Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )
Come ho scritto altre volte, sono nato a Castellammare tanto, tanto tempo fa, in Piazza dell’Orologio: il mio luogo dell’anima. Aperta verso il mare e con il Vesuvio come fondale si trova quasi al centro della città, nella parte antica, o meglio, storica di Castellammare. Naturale quindi che molti abitanti della zona, specialmente uomini, confluissero in essa appena il sole, superato il Faito, la inondava di luce e di calore. D’inverno poi era una vera delizia sostarvi, facendosi scaldare la schiena mentre si guardavano le navi manovrare per avvicinarsi alle banchine. Quelle che recavano cereali attraccavano al molo di fronte alla Capitaneria di Porto. Là le idrovore aspiravano dalle stive le granaglie per depositarle negli alti silos; che esistono ancora adesso ma, mi dicono, inoperosi. Altre navi (in verità erano velieri, senza motori) con carichi meno impegnativi attraccavano alla banchina proprio di fronte alla Piazza. Alcune trasportavano “sciuscelle” altre “chiancarelle”. Queste ultime non erano altro che listelli di legno lunghi un paio di metri, larghi e spessi pochi centimetri. Venivano sovrapposti, incrociati uno sull’altro, in modo da formare dei parallelepipedi alti più di due metri, che per noi bambini diveniva il luogo ideale per giocare a nascondino. Quanti giochi ha visto questa Piazza: gli antistanti binari del treno, ad esempio, si prestavano per il gioco del “carrillo” (per il quale occorrevano le nocciole); oppure il “cavalluccio”, che consisteva nello scavalcare un compagno piegato sul busto a 90°, chi aveva scavalcato a sua volta si piegava per permettere al compagno di scavalcarlo a sua volta; e così, un salto dietro l’altro, fra i binari si arrivava fino all’Acqua della Madonna. Un altro gioco che si faceva era il seguente: si tracciava una linea perpendicolare ai binari e vinceva chi lanciava più vicina alla stessa dei dischetti d’alluminio grossi come una moneta. Da dove provenivano questi dischetti? In quasi tutte le vecchie case del rione, nell’androne o per le scale esistevano delle nicchie votive dove erano poste delle riproduzioni o delle statuette di Santi e della Madonna. Davanti a queste effigi baluginava la incerta fiamma di un lumino. A me, fin da piccolo, e specialmente di sera, questo chiarore scialbo e intermittente metteva un poco di paura addosso: sembrava di essere in un cimitero. Ma mentre nella fantasia di Totò (‘A livella) il malcapitato testimone annotava impassibile il diverbio fra le anime del nobile e del netturbino, io in quel semibuio quasi me la facevo sotto. Dicevo dei lumini, questi cilindretti di cera affogato nel mezzo avevano lo “stoppino” (un sottile cordoncino di stoppa) che da una parte sporgeva per qualche centimetro per accendere la fiamma e dall’altra (il fondo), era trattenuto da un dischetto d’alluminio; quando la cera del lumino si consumava rimaneva questo dischetto, che non si buttava, ma si dava ai bambini per giocare. Fra i binari giocavamo anche allo “strummolo”, che non sto a descrivere perché molto conosciuto.
Allora questi erano i giocattoli a disposizione della maggioranza dei bambini. Non c’erano videogiochi, computer ed altre sofisticherie del genere, ma roba povera, semplice. E non credo che senza questi aggeggi elaborati e costosi i bambini di una volta fossero più stupidi di quelli di adesso. Anzi! La “strada”, per chi ha saputo far tesoro dei buoni insegnamenti e delle esperienze che essa forniva, è stata una vera maestra di vita: ha aiutato a sviluppare l’istinto per affrontare adeguatamente le vicissitudini della nostra esistenza; ha forgiato il carattere e la sensibilità; ha insegnato a riconoscere l’amico dal nemico; in una parola: ha fatto divenire lo “scugnizzo” un UOMO! Ma nella Piazza non c’erano soltanto i bambini. Attorno alla torre dell’orologio sostavano carrozzelle, traini, carretti, facchini, tutti in attesa di clienti.
