Natale al Cognulo sulle tracce del passato
di Enrico Discolo
Del Natale a Castellammare di Stabia non ci rimane altro, attualmente, che la messa di Mezzanotte nelle chiese cittadine e un presepio vivente che viene rappresentato, da alcuni anni, alla Madonna della Libera, frazione Camerelle costituita da un’antica borgata. Il villaggio si sviluppa sulle terrazze del Monte San Cataldo e fa da cornice al famoso ed omonimo Santuario in cui si venera la Madonna della Libera.
Ma dovete sapere che circa sessanta anni fa, nella notte di Natale, c’era ancora, una tradizione molto bella e suggestiva: la processione del bambino Gesù, al rione Cognulo. Un agglomerato urbano attraversato da una stradina, che dalla falda montana arrivava fino al porto attraverso via Santa Caterina e da questa per mezzo d’‘o pertuso d’‘o Cugnulo, un tunnel piccolo ad altezza d’uomo sotto i fabbricati, sbucava in via Bonito.
In meno di ottocento metri, dalla Pacella al porto, la città di Castellammare di Stabia vantava una zona del suo Centro antico come la più popolosa dei paesi vesuviani.
Dopo la messa di mezzanotte, che si celebrava nelle numerose chiese del centro storico: Santa Caterina, Santa Maria della Pace, Madonna del Soccorso, Spirito Santo, Santa Maria di Portosalvo e della chiesetta del Cuore di Maria in via Benedetto Brin tutti i fedeli tornavano nelle proprie case per il gioco della tombola e la preparazione di capaci vassoi di struffoli (fritti nel pomeriggio) immersi nel miele dorato e arricchiti di diavoletti multicolori (‘e cunfettielle).
I saporiti dolci natalizi venivano poi aromatizzati con l’Anice, il liquore che personalmente definisco come “il sapore e il profumo dell’inverno”.
Nonna Assunta aveva l’incarico di preparare “‘a ciuculata” il cui odore incentivava un certo languorino di stomaco, che veniva poi placato con una generosa porzione di struffoli e una fumante tazza di cioccolata ben calda e fragrante di scorza di limone.
Alle tre e mezzo del mattino si usciva di nuovo per andare a vedere e partecipare alla processione di Gesù Bambino, che si faceva proprio nella strada del Cognulo con l’inizio canonico, fissato e sempre rispettato, alle ore quattro della mattina di Natale.
In quella ora antelucana via Santa Caterina presentava uno spettacolo eccezionale per quei tempi così moderati e parsimoniosi. Una fiumana di gente imbacuccata si recava ad affollare la salita del Cognulo che iniziava proprio sotto l’antico e storico arco che si trovava al centro di Santa Caterina. Le botteghe erano tutte aperte e i fasci di luce che fuoriuscivano da esse sciabolavano, da un lato all’altro della carreggiata stretta, variopinte e luminose proiezioni, animate e ritmate dalle ombre grosse e nette che il passaggio continuo dei passanti creava sulle pareti dei palazzi.
L’eccitazione di noi ragazzi cresceva quando udivamo, ancora lontano, il suono della banda musicale che arrivava dal Largo Pace.
Io e la mia famiglia avevamo una posizione strategica per vedere tutta la cerimonia natalizia che da lì a momenti si sarebbe celebrata.
Subito dopo il ponte della Vesuviana possedevamo un giardino di famiglia ben curato da zio Catello Ziino che abitava al primo piano del palazzo che si trovava subito dopo la linea ferroviaria.
Zia Checchina (la moglie di zio Catello e madre di Tonino, Pinuccio, Franco e Rosaria) per quell’evento preparava, come esigeva l’usanza della tradizione, un vassoio di morbide e squisite zeppoline che noi ragazzi mangiavamo avidamente prima che i grandi ci accompagnassero sulla prima terrazza del giardino per assistere alla particolare e indimenticabile processione di Gesù Bambino appena nato.
Tutti, grandi e piccini eravamo col naso per aria, ad osservare delle grosse funi che scorrevano, all’altezza degli ultimi piani dei palazzi del Cognulo e attraversavano la strada da sud a nord fino all’edificio dove abitava il nostro parente. Intanto alcuni uomini si davano dei comandi a voce da un terrazzo all’altro dei palazzi. Poi come esigeva il protocollo della festa, a un segnale convenzionale le finestre e i balconi si oscuravano. In effetti tutte le luci delle case venivano spente. Sui davanzali e sui balconi si materializzavano fiammelle tremolanti di lumini e candele. Un silenzio irreale scendeva su tutto il rione. Si sentiva allora solo il brusio delle preghiere che emergeva da una lunga fiaccolata e le litanie suonate dagli zampognari.
