi trasferito a Napoli con la famiglia, fu sempre vivo. Insistetti perché mettesse in essere uno scritto che ne perpetuasse la memoria che poi fu anche salvato in un video a lui dedicato, girato da Corrado Di Martino. ↩
- Il contratto per l’America latina fu concluso grazie all’agente italiano della Società degli Autori di Buenos Ayres, Giacompol, partendo alla volta dell’Argentina da Genova con la nave Duilio, il 4 Aprile 1929. Durante la traversata scrisse la poesia l’Oceano, al suo esordio Viviani in terra straniera portò sul palco portò I pescatori e La Musica dei ciechi. ↩
- Al di là delle considerazioni di Tina Sabbatini, sull Fascismo e la presa di posizione della Compagnia in Argentina, bisogna dire ad onor del vero, che Viviani fu molto osteggiato dal Partito nazionale Fascista, le sue rappresentazioni in dialetto, che sovente parlavano di povertà, di miseria, dei problemi quotidiani per tirare avanti, mettevano in difficoltà il regime preoccupato di diffondere l’immagine di un paese all’avanguardia e con aspirazioni colonialiste, vedi anche alla fine dell’articolo quando viene. citato il fratello della moglie di Viviani, (Maria) aviere e patriota. Non deve meravigliare la posizione della Sabbatini la quale scriveva in un periodo e per una rivista che anche in copertina riportava il numero IX (in numeri romani) ad indicare l’era fascista. ↩
- Il presente articolo di: Tina Sabbatini, Il Teatro di Viviani, In: Comœdia, rassegna mensile del teatro, Anno XIII, 1931, pag. 51-53. ↩