I cavalli con la testa immersa nel sacco del mangime (avena, biada, carrube) pigramente ogni tanto battevano le “ciampe” sul “vasoli” che costituivano la pavimentazione della Piazza. Questi “vasoli” bruniti e resi lisci dal tempo e dall’uso ora sono stati sostituiti dai cosiddetti sampietrini posati con disegni geometrici, che snaturano la bellezza, la caratteristica e la originalità del luogo.
Ora che ci avviciniamo alla Santa Pasqua non posso non ricordare il rito di “iniziazione” che si compiva il Sabato Santo: il primo bagno della stagione. Quando a mezzogiorno in punto le sirene del cantiere e delle navi in porto gioiosamente annunciavano con lunghi sibili la Resurrezione , noi dalla banchina ci buttavamo a mare, qualsiasi tempo facesse: pioggia, vento, sole; e non prendevamo mai un malanno! Eravamo protetti dal Signore risorto!
In quella Piazza c’erano anche molti negozi e magazzini. Ora, sforzando la memoria un poco arrugginita (signori! parliamo di 75/80 anni fa! Ed io non sono Pico della Mirandola), cercherò di ricordarne qualcuno.
All’angolo con via Bonito c’era un tabaccaio. Ogni tanto mio nonno, che aveva un negozio/magazzino deposito di “sciuscelle”, mi mandava a comperare dei sigari toscani che lui fumava con gran goduria.
Proprio parlando di fumo e sigarette mi viene in mente una particolarità del tempo. Allora quasi nessuno comprava le sigarette a pacchetti, ma le richiedeva sciolte: tre, cinque per volta. Non solo, ma la qualità delle sigarette che si compravano dipendevano anche dalle condizioni economiche del fumatore. Per esempio mio padre fumava le “Popolari”, e penso non ci siano ulteriori spiegazioni da dare. Erano le più economiche, costavano poco, ma in compenso puzzavano tanto.
Quelli appartenenti alla media borghesia preferivano le “Macedonia”, un poco dolci e dal profumo abbastanza gradevole. Le fumava mio zio Salvatore e quando mi incaricava di comprargliene tre (si, ho scritto giusto, 3) si raccomandava di prenderle morbide. Quel sant’uomo del tabaccaio apriva il pacchetto ne traeva tre e poi le faceva rotolare lentamente fra il pollice e l’indice per saggiarne la morbidezza. Mio zio Vincenzino, che si dava delle “arie” perché era il figlio di don Luigi (il commerciante di carrube), riverito e ossequiato dagli abitanti della Piazza e di via Santa Caterina, preferiva le “Tre stelle” o le “Turmac” per sentirsi all’altezza dei benestanti della città che in maggioranza fumavano queste sigarette. Le “Turmac” erano contenute in una bella scatola di cartoncino color sanguigna con il nome scritto in caratteri corsivi color oro. Come si vede non solo il vestire o il vitto distingueva le classi sociali (prossimamente il vitto sarà oggetto di un altro mio “ricordo” per chi avrà la bontà di leggermi). Un altro negozio sito in quella Piazza era un carbonaio, dove mia mamma mi mandava a comprare la carbonella per alimentare la “fornacella”. Subito appresso c’era un fabbro, dove spesso si recavano i cocchieri per far ferrare i cavalli.
Venendo più su, all’imbocco della strada che portava in via del Gesù vi era la fabbrica di biscotti; poi una farmacia.
Forse quanto sopra esposto sarà certamente un poco lacunoso, ma mi sembra già miracoloso (spremendomi le meningi), riuscire a tirare fuori dai cassetti della memoria tanti particolari. Ciò lo devo alle amorevoli sollecitazioni dei miei cari e giovani amici stabiesi che vogliono sapere come era e come si viveva una volta nella nostra bella Castellammare.
Fra questi un particolare ringraziamento lo devo alla brava e bella Sara, una tredicenne che privatamente mi ha incoraggiato a continuare a scrivere della Castellammare che fu. Un complimento quindi va al suo papà Enzo Cesarano e alla mamma, che evidentemente le hanno insegnato ad aver rispetto e amore per il passato e per le tradizioni della sua città.
Buona Pasqua a tutti. Gigi Nocera.