L’estate nella mia terra
di Giuseppe Zingone
È sempre estate nella mia Città, basta un raggio di sole, la risata chiassosa di un bambino. Ma, in effetti la bella stagione non tarda a giungere, così come la ricordo: asfissiante, umida, boccheggiante, Castellammare è “un dolce inferno” verrebbe da dire. Ai primi accenni di cambiamento di tempo le nostre case nel Centro Antico si schiudono, come le rose a Maggio, ed estendono i loro confini reali fin sulle strade, torniamo ad essere una grande famiglia, la cui vita si svolge per le vie, qui nascono nuove storie belle e brutte; i nostri figli giocano infinite partite di calcio nei vicoli e al porto; più volentieri ci si affaccia e i nostri sguardi s’imbrigliano negli occhi del vicino oppure nella casa del dirimpettaio. A qualcuno viene subito in mente la violata privacy, ma per noi è normale, è retaggio antico, del resto in posti come questo è nato il teatro napoletano, le canzoni, le tragedie. La sera, poi, la rassicurante frescura del Faito scivola giù a capofitto tra le strade antiche, lenendo le infuocate ferite scavate dal tempo nei muri; carne e polvere antica, fatta di uomini e fabbricati che chiedono incessantemente a Dio il giusto riposo eterno. Un impressionante odore di terra, misto a fogliame e linfa vitale si spinge per i vicoli e le piazze, anelando il mare antistante i cantieri, antichi, ferrosi, inoperosi. Qui il Faito incontra il mare, con la sua brezza che sa di pesce essiccato al sole ed alghe, di reti ormai inerti. Nelle notti soffocanti, tutti attendono il giorno dopo: finestre spalancate supplicano grazie che non riceveranno risposta; edicole votive un tempo dimorate da santi e oggi rimaste orfane, dirottano in poche case sparuti venticelli. Qualcuno con la seggiola s’attarda sul proprio balcone tirato fuori a forza, abusivamente, rubando centimetri al vuoto; col solo scopo di carpire gli ultimi sospiri della confidente montagna per poi raccontarli ai propri sogni. Ripercorro a mente tutte le mie strade, esse mi appartengono, sono mie, vi cammino instancabilmente, osservo la vita che vi si addormenta come acquerelli che sbiadiscono. Riposa chi può…! Verso la fine del vicolo qualcuno piange, più in là invece l’arte del pane non ha requie neanche nelle notti d’estate, poi silenzio. Il buio è breve, uno scatto di nervi, un rigirarsi di lato nel letto; il sole è pigro nei vicoli che si risvegliano al suon di battenti zoccoli di legno, ma il mare non può attendere, chiama le prime famiglie le quali s’incamminano in processione, come matrioske, per occupare i pochi ritagli di sabbia rimasti. Variopinti giovani come maioliche vietresi, lambiscono con i loro corpi l’azzurro lido stabiese. Opere d’arte in costume, mostrano il proprio equilibrato patrimonio genetico, equamente diviso fra razze indoeuropee e africane: com’è bella la nostra gioventù! Pesanti fardelli di venditori ambulanti stremati, si rincorrono sull’angusta spiaggia. Sfiancati dal rovente sole come i fasciami di ferro dei cantieri, nel tardo pomeriggio tutti ritornano a casa unti di sale e sudore. Le nostre dolci acque termali, in religioso silenzio sfilano tra percorsi nascosti sino al mare, nessuno può ripescarle, anguille sfuggenti, perle di ricchezza andate perse, lasciano le nostre mani vuote ed affamate di turisti. Qualche chalet riprende a sistemare tavolini come pezzi su una scacchiera, agli angoli delle strade fanno capolino improvvisati venditori, come pupi di un vecchio teatrino, quasi in agguato con le loro merci. I viali della Villa, nella sera che sopraggiunge, attendono i figli di Stabia per cullarli su e giù, come in una perenne corsa in funivia, e intanto il cielo dona un tramonto che si perde negli occhi del cuore. Stelle ancora invisibili custodiscono la nostra memoria.