tratto da “Le Acque e il Maestrale ” di Piero Girace
Volendo dare un ulteriore contributo culturale al nostro portale, quest’oggi propongo la lettura di un brevissimo racconto narrativo, di Piero Girace, che con fare poetico e da vero scrittore, fa rivivere Quisisana, luogo incantato, purtroppo, abbandonato!!!
Buona lettura. Maurizio Cuomo.
Agosto fa desiderare le grotte con gli stalattiti, gli eremi selvosi degli anacoreti. Il vento non vuol discendere alle marine, che sono gremite di bagnanti e splendono, orgiastiche, sul mare; se ne sta tranquillo e stracquo sulla vetta di Monte Faito, dove le vacche si aggirano mansuete sul pianoro e digrumano l’erba aromatica. Andiamo, dunque, incontro al vento e alla montagna. Numerose sono le strade che portano a monte Faito. Due io ne conosco, tutte e due bellissime; l’una breve e faticosa, che si arrampica – più che strada mulattiera – sul dorso della montagna, nei pressi del santuario dell’arcangelo Raffaele, dove crescono i sorbi selvatici e la roccia viva rompe le zolle; l’altra, lunga e comoda, che si attorce in lenti giri alla montagna, la quale rivela a poco a poco la sua potenza di volume e la sua flora rigogliosissima.
Base di partenza Castellammare o Quisisana. Quisisana non è ancora la montagna. Vi sono le ville, l’albergo reale, i borghi, le parrocchie, le conversazioni ed i balletti dei villeggianti. Tuttociò attenua il tono della montagna. L’odore della selva si mischia all’odore della cipria, la musica del bosco si unisce con quella delle orchestrine. L’umanità cittadinesca, venuta da Napoli, da Roma, dalla Toscana o dalle Puglie snatura la montagna. Dall’albergo reale i forestieri partono per monte Faito, e credono di trovar lungo il cammino, erme, fontane, vasche con foglie morte, e viali tranquilli di ozi settecenteschi. Ma si sbagliano di grosso. Le signorine si pentono presto di non aver calzato scarpe da montagna, e gli uomini di non aver portato appresso, negli zaini capaci, un’abbondante provvista di viveri. Dileguano i romanticismi dei viali pettinati ed i barocchismi delle fontane. All’altezza del Belvedere dove termina il bosco di Quisisana, la montagna fa sentire il suo odore. Odore acre di vegetazione vergine, che risveglia l’appetito. Tutte le erbe medicinali di cui parla il vecchio Galeno impregnano l’aria della loro essenza. Erbe odorose, selvatiche, che nascono e muoiono nel fitto della boscaglia, fra un tronco d’albero gigantesco ed un macigno. Le pietre calcinose tralucono nel verde. Sembrano ossa disseccate.
La strada gira, e stringe nelle sue volute la montagna; squaderna, l’uno appresso l’altro, paesaggi ampi, dove l’occhio sconfina. Le case di Castellammare poggiate sulla riva di un mare pigro si tramutano in casette da bambole. Dalla vetta del monte partono in forma d’isole o di stranissimi zeppelin le nuvole. Curiose e placide nuvole. Planano lentissimamente. Fra poco saranno sotto il livello della strada, dove le automobili – quelle poche che si avventurano quassù – sono costrette a sterzare di continuo ed a marciare con la massima precauzione. Gli alberi si slanciano con le braccia sulla strada. Vorrebbero occultarla. Non più ville, non più case. Le parrocchie e i borghi sono dimenticati laggiù. Soltanto alberi macigni e forre.
Oh! Ma quanti giri fa questa strada! Pare che non voglia mai decidersi a raggiungere la meta. Si comprende la sua lentezza. I paesaggi l’incantano. Il golfo sembra un arco di cielo. Golfo sereno. Quanta bellezza e quanta malinconia! Le isole poggiano sull’acqua, che è seta azzurra, e vanno con le correnti. Questo paesaggio spiega le ottave meravigliose della Gerusalemme, e la musica napoletana. Su queste strade sono passate le bande del brigante Martello; forse in questa selva che corre verso la vetta, hanno bivaccato senza accendere i fuochi.
Su questa strada sono passati i santi e gli anacoreti. San Catello, patrono di Castellammare – santo stabiese con una barba da nostromo – saliva tutti i giorni la montagna sul far della sera, si fermava sulla vetta di San Michele, dove esistono i resti di un santuario, e pregava sotto lo stellato. La vetta diventava una specie di ponte di comando; il santo stabiese, che ha tutto l’aspetto di un buon nostromo, fissava gli occhi nel firmamento e stabiliva la rotta, per guidare le anime dei fedeli in porto. Solitudini mistiche. Giù nella vallata, greci e barbari di ogni sorta infestavano le campagne del Sarno, saccheggiavano i paesi. Tenebre del basso medio-evo. I santi si rifugiavano sulle vette dei monti, ed infondono animo alla povera umanità tormentata. Quando sbocciano le stelle sulla tenebra delle case e del cuore, a Faito prega san Catello, uomo appartenente ad una razza di marinai e di costruttori.