a cura del prof. Luigi Casale
Non mi piace la parola “amante”.
Certamente essa è accettabile e dignitosa in un testo letterario: sul piano comunicativo – e su quello artistico – come tutte le parole scelte dal compositore per la sua creazione originale, essa definisce una precisa realtà, rimanda cioè a un referente (così si dice), seppure inventato dalla fantasia dell’autore, chiaramente individuabile non solo nella parte di significato che indica l’oggetto in sé (denotazione), ma soprattutto in quella che implica (sottolinea e trasmette al lettore) sentimento (amore, odio, piacere, dolore, ecc.) oppure ricordi (adesione, repulsione, partecipazione) sulla base dell’esperienza ( esistenziale e linguistica) che ognuno ne ha fatto nella vita e nel quotidiano. Essa, la parola “amante”, non mi piace nell’uso che se ne fa normalmente. E non mi piace per quell’accumulo di significati altri, che l’uso ha sedimentato su di essa.
Preferisco: “amata”. Oppure: “amato”. A seconda dei casi.
Intanto come participio presente (forma nominale che esce in “-e” al singolare, e in “-i” al plurale) non mi consente di distinguere il maschile dal femminile. E poi perché insiste sull’elemento discriminatorio di tipo sociologico, proprio per quella sua connotazione di cui parlavo sopra.
Immaginate di pensare ad un amante; oppure ad un’amante. A seconda dei casi. Che ne dite?
Sarà colpa della nostra sensibilità, dell’educazione, sarà il sistema dei valori condivisi, saranno le convenzioni, i pregiudizi, – dite quello che volete – o la stessa civiltà (e la cultura) cattolica? Ma, sta di fatto che “amante” suona male. Eppure non dovrebbe essere così.
Perciò preferisco la forma passiva: amata o amato.
La cosa non riguarda solo la civiltà cristiana. La distinzione tra amore casto (sano, sacro) e amore profano (fuori dal tempio) è un classico, e si è sviluppato con l’evoluzione dell’uomo. Pensate solo all’inimicizia tra Giunone (la sposa) e Venere (l’amante) nella mitologia classica!
Ma ritorniamo alle parole.
Per indicare l’individuo adulto della specie umana (sessuata) abbiamo le coppie di parole: “maschio/femmina”; “uomo/donna”; “signore/signora”; “marito/moglie”, e tante altre in ragione delle funzioni, dei compiti e dei ruoli; come pure: amante/amante.
Badate bene che ci stiamo riferendo alla lingua italiana. E’ importante precisare ciò. Perché la lingua, come ha detto qualcuno, è il DNA della storia e della condizione socio-culturale di un popolo; e oggi con lo sviluppo degli studi di genetica – permettetemi lo scherzoso paragone – attraverso lo studio della lingua potremmo ricostruire il genoma completo di ogni gruppo sociale.
[Di passaggio faccio notare che l’Unità d’Italia l’ha fatta la nostra lingua letteraria, l’italiano. E tutti gli uomini che nei secoli l’hanno usata. Perciò: Grazie, Dante!]
Lasciamo da parte le parole “maschio” e “femmina” (la loro origine è nell’indeuropeo) le quali indicano la capacità e il rispettivo ruolo – potenziali – delle due persone nella funzione del procreare: parole queste che si adattano anche ai bambini e a tutti i viventi sessuati; e vediamo le altre coppie.
“Signore” e “signora”. Rappresentano il gene (per restare nella similitudine) di una cultura nella quale la struttura sociale è di tipo gerarchico: prima i “vecchi”, gli anziani; poi i giovani. “Senior”, “più vecchio”: rispetto a chi è “più giovane” (“iunior”).
Da “senior”(signore), poi, per banalizzazione è venuto anche “signora”.
“Uomo/donna”. Non so se veramente la parola latina “homo” (uomo), da cui deriva l’italiano “uomo” sia da collegarsi ad “humus” (terra). Se così fosse allora potremmo collegarla direttamente alla forma ebraica del nome Adamo, e scorgervi addirittura un contatto culturale col racconto biblico della creazione dell’uomo, fatto dal fango e animato dallo spirito di Dio.
Donna, invece ci viene da un’altra famiglia di parole: domus (casa); dominus (padrone di casa); domina (padrona di casa). Se poi “humus” e “domus” siano collegabili è un problema su cui soprassediamo. L’etimologia – d’accordo! – ci dà l’origine delle parole; ma non dobbiamo aspettarci l’origine prima (che non sappiamo neanche che cosa sia), ma accontentiamoci di quel tanto che ci basti a capire e a capirci, affinché la lingua diventi più trasparente.
Per indicare lo stesso concetto con un’identica funzione semantica, la lingua francese ha selezionato la parola “femme” (latino: “femina”) utilizzandola anche per indicare l’italiano “moglie” (latino: “mulier”, presente anche nell’aggettivo italiano “muliebre” = femminile). Gli italiani, in altre epoche (vedi i poeti cortesi medievali) dicevano: “madonna” (latino: “mea domina”= mia padrona); e anche i francesi evidentemente se nel francese moderno è rimasta la forma “madame”= ([mia] signora).
“Marito” è collegato a “maschio” in quanto derivante dalla stessa parola latina “mas”.
Per concludere. Il termine latino “uxor” (donna, sposa, moglie) è rimasto nella lingua napoletana (unica!) nella espressione “‘nzurà” (l’atto del prendere moglie) che è lo “sposarsi” dell’uomo, rispetto allo sposarsi della donna che si dice “mmarità” (atto del prendere marito).
Certo, anche in italiano esiste “uxoricidio”. Ma questa è un’altra cosa. E poi si tratta di una parola dotta.