a cura del prof. Luigi Casale
Quando si parla del sistema servile nell’antichità o della forza lavoro nell’economia di Roma antica, noi parliamo essenzialmente di “schiavitù”. Eppure la parola “schiavo” da cui deriva il nostro “ciao!” non era usata dagli antichi Romani, e solo tardi è entra nella lingua latina. A Roma, fino al periodo della Tarda Antichità, si usava la parola “servus”, che indicava in effetti lo “schiavo” nel senso che intendiamo oggi. Resta però comunque che lo schiavo era chiamato “servus”.
Il verbo “servio” (da cui il sostantivo servus) significa due cose: 1) “faccio il servo”; e 2) “sono schiavo”. Ma mentre “faccio il servo” esprime una funzione, e di conseguenza anche una condizione sociale; “essere schiavo” comporta uno stato giuridico, cioè l’appartenenza a qualcuno, nel nostro caso ad un cittadino titolare di diritti (senza alcun diritto personale per chi si trova ad essere schiavo).
Nel primo caso, in cui, per quanto plebeo, il servo è già (o ancora) un cittadino, la tradizione storica ha creato la formazione di nomi come Servio o Servilio (prenome il primo, alias [altrimenti] nome personale; nome gentilizio il secondo, alias, nome di famiglia o, come diciamo oggi, cognome) che si imposero a persone o a famiglie di Roma: nomi che in maniera evidente lasciano intravedere l’origine plebea dei personaggi che li portavano. Ma restavano pur sempre cittadini romani; e a pieno diritto. Addirittura, in epoca storica, erano ritenute le più antiche famiglie dell’Urbe.
Lo schiavo, invece, – ed è il secondo significato del verbo servio – è una cosa, un oggetto, una proprietà, che si acquista e si vende, si sfrutta e si preserva a seconda della convenienza economica del proprietario, il cittadino romano. E anche i rapporti umanitari, quelli che intercorrono da uomo a uomo – da cui non si poteva prescindere neppure a Roma – erano soggetti all’umore o alla crudeltà, alla sensibilità o alla nobiltà d’animo del proprietario.
Il motivo per cui si diventava schiavi era, o perché debitore insolvente, o perché catturato in guerra. Da queste due porte lo schiavo entrava nel mercato. Per il cittadino che si appropriava dello schiavo si diceva che “aveva in mano” il servus, lo schiavo. Manu càpere = afferrare con la mano (tenere in mano). Sicché presso le famiglie di Roma i figli del dominus erano i “liberi”, i figli degli schiavi erano i “mancìpia” (da: manu capere), nome neutro: né maschile, né femminile, una res, una cosa insomma. Se un padrone voleva liberare uno schiavo, o lo schiavo stesso era in grado di riscattarsi, l’atto di liberazione si chiamava “emancipatio” (uscire dallo stato di mancipium). E colui che era stato schiavo si diceva liberto. Oggi emancipazione è parola ancora usata per indicare un istituto giuridico. Ad ogni modo tutti quelli che vivevano in casa, compresi gli schiavi, come ambiente umano della domus, formavano la “familia”. Da “famulus” (amico; ma più probabilmente “in grado di parlare”).
In seguito, quando nella tarda antichità le popolazioni della Slavonia (Sclavi o Slavi) vennero in contatto con i Romani, divennero proprio essi l’ultimo popolo ad essere assoggettato a schiavitù, per cui il termine “slavo” o “sclavo”, da indicazione etnica si generalizzò e andò ad indicare lo stato di appartenenza, per cui fu applicato a quelle persone che precedentemente erano i “servi”; fino a sostituirne affatto il nome. Come in epoche vicine a noi si disse “il negro” o “il negretto”.
Ancora oggi si commettono di questi “errori” – se di errori si tratta – di generalizzazione, facendo significare una cosa diversa da quello che realmente significano parole come: rumeno, albanese, marocchino o zingaro.
Ma l’amore (e la metafora) – ironia della sorte! – fece sì che il termine schiavo passasse poi a chi metteva il suo cuore al servizio di una donna, al cavalier servente, al cicisbeo, all’innamorato, tanto che a Venezia, i più appassionati amanti si dicevano “schiavi” della dama. E poiché lo dicevano in veneziano stretto, ecco che l’espressione “schiavo!” diventa “ciao!”.
In Austria e in Baviera tuttavia il saluto tra i paesani è rimasto “servus”. Ma anche in italiano qualcuno dice “servo suo!”. Tutto questo è un residuo della civiltà curtense.
Chi va in Friuli invece sentirà dire “mandi!”. Che non c’entra niente col mandare (inviare) ma si riferisce piuttosto all’originario verbo latino (mandare) che significa affidare, raccomandare, consegnare un incarico. Quindi il gesto di cortesia dei friulani vuol dire “disponga pure di me”. In altre parole, “Sono suo servo”, “Schiavo suo!”, “Ciao!”.