La processione avanzava lenta dall’Arco del Cognulo come anche la gigantesca stella cometa fatta di luci che procedeva su nel cielo della notte, nello spazio delimitato dalle due ali dei fabbricati. Erano gli uomini sistemati sugli ultimi piani delle abitazioni che manovravano e tiravano, con la forza delle braccia, la poderosa stella che accompagnava dall’alto Gesù Bambino portato in processione dal parroco del quartiere e seguito da migliaia e migliaia di fedeli.
La processione avanzava lentamente e si fermava ogni dieci metri. La sosta era anch’essa programmata. La banda musicale appena finiva di suonare “Tu scendi dalle stelle”, dai “bassi” cominciava la sparatoria di luminosi tric trac preparati e forniti dal fuochista del rione da tutti conosciuto e chiamato “Giarrone”.
Lo spettacolo suggestivo di sacro e profano mi procurava una spiccata emozione e un fremito per tutto il corpo. Un tremore ancor più sensibilizzato dal rigore invernale…
Quando finalmente la processione arrivava, dopo tante soste, all’altezza del ponte della Vesuviana, la stella veniva fermata per la penultima volta. Eravamo, in quel momento, al culmine della celebrazione.
Dall’alto scendeva giù una miriade di coriandoli confezionati da giornali e vecchie riviste. I bengala sistemati ed accesi sulle ringhiere dei balconi spandevano sulla folla coperte abbaglianti di colore.
Appena i musicanti avevano finito di suonare l’ennesima esecuzione di motivi natalizi seguiva immediatamente l’esibizione del trio degli zampognari: due suonavano la zampogna e la ciaramella e il terzo cantava la classica novena. Alla fine il sacerdote alzava al cielo il bambinello e i fedeli si scioglievano, dal sacro e intimo momento mistico, in un lungo e caloroso applauso mentre i colpi in aria dei botti facevano aprire nell’oscurità della notte le corolle splendenti e colorate dei fiori di fuoco.
Alla fine la processione proseguiva, salendo ancora più a monte, verso la Pacella dove c’era un convento di suore. Noi tutti eravamo stati testimoni di una celebrazione sacra e fulgida di luci, preghiere, fede, gioia, malinconia e allegria. Una tradizione semplice e affascinante, generosa e spettacolare nel suo evolversi.
Di questo rito così antico, oggi viene ricordato soltanto attraverso il racconto di coloro che hanno avuto la fortuna di viverlo come il sottoscritto quando era bambino. E vi posso assicurare che ce ne sono tanti… Allora i luoghi descritti erano considerati il “Centro” della città, mentre nell’epoca attuale non sono altro che contrade di squallida periferia anche se le voci della memoria storica gridano al mondo culturale quel patrimonio di conoscenze e di basi ancora valide per l’espansione di una città e delle sue genti, tuttora, purtroppo, emigranti sul proprio territorio cittadino.
Le tradizioni sono forti nei secoli, perché così vuole il popolo genuino e perché legate a sistemi di vita semplice e laboriosa.
Attualmente il maggior nemico delle consuetudini è lo stesso progresso, che, beneficia tutti del suo benessere, e ci priva di quelle tradizioni, che di tanto in tanto dovrebbero risorgere per ricordare la vita della comunità che ci ha preceduto e per rinsaldare ancora di più i rapporti fra i concittadini.
Come è triste accorgersi di quei costumi, di quel folclore che forti nei secoli scorsi sono oggi irrimediabilmente scomparsi tra la banalità di uno spettacolo televisivo, l’assordante frastuono di una discoteca e la spasmodica attesa del suono di un telefono cellulare.
E tutto questo avviene nell’indifferenza completa delle nuove generazioni, forse troppo avide di sensazioni nuove non ancorate ad una sana memoria storica e troppo misere di progetti da essa ispirati.
In effetti non c’è più dialogo fra le nuove generazione e le precedenti e quindi non c’è trasferibilità di idee, esperienze, sentimenti, sensazioni e tradizioni e amore per il proprio territorio.
La scuola e la famiglia potrebbero essere di grande aiuto per il richiamo alle tradizioni. Occorrono dunque concrete iniziative da parte di docenti, genitori e di tutte quelle associazioni culturali locali per riscoprire il loro dolce fascino Attuarle con lo scopo di trasmettere alle future generazioni e ai futuri uomini del tremila la possibilità di provare, vivere e tramandare concrete emozioni di vita.